Bosnia Erzegovina: la leonessa della “Lijeva Obala”
Il secondo di una serie di racconti brevi che prendono spunto dal percorso formativo “Ex Jugoslavia, una guerra postmoderna. Viaggio nel cuore dell’Europa” realizzato nel settembre scorso dall’Istituto storico di Modena
«La Commissione di indagine sui crimini di guerra delle Nazioni Unite
presieduta da Tadeusz Mazowiechi, nel suo rapporto del 1994,
ha dichiarato che la distruzione sistematica della comunità bosniaca
nell’area di Prijedor merita il nome di genocidio».
Luca Rastello
“La guerra in casa”
In un primo momento non voleva incontrarci. Troppo tempo trascorso nel silenzio, troppe delusioni, fors’anche una sorta di – peraltro reciproco – senso di colpa. Anni nei quali le speranze di una nuova vita dopo la tragedia che aveva segnato quella precedente si sono infrante in una dura quotidianità che non ti riconosce nemmeno il dolore, che di nuovo ti respinge e ti discrimina, che ti fa sentire sola, che ti fa capire quanta ipocrisia e falsa coscienza ti circonda.
Finiti gli anni del fervore, quando nel ritorno e nella ricostruzione ti dicevi “malgrado tutto sono ancora qui” e ti sentivi forte di questo e sapevi guardare negli occhi chi ti aveva cacciata e che ora faceva finta di nulla, non è facile trovarsi a dover fare i conti con una realtà dimezzata, negli affetti più cari che se ne vanno e con gli amori che non riescono più a nascere.
C’è un sole ancora caldo a Rizvanovići, uno dei villaggi sulla riva sinistra del fiume Sana, nel territorio della municipalità di Prijedor. Malgrado l’apparente normalità e i fiori alle finestre, ancora si scorgono qua e là i segni di quei tragici giorni della primavera del 1992 in cui venne raso al suolo senza risparmiare nulla, nemmeno i cimiteri o le strade, l’acquedotto o i pali della luce. Nella “Lijeva Obala” si contarono circa millecinquecento vittime. Jasna scappò attraverso i boschi tenendo per mano i suoi due figli piccoli. Una storia simile a quella di tante altre donne.
Era un cumulo di macerie quel che ci si presentò finita la guerra, in queste colline nelle quali era difficile anche solo immaginare il ritorno dei vecchi abitanti. Ponemmo subito all’amministrazione di Prijedor (dove ancora erano insediati i responsabili di quelle distruzioni) come condizione per far giungere gli aiuti ai campi profughi (che ospitavano le vittime di pulizie etniche avvenute altrove) il rispetto del diritto al ritorno (Michele Nardelli è stato promotore di numerose iniziative di cooperazione decentrata nei Balcani, ndr). Era l’autunno del ’96 (a guerra finita, se così si può dire) e alla richiesta di qualche famiglia di rientrare corrispose la distruzione di altre 96 case nella vicina Hambarine. Questo era il clima e ci mancò poco che ci cacciassero.
Invece le cose cambiarono, alcuni dei criminali vennero arrestati e finirono a L’Aja, altri si dettero alla macchia. Il capo della cupola (diventato viceministro degli interni della Republika Srpska) venne ucciso in uno scontro a fuoco con le forze internazionali che lo volevano arrestare. Piano piano, quel tenace lavoro di condizionamento (e di lavoro comune con gli organismi internazionali preposti a garantire i diritti delle persone che avevano subito la pulizia etnica) cominciò a dare qualche risultato. Così nel 2000 iniziarono i primi ritorni a Kozarac e nella Lijeva Obala. Sento ancora l’emozione di quella prima lampadina che con Annalisa1 e le famiglie rientranti accendemmo in uno di questi villaggi. Avvenne in quei mesi quel che sembrava impossibile.
Ora invece quel che più mi colpisce è il silenzio, la mancanza dei suoni della vita, del vociare degli abitanti e delle grida dei bambini. Non avverti più attorno a te la voglia di ricominciare, la forza di quelle donne che con i loro figli avevano scelto di tornare nella loro terra, come se si trattasse di un intimo impegno con chi non c’era più.
Annalisa, che degli anni del ritorno fu protagonista e che oggi è di nuovo qui a condividere questa piccola storia, riesce a strappare almeno un momento di saluto. Trenta persone sono un folto pubblico per chi non se la sente di riprendere la parola.
