Bosnia Erzegovina, dall’alluvione ai centri di accoglienza
Sono ancora circa mille i cittadini bosniaci ospitati nei centri di accoglienza temporanea all’indomani delle inondazioni che hanno devastato il paese lo scorso maggio. Né loro, né le istituzioni hanno alcuna certezza su ciò che li attende nei prossimi mesi. E la ricostruzione è piena di incognite
Il militare che mi guida nella caserma cittadina, a Zenica, non sembra essere troppo sorpreso dalla mia presenza. “Ci sono molti giornalisti che vengono qui, televisioni, fotografi”, dice, mentre mi mostra le camerate dove sono ancora alloggiate le persone evacuate dopo le alluvioni dello scorso maggio, “ormai ci siamo abituati. Anche se”, specifica, “non ci sono più così tanti ospiti”. Chi è potuto tornare a casa, dopo queste settimane, lo ha già fatto. “Nel momento della massima emergenza qui c’erano sulle mille, milleduecento persone. Lo dico un po’ ad occhio, era impossibile mantenere efficientemente un registro delle presenze. Adesso, comunque, non abbiamo più di centotrenta ospiti”. In tanti di loro, approfittando della bella giornata, hanno deciso di uscire dal perimetro della zona militare e di cambiare aria, almeno per un paio d’ore.
Quelli che sono rimasti, poche decine di persone, cercano di trascorrere il tempo come possono, per lo più bighellonando: molti di loro vagano senza meta, da una parte all’altra del giardino. Qualcuno resta disteso nelle camerate, a fissare il soffitto. All’ingresso della struttura ho incontrato Suad, di Kolići, un piccolo villaggio dell’area distrutto dalle frane . Con la moglie e i tre figli è riuscito a trovare una sistemazione provvisoria a casa di amici. “Ma mio padre e mia madre sono molto anziani e non hanno dove andare; sono dovuti rimanere qui dentro”.
Sono circa 1.200, secondo le statistiche raccolte dall’ONU, le persone che non hanno ancora lasciato i quaranta centri collettivi dove sono state accolte dopo la catastrofe del maggio scorso. “Ora comincia il mio secondo mese qui dentro”, sospira Ramiza, originaria di Topčić Polje. Ci sediamo insieme, mi mostra una trentina di fotografie tutte con lo stesso soggetto: la sua casa distrutta, sommersa da una valanga di fango. “Qui non ci manca niente. Ci trattano benissimo. Il cibo è abbondante, abbiamo medicinali, tutti sono al nostro servizio e fanno quello che possono. Ma non so cosa farò domani. Non ho un luogo dove tornare. Nessuna novità, nessuna notizia. Niente di niente”.
È questo, il vero dramma di chi non ha potuto fare ancora ritorno nelle proprie abitazioni. Non avere alcuna prospettiva. “Non sappiamo bene cosa fare con questa gente”, mi confida il mio anfitrione in mimetica, “ora è estate, ma in autunno molto probabilmente dovranno andarsene”. Chi è stato costretto a trovare ricovero nelle caserme o nelle scuole spesso appartiene alle categorie più svantaggiate della società bosniaca. Persone che non potevano contare su una famiglia o su parenti dai quali sistemarsi, anche solo temporaneamente, come ha potuto fare la maggior parte degli sfollati. Anziani soli, poveri, madri single. Se dopo cinque settimane dal disastro non sono riusciti a ritornare è perché le loro case non sono più recuperabili, nemmeno parzialmente. Da Topčić Polje viene anche Haso, un veterano della guerra degli anni novanta, invalido: “Non ho nessuno su cui contare”, dice, “per questo sono costretto a rimanere qui”.
Il silenzio delle istituzioni
Secondo indagini condotte dall’IOM (Organizzazione internazionale per le migrazioni), e aggiornate al 14 giugno scorso, qualcosa come il 21% degli sfollati non potrà più fare ritorno nelle proprie abitazioni. La questione che si pone è, molto prosaicamente, cosa fare di loro. Una soluzione va trovata prima dell’autunno, quando le scuole (che ospitano la maggior parte dei centri di accoglienza) dovranno riaprire i battenti per il nuovo anno e non ci sarà più spazio a disposizione degli sfollati.
