Bosnia Erzegovina: Bruxelles propone un patto per la crescita
I ministri degli Esteri dell’UE respingono la richiesta croata di assegnare uno status speciale alla Bosnia Erzegovina per accelerarne il percorso di integrazione europeo, ma varano un provvedimento per sostenere la crescita del paese
Anche nel mezzo della crisi ucraina, Bruxelles non dimentica la Bosnia Erzegovina. Il Consiglio UE affari esteri riunitosi il 14 aprile ha infatti affermato di "ascoltare le proteste pubbliche e gli appelli dei cittadini bosniaci" per il miglioramento della condizione socio-economica, e propone il varo di un "patto per la crescita". L’UE è pronta a sostenere Sarajevo nell’identificare le riforme volte a rinvigorire l’economia e creare lavoro. Ugualmente, il Consiglio UE si dice pronto ad espandere l’attuale "dialogo strutturato sulla giustizia" con le autorità statali e le due entità sub-statuali per includervi le questioni di stato di diritto e anticorruzione. Passano in secondo piano le precondizioni di riforma costituzionale legate al caso Sejdić-Finci.
Uno status speciale per la Bosnia?
L’iniziativa per un Consiglio UE dedicato alla Bosnia Erzegovina è venuta dalla Croazia, forse la prima rilevante iniziativa di politica estera in sede UE di Zagabria dall’ingresso nell’Unione. La proposta messa sul tavolo dalla ministra degli Esteri Vesna Pusić era innovativa quanto forse irrealistica: la Croazia proponeva di concedere a Sarajevo uno "status speciale di candidato", bruciando le tappe per portare tutte le questioni aperte all’interno dei negoziati d’adesione. Ciò avrebbe permesso a Sarajevo, tra le altre cose, di superare quelle precondizioni irrisolte, quali la modifica costituzionale resasi necessaria dopo la pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Sejdić-Finci, che al momento ne bloccano il percorso d’integrazione europea.
Parecchi altri stati membri, tuttavia, hanno preferito non introdurre eccezioni alle procedure standard della politica d’allargamento: "Trasformare i Balcani occidentali in [un processo] caso per caso potrebbe portare ad un punto morto il processo d’allargamento, complicandolo e creando regole diverse per ogni paese", ha commentato il ministero degli Esteri della Bulgaria.
Le conclusioni del Consiglio sono state in ogni caso importanti e positive. In primo luogo, perché non era facile portare la Bosnia Erzegovina sull’agenda dell’UE, in questa fase in cui sono altre (a partire dall’Ucraina) le questioni di maggiore preoccupazione per la politica estera europea. Inoltre, perché l’Unione europea si dimostra pronta ad un maggiore coinvolgimento in Bosnia, purché trovi una risposta positiva da parte delle élite politiche locali.
Un "patto per la crescita" per affrontare le radici socio-economiche delle proteste di febbraio
L’UE non dimentica le proteste che a febbraio hanno messo a ferro e fuoco i cantoni della Federazione di Bosnia Erzegovina. Secondo il Consiglio, è fondamentale che le istituzioni bosniache “coinvolgano attivamente la società civile e i giovani e tengano presente i bisogni dei cittadini”, affrontando le questioni socio-economiche, a partire dalla disoccupazione, oltre ad assicurare il rispetto dello stato di diritto e dei diritti umani.
"Semplicemente, non possiamo fare i compiti a casa per loro", ha commentato il ministero degli Esteri slovacco. E il documento del Consiglio sottolinea come sia "responsabilità collettiva di tutti i leader politici bosniaci" far sì che "a tutti i cittadini bosniaci, incluse le nuove generazioni, siano date nuove opportunità."
Come spiegato in dettaglio da Adelina Marini su euinside , per la prima volta l’Unione europea "riconosce i problemi che hanno portato alle dimostrazioni di massa nel paese all’inizio dell’anno e ammette che l’UE può fare di più su questo tema". Il "patto per la crescita" proposto dall’UE vedrebbe la Delegazione UE a Sarajevo lavorare insieme alle istituzioni finanziarie internazionali e al governo bosniaco per "identificare riforme strutturali socio-economiche concrete per rinvigorire l’economia e creare lavoro nel breve/medio periodo".
Di certo una priorità, in un paese in cui la disoccupazione nel 2012 toccava il 44,6%, il 18,6% della popolazione viveva sotto la soglia di povertà (dati 2007), e il salario medio non raggiunge i 400 euro. Il PIL pro capite a parità di potere d’acquisto dei cittadini bosniaci, di poco inferiore ai 10.000 dollari (un terzo dell’Italia, ma anche della vicina Slovenia), ne fa il quarto paese più povero d’Europa dopo Moldavia, Kosovo e Ucraina, per quanto in crescita del 6,5% nel 2013 dopo tre anni di stagnazione. Resta da vedere se i politici bosniaci, già oggetto delle contestazioni pubbliche di febbraio, sapranno cogliere l’invito di Bruxelles.
