Biljana Srbljanovic: “Siamo un paese di contadini”
Biljana Srbljanovic, belgradese scrittrice di teatro, le cui opere fino ad ora sono state rappresentate in più di 140 teatri in tutto il mondo, intervistata dal settimanale di Spalato Feral Tribune. Nostra traduzione
Di Bojan Munjin, 13 ottobre 2005, Feral Tribune, (tit. orig. Mi smo jedna seljacka drzava)
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Ivana Telebak
I drammi della giovane scrittrice Biljana Srbljanovic (35), "La trilogia di Belgrado", "Giochi di famiglia", "La caduta", "Supermercato", "America, parte seconda" e "Le cavallette", rappresentate fino ad oggi in più di centoquaranta teatri di tutto il mondo, non solo hanno affermato quella che è, fino adesso, forse la migliore scrittrice di drammi della regione jugoslava ma hanno anche promosso l’estremamente spiccata sensibilità della nuova generazione del dopo guerra che con una coscienza rafforzata vede la contemporaneità come un incubo e la vita seguita allo spargimento di sangue soltanto come un capriccio casuale. I suoi drammi sono storie fresche di vita, ma spesso con un linguaggio dell’assurdo mirano a qualcosa di cui nei drammi non si parla direttamente e che come un eco morbido prorompe dall’altra parte della insopportabile tensione psicologica e sociale nella quale lei vive costantemente. Biljana Srbljanaovic appartiene ad una generazione che è stata costretta a mangiare l’uva acerba piantata dalla generazione dei più vecchi, ma tale amarezza ha provocato l’impegno politico del suo continuo conflitto con l’ambiente e l’estetica delle cicatrici non rimarginate e del morire allegro.
Fiori per i carri armati
Come è stata la sua crescita nel periodo del crollo dell’ex stato?
Ero prossima alla maturità quando Milosevic ebbe quel meeting a Usce. Negli anni ottanta ascoltavo gli Azra, Film, Idoli, Rundek, Djavoli, new wave… Andavo al SKC (centro culturale, ndt.) e non ci pensavo se il gruppo Idioti fosse croato o no… Avevo dei genitori severi e non ho viaggiato tanto nella ex Jugoslavia quando ero al liceo: la mamma, il papà, la sorella ed io ogni anno per le vacanze estive andavamo in un autocampeggio vicino a Umag. I miei genitori non erano dei nazionalisti, ma non erano nemmeno impegnati politicamente: erano gente comune che non capiva le tempeste politiche. Da casa avevo appreso che Milosevic ci faceva schifo, ci piaceva Ante Markovic, avevamo i soldi… Tutte le mie emozioni allora erano legate allo status economico della mia famiglia e per me non esistevano altre domande.
Come ha vissuto l’atmosfera sociale di allora?
Mi ricordo il real-socialismo allo sfacelo che non riuscivo a capire; mi ricordo il buio nei palazzi, la stabilizzazione, i buoni per il detersivo e la cauzione per poter uscire dal paese. Le cose non sono crollate di colpo. Diventavano sempre peggio ed ogni volta quando cercavo di tirare una riga e dire che oltre ciò sarebbe stato veramente orribile, dopo una settimana le cose andavano molto oltre quella riga, e io non mi accorgevo nemmeno. Sono cresciuta in periferia, a Banjica, vicino all’ospedale militare e vicino alla pista per gli elicotteri. Il segno che c’era qualcosa di anomalo era il rumore degli elicotteri, dieci volte al giorno, dai quali portavano fuori dei feriti. Mi ricordo la mobilitazione dei miei compagni di scuola, che tenevano per mesi nelle caserme a Banjica. Gli compravo le sigarette e trascorrevo con loro le giornate vicino al filo spinato della caserma, invece di trascorrerle nel palazzo dove siamo cresciuti, tre isolati più lontano.
Quali erano i suoi sentimenti personali all’inizio della guerra?
Studiavo alla Facoltà di belle arti a Novi Beograd, ogni giorno attraversavo l’autostrada e là che ho iniziato ad incontrare le persone che stavano lungo la strada con i fiori per buttarli davanti ai carri armati che transitavano. Le cose diventavano sempre più banali ed io allora vedevo il mondo come un mucchio di pezzettini e di suoni insignificanti che all’improvviso creavano una quinta acustica, che iniziava a riempire tutta la tua vita. Non erano momenti in cui ti potevi fermare, riprenderti e capire cosa sta accadendo. Tutto era molto grigio, buio e deprimente.