Su questo, purtroppo, il governo sembra avere le idee estremamente confuse (come confusi sono, del resto, i dati sui centri collettivi: al momento l’unico elenco completo è quello pubblicato sul sito poplave.ba , ma non è aggiornato, per sapere quali sono i centri ancora in funzione occorre armarsi di pazienza e chiamare tutti i numeri, uno per uno; un altro elenco, con i nominativi delle singole persone evacuate è stato compilato dalla croce rossa ed è consultabile a questo indirizzo ).
Nell’immediatezza della catastrofe è stato creato, in seno al ministero per i Diritti umani e i Rifugiati, un gruppo operativo dedicato esplicitamente a questa problematica . Ma uno dei suoi membri, Mario Nenadić, non nasconde il fatto che i lavori siano in una situazione di stallo: “I centri rappresentano senza dubbio un accomodamento temporaneo”, dichiara a Osservatorio Balcani e Caucaso, “al momento, la nostra priorità è aiutare prima di tutto chi ha subito solo danni parziali alla propria abitazione”. Una strategia dettata dal buon senso: “Occorre concentrare le nostre risorse, ora come ora. Sarebbe purtroppo infruttuoso destinare i nostri sforzi per rimettere in piedi gli edifici che sono stati totalmente distrutti. È un compito al di là della nostra portata. Per ora stiamo concentrando la nostra azione in modo da rimandare a casa il maggior numero di persone nel minor tempo possibile”. E gli altri? Nenadić tentenna: “Per loro, occorrerà ancora tempo. Presumibilmente si saprà qualcosa di più dopo la conferenza dei donatori internazionali, che si terrà tra una ventina di giorni”.
Il pericolo della corruzione
Proprio l’approssimarsi di una conferenza dei donatori internazionali sta mettendo in luce le lacune nelle politiche messe in atto dalle istituzioni a vantaggio degli alluvionati.
Innanzitutto, non è ancora chiaro in che modo il governo voglia agire per aiutare le vittime dell’alluvione, che – secondo le ultime stime ufficiali presentate il 18 giugno scorso – avrebbe causato più di due miliardi di euro di danni , una cifra pari a quattro volte il bilancio annuale della Bosnia Erzegovina. Non ci sono, infatti, piani ufficiali. Se in Republika Srpska (una delle due entità di cui è composta la Bosnia Erzegovina) la cosa è stata affrontata con una buona dose di retorica pre-elettorale da parte dell’attuale presidente Milorad Dodik, che ha promesso un indennizzo di 2.500 euro a ogni cittadino colpito (senza badare troppo al fatto che una tale spesa sarebbe impossibile, visti gli attuali buchi di bilancio della Republika Srpska), in Federacija nulla è stato ancora annunciato. Si brancola letteralmente nel buio.
Un altro interrogativo, non secondario, è la possibilità che gli aiuti finanziari dall’estero siano fagocitati dall’inefficienza dell’amministrazione bosniaca e soprattutto dalla corruzione, diffusa a tutti i livelli. “Le istituzioni internazionali non nutrono la minima fiducia nelle nostre capacità di amministrazione”, ha recentemente lamentato il giornalista bosniaco Željko Bajić a Deutsche Welle: “Se, a Sarajevo, le nostre istituzioni sono relativamente sotto il controllo degli organi di polizia e anti-corruzione, nelle amministrazioni locali la situazione è assolutamente catastrofica”. Se gestiti in modo efficiente, gli aiuti per la ricostruzione potrebbero rivelarsi un fattore positivo per il futuro del paese: “La comunità internazionale potrebbe dare questi aiuti finanziari a condizione che i differenti livelli della nostra burocrazia comincino a sviluppare dei meccanismi di cooperazione – tragicamente mancata proprio nei giorni immediatamente successivi all’emergenza – ma francamente”, conclude Bajić, “mi sembra che nessuno abbia le idee troppo chiare su come risolvere questi problemi”.