Rafforzare il dialogo tra i diversi livelli istituzionali bosniaci e l’UE
Il Consiglio UE ha inoltre appoggiato l’idea della Commissione di espandere l’attuale "dialogo strutturato" multi-livello sulla giustizia. Sulla questione si era già esposto il ministro degli Esteri sloveno Karl Erjavec, prendendo spunto dalla formula di dialogo portata avanti da Catherine Ashton tra Serbia e Kosovo. Secondo Erjavec, l’Unione deve rendersi conto che aggiungere ulteriori precondizioni è inutile, e che serve invece un coinvolgimento più serio da parte europea con i diversi leader bosniaci.
Di fatto, questi tavoli informali di consultazione tra paesi candidati e Unione europea ("high level accession dialogues", HLAD) svolgono la stessa funzione dei negoziati d’adesione per quei paesi candidati che ancora non sono arrivati a tale stadio nella procedura dall’allargamento, per stallo interno (come la Bosnia Erzegovina) o per veto esterno (come la Macedonia). E come i negoziati d’adesione, iniziano da quei temi che necessitano di più tempo per una risoluzione, quali le questioni di stato di diritto, corruzione e giustizia.
Per il caso bosniaco, inoltre, questi meccanismi di dialogo politico mediato dalla presenza dell’UE sono fondamentali per superare i possibili blocchi tra i diversi livelli istituzionali che si dividono le competenze in quei settori toccati dalle riforme necessarie all’integrazione europea, portando allo stesso tavolo le autorità centrali di Sarajevo, quelle delle due entità (la Republika Srpska e la Federazione di Bosnia Erzegovina) e i rappresentanti dell’Unione europea.
La struttura istituzionale del paese è d’ostacolo all’integrazione europea
In effetti la struttura istituzionale bosniaca, estremamente complessa e con ben poca collaborazione tra i diversi livelli, si è dimostrata d’inciampo per le relazioni tra Sarajevo e l’UE. La mancanza di un meccanismo di coordinamento unico ha già costretto la Commissione UE a congelare una parte dei fondi di preadesione IPA per il periodo 2007/13, e ha rischiato di mettere a repentaglio anche la partecipazione degli studenti bosniaci al programma Erasmus .
Ugualmente, cinque dei sub-comitati Bosnia/Ue che si dovrebbero occupare di monitorare l’attuazione dell’accordo commerciale ad interim tra i due (l’Accordo di Stabilizzazione e Associazione, firmato nel 2008, è sospeso poiché la Bosnia Erzegovina ancora non rispetta i prerequisiti fondamentali per la sua entrata in vigore) non si sono ancora potuti riunire per mancanza d’accordo all’interno della stessa delegazione bosniaca.
All’orizzonte le elezioni e la riforma di Dayton
Non è chiaro se il sistema istituzionale bosniaco di oggi, derivante dagli accordi di Dayton del 1995 che posero fine alla guerra, sia adeguato a portare il paese all’interno dell’Unione europea. Finora tutti i tentativi di riforma costituzionale si sono arenati per la mancanza di consenso tra i principali partiti politici. Ma parecchi paesi membri UE ritengono che una riforma costituzionale, magari mediata o promossa dalla stessa UE, si renderà prima o poi necessaria per mettere termine al mandato delle istituzioni internazionali che ancora supervisionano il paese.
"Siamo consapevoli che gli accordi di Dayton hanno messo termine alla guerra, ma non hanno creato uno stato funzionale – ha affermato il ministro sloveno Erjavec. Perciò ritengo che l’UE debba mettere in moto e guidare un processo [di revisione costituzionale in Bosnia] appropriato, con il sostegno dei partner internazionali, che sia ben preparato, tempestivo, e soprattutto portato a termine positivamente”.
Ma la riforma di Dayton, così come il percorso di integrazione europea, restano sospese in un orizzonte temporale ancora lontano. Più vicine sono le scadenze elettorali: tanto quelle europee di maggio, quanto quelle bosniache di ottobre. Di fatto, si riparlerà delle strategie per accelerare il percorso d’integrazione europea della Bosnia forse a fine anno, quando a Bruxelles sarà in funzione una nuova Commissione – magari con un mandato unico per allargamento e politica estera – e quando a Sarajevo ci sarà un nuovo governo. Anche se, su quest’ultimo punto, non c’è forse troppo da stare tranquilli: nel 2010 i partiti bosniaci ci misero quindici mesi prima di formare un governo di coalizione, un record battuto solo da Belgio ed Iraq. Non proprio il viatico migliore per accelerare le riforme e l’integrazione europea del paese.