Mi sentivo sconfitta, e non sapevo esattamente il perché. Allora iniziai a pensare più seriamente e a frugare e notai che delle altre persone si stavano organizzando, che erano contro tutto quanto accadeva e con loro iniziai ad uscire sulla strada e ad urlare. Poco tempo fa in un documentario dell’inizio degli anni novanta ho visto me stessa, durante le prime elezioni, nel gruppo dell’opposizione democratica contro Milosevic. Il primo turno lo abbiamo vinto noi, io grido "Vracar è nostro", mi sembravo una bambina del secolo scorso. Naturalmente, non abbiamo vinto.
Come era l’atmosfera all’Università?
Io ero al primo anno dell’accademia e per me si stava aprendo il mondo, ma stavo vivendo una vita parallela perché intorno a me c’erano i feriti, c’era l’esercito e i carri armati, ti facevano vedere tutto questo in televisione nonostante non fosse pubblicato nulla ufficialmente. In quel periodo andavo in cineteca e guardavo i film di Claude Chabrol e di John Ford con la mia classe dell’accademia, e nessuno di loro dormiva nelle proprie case perché tutti avevano paura della mobilitazione. Non sentivo il momento che da lì in poi tutto sarebbe diventato orribile e in cui mi sarei potuta sedere e mettermi a piangere, ma sentivo di affondare piano piano. Mi ricordo l’inizio della guerra a Sarajevo, era il sei aprile e io dalla parrucchiera nel mezzo di un mucchio di donne osservavo per ore una televisione con il tono abbassato, muto, come alcuni poveretti stavano cercando di attraversare la strada mentre si sentiva il rumore della mitragliatrice. La guerra appariva orribile, e non maestosa come nelle Kapelski kresovi (una serie degli anni settanta sui partigiani, ndt.)… Mi sembrava orribile fare la piega dalla parrucchiera mentre là stava scoppiando la guerra.
C’è stata una stratificazione politica dei giovani della sua generazione?
L’unica stratificazione nella mia generazione era tra quelli che non volevano essere informati e per questo ci offendevano, e dall’altra parte c’eravamo noi, impegnati nel modo giusto. Ma si trattava di Belgrado e della popolazione studentesca dell’accademia teatrale, inteso come un gruppo molto isolato che era raccolto in modo naturale attorno all’opposizione. Tale opposizione era principalmente contro la guerra, ma perché il nostro comune nemico era Slobodan Milosevic. E là sta la nostra colpa; tanta gente era contro la guerra perché era contro Milosevic, ma se al potere ci fosse stato Vuk (Draskovic) allora forse sarebbero stati a favore di quella guerra. Per me all’inizio degli anni novanta non si poneva la domanda su cosa abbiamo perso come Stato comune, ma cosa noi serbi stiamo facendo all’altra gente. Ero troppo giovane per pensare allo sfacelo e abbastanza vecchia per capire il significato dell’aggressione.
Coprire gli occhi
Dove inizia per lei il problema dell’orientamento nazionale?
Il problema sta nell’immaturità della scelta nazionalistica. Amare in modo patriotico la propria nazione non è niente di vietato, ma è soltanto necessario volerle bene, e volere bene alla propria nazione non significa augurarle guerre, scontri, battere la testa contro il muro, idiozia, analfabetismo e disinformazione. Oggi il nostro governo viene fuori con la proposta di risolvere lo status del Kosovo secondo il principio la nostra polizia-la nostra moneta-il nostro esercito, dunque richiede qualcosa che non esiste più nemmeno in Montenegro, e si aspetta che venga accettato dal popolo contro il quale faceva la guerra fino a ieri. Questo chiudere gli occhi davanti alla realtà mostra che in sostanza si tratta di un nazionalismo falso, di una sorta di parata e del lavarsi la coscienza perché se questi nazionalisti amassero veramente così tanto il proprio paese e la nazione, allora probabilmente avrebbero pensato qualche variante più progressista per quel paese.
In che modo spiega questa immaturità nazionale?
Si tratta di un nazionalismo primitivo, direi di un anacronismo. Noi siamo un paese di contadini: se qua il re lo chiamavano "zio Pera", qualcosa come un beniamino, allora esiste solo un grado fra quelli che son più in basso e i sovrani – tutti si danno del "tu". E quando odiamo Milosevic, noi lo chiamiamo Sloba. Noi in tutto e con tutti abbiamo un rapporto personale nel quale non c’è autorità e disciplina e per cui non riusciamo a mettere nulla in ordine. Parte della nostra mentalità è una specie di energia anarchica incontrollata che di solito viene incanalata nel male. Per cui il nostro nazionalismo è essere contrari alle leggi elementari della fisica e ai fatti approvati empiricamente. Noi per esempio crediamo che la nostra scuola sia una delle migliori al mondo, sebbene realmente secondo le ricerche si trovi al penultimo posto in Europa o che abbiamo la migliore compagnia aerea nonostante essa non lavori affatto. Il nostro nazionalismo invece di sviluppare l’alfabetismo e la cultura, ha sviluppato l’ottusità ed è diventato l’ultimo rifugio per i vagabondi.
