Bonavia, un grande romanzo europeo
La nostalgia per quello che fu la Jugoslavia è comprensibile, ma porta fuori strada. E Dragan Velikić lo descrive bene nel suo romanzo "Bonavia"
(Originariamente pubblicato su www.michelenardelli.it)
«… Si stanno spegnendo gli anni Ottanta. Manca ancora poco perché si crei il ritmo, perché il meccanismo batta il tempo in maniera più veloce e forte, dopodiché tutti loro, poveri e inconsolabili, affonderanno nel tempo eterno della nazione. Si raduneranno sotto le bandiere, lì dove la sconfitta viene cantata come vittoria. Maggiore sarà la sconfitta individuale, maggiore sarà la vittoria per l’intera comunità. La giustizia storica è in arrivo, il tempo della resa dei conti. Una nuova versione della storia. …
L’intelligenza da bar si travasa rapidamente. Gocciola da tutte le parti. La terra si inzupperà di sangue. Finora solo parole vuote che minacciano di soffocare tutto. Siamo solo all’inizio. Incomprensione, confusione, paura. Poi follia. Poco importa se l’origine è nelle soffitte borghesi di Zagabria o nelle pietraie dell’Erzegovina. Quando il primitivismo, il male e la povertà acquistano voce, comincia lo sfacelo. Nulla è più importante. Diventano uguali sia il contadino sia l’inviata in prima linea sul fronte che appare sugli schermi tv con il suo ciuffo viola. E’ l’odio che parla. Finalmente anche noi, scarti degli scarti, abbiamo preso la parola. Successivamente prenderemo gli appartamenti e le pensioni da veterani di guerra. Il momento del primo risveglio. Chi lo avverte in anticipo, chi riesce a intuire cosa cantano i cori notturni diventa l’eroe del nostro tempo. Noi, ladri di cadaveri. Insieme ai giornalisti che arrivano da tutto il mondo per una loro porzione di storia, per riempire le taniche di catarsi e consegnarla agli spettatori nei telegiornali di punta. Assoluzione per tutti.
Guardati intorno. Guarda i terrazzi e i balconi, i corridoi e i cortili. Controlla ogni passo che ti separa da quella cloaca che si chiama città. La candela slava brucia silenziosa, la fiamma glorifica gli spiriti. Mentre a pochi passi fuori dalle case ululano le bestie. Sono i geni degli Scordisci, la tribù maledetta che ricoprì di sputi ferini quelli che da secoli vagavano da queste parti. Quella miseria si trascina, spargendo metastasi. Le fughe sono all’origine delle civiltà. Sul volto celato urla lo sguardo dell’umiliazione primordiale, lo sguardo che continua la catena di una vita senza senso. I colli tozzi degli investitori e dei ladri. Ogni mezzo secolo una nuova razza. Una tribù di passaggio. Arrabbiati e umiliati gridano verità che non durano più di mezz’ora. La puzza della città si innalza fino al cielo. Puzza di verità ufficiali, di menzogne e ipocrisia. Le parole hanno perso il loro significato. I poliziotti proteggono i criminali. Al servizio di coloro che andrebbero arrestati.
Il matrimonio di tutti con tutti. Ognuno ha in pugno l’altro. Come una razza in estinzione, siedono i pensionati sui balconi e sui terrazzi dei loro miseri appartamenti, bevono caffè e fumano. Gli unici piaceri che possono ancora permettersi. Immagini di usura ad ogni passo, dai vestiti consumati agli elettrodomestici. Chi spirerà per primo: i polmoni asmatici di un vecchio o il frigorifero che da mesi produce uno strano rumore? Gli occhi umidi celano le immagini di un’epoca. Da migliaia di anni si alternano a Belgrado civiltà che non durano più di mezzo secolo. E’ così dalla notte dei tempi, dall’epoca dei centauri.
D’estate, quando l’afa scende sulla città e l’asfalto si scioglie per il caldo, si sente il brusio di voci dai caffè in via Strahinjic Bana intorno al parco di Tasmajdan, lungo il boulevard, sulle chiatte. Là gli esemplari di una nuova razza – colli tozzi, muscoli gonfi, fronti basse e occhi piccoli da maiale – sfilano in jeep con a fianco concubine bionde, eterne studentesse di management.
