Bosnia Erzegovina: l’alternativa che non c’è

Sei mesi sono trascorsi dalle grandi proteste di febbraio in Bosnia Erzegovina. Nonostante l’accresciuta partecipazione politica dei cittadini, secondo gli organizzatori, un’alternativa politica non è in vista. Di fronte all’immobilismo delle istituzioni covano nuove proteste

03/09/2014, Andrea De Noni -

Bosnia-Erzegovina-l-alternativa-che-non-c-e

Sarajevo - foto di Elena Pinna

"Quanto abbiamo fatto è stato importantissimo". Non ha dubbi, Ines Tanović, una degli attivisti che più hanno partecipato alle proteste dello scorso febbraio e alla formazione dei plenum, le assemblee popolari "aperte a tutta la cittadinanza" che dovevano riportare i cittadini alla politica e formulare le loro rivendicazioni nei confronti della politica, colpevole di vent’anni di malversazioni. "L’esperienza dei plenum è stata fondamentale", continua, "siamo riusciti a riunire i cittadini, a cercare di renderli nuovamente attivi in politica, a fare sentire la loro voce. Non è stato semplice, ma ha funzionato. I bosniaci, per la prima volta in vent’anni, hanno manifestato tutti uniti. Hanno riscoperto la solidarietà. Dopo le elezioni di questo ottobre, niente sarà più come prima nel paese".

Vai al nostro dossier:
"Bosnia Erzegovina, la rivolta

Poco più di mezzo anno è trascorso dalle grandi manifestazioni di febbraio, che avevano fatto gridare in tanti alla possibile "primavera bosniaca". Tracciare un bilancio di quelle settimane è difficile: da maggio i plenum non battono colpo, quello di Sarajevo ("ma nella capitale è tutto più difficile", puntualizza Ines, "qui tutto ha un significato diverso") si è addirittura scisso in due gruppi. Uno di loro, quello più "massimalista", caratterizzato da una più spiccata coloritura pro-bosgnacca e anti-Dayton, ha continuato a presidiare giornalmente, in gruppetti di mezza dozzina di persone, il marciapiede davanti alla Presidenza.

"Abbiamo avuto problemi con loro fin dall’inizio", spiega la giovane attivista, "con le loro idee, con le loro bandiere con i ljiljani [la bandiera con i gigli, che veniva usata dall’Armija durante la guerra, nda]". Qualche giorno fa, un gruppo formato da questi ‘secessionisti’, riuniti sotto la sigla di ‘Vijeće građana Bosne i Hercegovine’ (consiglio dei cittadini di Bosnia Erzegovina) ha organizzato una protesta a Sarajevo lo scorso 25 agosto davanti alla sede dell’Alto rappresentante internazionale alla quale, però, non hanno partecipato più di venti persone.

Educare una "nazione in PTSD" a partecipare 

Se le proteste di febbraio avranno degli effetti sulle prossime elezioni, a ogni buon conto, Ines ammette che non è chiaro quale forma tali effetti potrebbero prendere, visto che il movimento è sempre stato estremamente scrupoloso nell’evitare qualsiasi contatto con i partiti politici, e ha rifiutato fin da subito di formarne uno proprio. "Il cambiamento ci sarà, ma non avverrà attraverso il voto", puntualizza, in modo quasi paradossale. Il dubbio legittimo è che forse si finirà con il dissipare il capitale politico messo insieme nei mesi scorsi, la voglia di un cambiamento radicale. E che ad approfittarne sia, alla fine dei conti, il tandem tra Željko Komšić (Fronte Democratico, DF) e Fahrudin Radončić (Partito per un futuro migliore, SBBBiH), i quali hanno impostato la propria campagna elettorale proprio sul senso di "alterità" e di opposizione al binomio Partito di Azione Democratica SDA-Partito socialdemocratico SDPBiH.

Certo si è ben lontani dalla possibilità che il DF e il SBBBiH rappresentino quella "alternativa civica" di cui il paese avrebbe bisogno, essendo in fin dei conti il riavvicinamento tra Komšić e Radončić semplicemente una questione interna al campo bosgnacco.