Lo sguardo di Jasna è ancora lo stesso di quando quasi vent’anni fa l’ho conosciuta, il suo fascino appena scalfito dal tempo. Ma dove prima leggevi fierezza, ora c’è malinconia. Dove non è riuscita la guerra a piegare le persone, c’è un lungo dopoguerra a minare ciò che rimane di questa voglia di resistere. Perché se il ritorno non poteva essere impedito, è il venir meno dello stato di diritto a metterti in ginocchio, nella discriminazione quotidiana verso il diritto al lavoro come nel riconoscimento delle professionalità, nell’istruzione che racconta una narrazione di parte come nel negare il diritto al ricordo di centodue bambini massacrati e fatti sparire negli anni della guerra2.
Dopo l’abbraccio iniziale avverto in Jasna una sorta di inquietudine, se non proprio paura. A Prijedor (e non solo qui, ovviamente) non c’è stata riconciliazione. Certo, il ritorno è avvenuto perché c’era la percezione che le cose qui stessero cambiando e quindi ci fossero un minimo di garanzie affinché una vita normale potesse rinascere in una comunità capace di riconoscere il dolore degli altri. Così quando avviammo il lavoro sull’elaborazione del conflitto fu proprio Jasna con il suo intervento a sciogliere il gelo quando qualcuno disse che quel percorso non si sarebbe potuto realizzare perché intorno a quel tavolo c’erano persone che negli anni della guerra non avevano alzato un dito per impedire il massacro. Almeno ci provammo.
Ma ora il clima è cambiato. I nazionalisti da tempo sono di nuovo al governo della città ed oggi può capitare di incontrare per strada a Prijedor quelli che nel 1992 facevano parte del Comitato di crisi, non solo le figure non particolarmente in vista che pure in un modo o nell’altro parteciparono alla pulizia etnica, ma anche quei criminali che, scontata la condanna inflitta dal Tribunale Penale Internazionale, sono di nuovo liberi, spesso più arroganti di prima nella loro convinzione di essere stati vittime del complotto internazionale contro la nazione serba. Vedere quegli uomini che organizzarono i campi di concentramento di Omarska, Keraterm, Trnopolje, responsabili delle violenze e dell’uccisione dei propri cari, ancora intenti a rivendicare la fine della Bosnia Erzegovina (perché di questo si parla nella propaganda nazionalista in vista delle elezioni politiche del 7 ottobre 2018) non può che farti sentire doppiamente sconfitta.
Ecco che nello sguardo di Jasna non leggi solo la delusione e la tristezza della solitudine, ci trovi il segno di una sconfitta più profonda, come se alla fine di tutta questa fatica ti rendessi conto che a vincere sono stati loro. Saranno forse solo i toni della campagna elettorale per riprodurre l’inganno etnico e mantenersi al potere, considerato che lo status quo di una deregolazione funzionale agli affari fa comodo ai signori della guerra diventati uomini d’affari, ma non dovremo mai dimenticare che talvolta la propaganda invera la realtà.
Comprendo solo ora la ritrosia ad incontrarci, l’angoscia per quel che accade e per non aver più forza e spazio mentale per la speranza. Difficile in questo contesto, più ancora di dieci anni fa, immaginare una qualsiasi forma di riconciliazione.
E così inizi a sentirti estranea ad una realtà e ad una terra che avverti sempre più ostile malgrado sia la tua terra. Tanto che molte persone semplicemente e senza clamore chiudono le imposte, si raccomandano ai vicini che ancora rimangono (forse solo perché sono vecchi e non hanno alternative) di dare un’occhiata e un po’ d’acqua ai fiori e se ne vanno. Questa volta definitivamente.
E’ come se la pulizia etnica iniziata nel 1992 non fosse mai finita. In maniera silenziosa, senza creare clamore e nell’indifferenza di una comunità internazionale distratta e ipocrita, più della metà delle persone rientrate se ne sono andate da Prijedor.
Eppure il riprendere la parola – accanto al richiamo di quello che queste donne hanno fatto per la rinascita dei loro villaggi – allenta la tensione e fa uscire di nuovo la forza di questa leonessa pronta ad aggrapparsi alla vita (una famigliarità che Jasna, un tempo ostetrica, non ha mai smarrito) per ritrovare il senso del suo restare.
Forse solo la sensazione di quel momento, forse il bisogno di accettarci nelle nostre contraddizioni e nelle nostre solitudini, ma rivedere Jasna quella stessa sera al Centro culturale "Osman Džafić" a ballare con questi amici che non l’hanno dimenticata mi ha riportato al valore di una cooperazione che si fonda sulla costruzione di relazioni.
Le relazioni, quel che rimane malgrado le stagioni della vita non si ripetano.
Prijedor, settembre 2018
1 Annalisa Tomasi, una delle promotrici del Progetto Prijedor e per quattro anni, dal 2000 al 2003, delegata dell’Agenzia della Democrazia Locale di Prijedor
2 Ne parlo diffusamente in http://www.michelenardelli.it/commenti.php?id=4169
Pubblicato in concomitanza con www.michelenardelli.it