I nomi dei criminali venerati e invidiati. Il ministro degli Interni si rivolge all’assassino del capo di governo dandogli del “signore”. Il sistema vascolare della società è corrotto fino all’ultimo capillare. Tutti hanno le mani in pasta, dai rappresentanti dei condomini, impiegati ed ispettori comunali fino ai presidenti di consigli d’amministrazione, consiglieri di Stato e ministri. Una piramide fatta di mimica e sussurri segreti, di percentuali e bustarelle. Tutto si può comprare e tutti ci sono dentro. Nelle lavanderie e nelle cantine, nei parcheggi e nei parchi, nei terreni comunali e nelle fabbriche statali, negli oleodotti e nelle raffinerie.
La corruzione è profondamente radicata nel carattere e nella mentalità. I crocefissi dondolano sugli specchietti delle jeep scure, luccicano sui petti degli assassini e dei truffatori. L’eroe del nostro tempo è fatto di illusioni e stereotipi. Un misto di bugie a cui egli stesso crede. Le icone sulle porte delle ville di Dedinje chiudono gli occhi per la vergogna».
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Parole, quelle di Dragan Velikić, di grande efficacia descrittiva. Il romanzo di un paese che ha conosciuto insieme alla guerra una delle più atroci sperimentazioni sociali che abbiamo conosciuto dopo la caduta del muro. La biografia di generazioni perdute nello sfacelo dell’orgoglio dei padri e nel cupo riemergere di narrazioni sopite e mai elaborate. Che decidono di andarsene ma che proprio non ce la fanno a recidere le proprie radici, che alla fine ti riportano nell’affascinante teatro di casa.
Questo è Bonavia, un grande romanzo su una contemporaneità che in larga misura abbiamo rimosso e dalla comprensione della quale avremmo potuto capire il significato della postmodernità.
Queste mie parole non vogliono essere affatto una recensione ma semplicemente un piccolo riconoscimento ad una voce raffinata che ci parla dell’identità e della lacerazione nel cuore della vecchia Europa. E, naturalmente, l’invito alla lettura per comprendere, a partire da una storia familiare, cos’era quel paese che non c’è più e verso il quale si prova nostalgia, come se quel che è accaduto non avesse le proprie radici nel contesto precedente, nei suoi miti come nei suoi fallimenti. Fenomeno, la nostalgia, che conosco bene e che pure posso capire, se consideriamo il disastro sociale, culturale e politico che ne è seguito. Ma che porta fuoristrada, lungo le traiettorie del tradimento e del risentimento, nonché largamente auto-assolutorie.
Velikić descrive vicende di una diaspora a lui molto vicina, ma nella quale si possono riconoscere tante famiglie: quelle dell’esodo seguito alle condizioni di favore che la Jugoslavia si trova ad avere per la sua collocazione geopolitica dopo la rottura con Stalin che porteranno valuta pregiata nelle casse dello Stato Jugoslavo, quelle della fuga dalla disintegrazione e dall’arruolamento che necessariamente coinvolge le persone nel “cerchio magico” della guerra, quelle della pulizia etnica che in Bosnia Erzegovina, in Slavonia e in Kosovo coinvolgerà milioni di persone, quelle del cercare fortuna nel mondo per sottrarsi alla miseria e sfuggire al dominio delle mafie e, infine, quella della nuova pulizia etnica in corso che porta chi ha avuto la forza di rientrare a tornarsene nelle terre dell’esilio perché quella non è più la terra conosciuta, perché i signori della guerra hanno vinto, perché passati gli anni può capitare di incontrare per strada i tuoi aguzzini. O semplicemente perché in quella terra non riesci ad intravvedere un futuro.
Una storia che ho ritrovato nei racconti di tanti amici e di tanti giovani e meno giovani hanno deciso di andarsene e in quelli che Osservatorio Balcani e Caucaso – Transeuropa ha raccolto in uno dei suoi dossier intitolato “Via dai Balcani”.