"Quella messa in scena dal DF è la più grande stand comedy di Bosnia ed Erzegovina", è l’opinione, critica, di un’altra esponente del movimento dei plenum di febbraio, Valentina Pellizzer. Per la quale il valore del ‘građanski bunt’, della rivolta cittadina, va ricercato altrove. "Quanto avvenuto con i plenum in febbraio è stato un miracolo, non solo per la Bosnia Erzegovina ma in un certo senso per tutto il mondo. I plenum sono stati, alla prova dei fatti, l’unica rivolta mai sfociata nella violenza. Non è mai diventata un Maidan o una piazza Tahrir, ha segnato un cammino da percorrere, per chi crede nella non violenza anche nel ventunesimo secolo".

Un’esperienza che avrebbe i suoi frutti più su un piano emotivo, ‘educativo’ quasi, che su quello politico. "La Bosnia Erzegovina è un paese che da vent’anni vive in una condizione di sindrome da stress post-traumatico. I cittadini, sono t[]izzati. All’inizio, nessuno voleva lasciarci il proprio nome, i propri contatti, nessuno voleva partecipare. Quanto accaduto a febbraio è stato terapeutico, sotto molti punti di vista. I partecipanti si recavano alle assemblee e parlavano di ciò che faceva male loro da vent’anni, e che non avevano mai avuto la possibilità di dire".

La protesta è morta, viva la protesta

Se l’esperienza dei plenum sembra ormai essere trascorsa, e se difficilmente essa riuscirà a influenzare in maniera visibile le prossime elezioni (in programma per il 12 ottobre prossimo) è però anche vero che lo scontento sociale non si è ancora fermato nel paese. Anzi, nelle scorse settimane nuove manifestazioni – anche se, per il momento, in chiave minore – hanno movimentato la vita dei cittadini bosniaci.

A Tuzla, la città industriale dove "tutto aveva avuto inizio" all’epoca della rivolta popolare dello scorso febbraio, i cittadini sono scesi nuovamente nelle strade. Riuniti attorno al sindacato indipendente ‘Solidarnosti’ manifestano per rivendicare i diritti dei lavoratori, soprattutto di quelli di alcune imprese locali che si trovano in enormi difficoltà dopo processi di privatizzazione finiti malissimo, e che sono lasciati ora senza salario né contributi, in molti casi da mesi.

"Ogni settimana da più di sei mesi i lavoratori manifestano nelle piazze di Tuzla", ha scritto Maja Nikolić su Radio Slobodna Evropa : "Quando, a febbraio, la popolazione aveva cominciato a scendere in piazza, in molti avevano guardato a Tuzla come al fulcro di un nuovo cambiamento per il paese. Tre governi [cantonali] avevano dato le dimissioni, e cittadini e lavoratori avevano creato le assemblee dei plenum. A Tuzla era stato persino nominato un governo tecnico", quello di Bahrija Umihanić, il quale, però, dopo questo periodo ha ulteriormente peggiorato la situazione. Non mantenendo le promesse fatte ai cittadini, soprattutto per quanto riguarda la soluzione della difficile situazione dei lavoratori e la "revisione delle privatizzazioni", e imbarcandosi invece in progetti di legge molto discussi, come quello per esempio di eliminare il concorso pubblico per l’assunzione degli insegnanti nelle scuole del cantone.

"Il nostro governo cantonale, finora, non ha fatto altro che cercare di guadagnare tempo in vista delle elezioni", sottolinea Damir, del plenum di Tuzla, a Osservatorio: "Solidarnosti è un esperimento interessante, una diretta emanazione del plenum di febbraio. I lavoratori erano insoddisfatti del lavoro dei sindacati ‘ufficiali’, che in fondo non sono altro che un’emanazione dei partiti politici. E così ne hanno creato spontaneamente uno, che non fosse legato ad alcun partito e che avesse l’ambizione di acquisire una dimensione nazionale, senza rimanere limitato a singoli cantoni o entità. Queste proteste sono importanti, rivendicare i propri diritti è il primo modo di ritornare ad avere un ruolo attivo nella politica e nella società del nostro paese. Purtroppo", continua Damir, "le autorità stanno ostacolando in tutti i modi le procedure di registrazione del nuovo sindacato. Temono la rabbia dei lavoratori".

Commenta e condividi

La newsletter di OBCT

Ogni venerdì nella tua casella di posta