Sembra che la situazione in Serbia assomigli costantemente all’atmosfera del film "Ko to tamo peva"?
L’intero paese assomiglia ai drammi di Dusan Kovacevic, ma la sostanza sta nel fatto che bisogna desiderare un paese diverso senza i suoi drammi. Io fra l’altro amo i suoi drammi, ma essi adulano ciò che è di più basso in senso nazionale, perché rendono ridicola ogni nostra caratteristica più ripugnante. In qualche modo siamo contenti di vivere come nei drammi di Dusan Kovacevic, e si tratta della variante peggiore. Fra l’altro bisogna dire che Dusan Kovacevic non è soltanto un "osservatore": la sua scelta intellettual-politica e la gente che gli sta attorno genera una tale realtà per far sì che diventi così com’è e lui in effetti ama questa realtà.
L’incubo della vita
Così dentro di lei già all’accademia iniziava ad abitare un sentimento infelice che l’avrebbe portata verso i suoi drammi?
Io ho un grosso problema con le istituzioni e con le gerarchie di ogni tipo perché dentro di me esiste costantemente una sorta di nichilismo sociale. Mi sono formata molto di più sulla protesta di ciò che mi offrivano che su un chiaro sistema concepito personalmente. Da una parte sono una grande secchiona e ho costantemente l’impressione di essere alla scuola serale, e dall’altra parte i miei pensieri si riversano in modo caotico nell’imbuto di un oscuro orientamento. Sono le caratteristiche della mia personalità, ma anche della nostra mentalità. In questi posti si mette in discussione continuamente tutto ed io personalmente metto sempre tutto in discussione; me stessa, le persone che mi stanno attorno, le leggi, lo stato, la lingua… Noi mettiamo in discussione la legge della gravità perché non crediamo in nulla.
Così si è creato quello spleen di pesantezza e inutilità, così caratteristico dei suoi drammi.
Personalmente ho iniziato per caso a scrivere per il teatro, perché il dramma "La trilogia di Belgrado" era il mio lavoro di laurea. La mia scrittura non è stata il frutto del desiderio di dire qualcosa al mondo, ma è uscita semplicemente dalla mia personale sciagura e dall’incubo della vita: perché non riesco a sognare, perché ho sempre i piedi nel fango, perché non ho un appoggio solido… Dall’altra parte, esiste anche una mia realtà parallela, e quello è il mio impegno sociale. E’ una inflazione di parole dove parlo tantissimo e dove sono rimasta senza voce nel cercare di convincere. Nelle costanti sorprese, attacchi a spiegazioni e monologhi da maratona con il mondo, ne dico di ogni, sbaglio e mi vergogno di me stessa, ma partecipo al cento per cento.
Come si sente quando rimane da sola con gli eroi dei suoi drammi?
E’ un mondo molto tranquillo: io scrivo di qualcosa che mi duole tanto e per questo il mio scrivere è molto intimo. Non è un dramma sociale nonostante la gente lo giudichi in modo: "siamo noi, la nostra mentalità, la gente comune, gli emigranti…" I miei drammi sono su ciò che io ho perso e sulla depressione che provo per tutto ciò. Non sono una donna preoccupata a causa della situazione sociale e triste a causa dell’odio della vita, ma ho dei miei dolori che mi porto dietro e essi riguardano la mia vita, nella quale ho perso degli amici che sono morti o si sono trasferiti…
L’euforia e la depressione
Con tutto ciò, se mi permette, è diventata una stella internazionale con i crediti negativi dell’impegno politico.
Non ho alcuna importanza perché il teatro è una cosa di poca importanza che non cambierà mai nulla nella vita di ciascuno. Forse ho avuta la fortuna di aver avuto successo e che la gente mi ha visto in televisione. Per cui posso dire qualcosa in pubblico, in ristorante posso avere la bistecca migliore, la gente ha bisogno di dirmi qualcosa, ciò può sembrare simpatico, ma è molto importante non pensare mai e poi mai di essere diventata "qualcuno importante".
In tutto ciò, cosa per lei è importante?
Realizzare qualche equilibrio fra l’euforia e la depressione personale. Continuamente rifaccio le cose sulla scena pubblica come una cattiva attrice, ma la cosa importante per me è di essere intimamente spinta perché tali oscillazioni possono avere delle conseguenze per la mia salute che curo con la quiete e con qualcosa che si chiama la vita di provincia, che fra altro disprezzo. Gli ultimi due anni per motivi personali li ho trascorsi in Francia dove sono completamente anonima e la gente non sa né che aspetto ho né che vivo là. E’ una specie di schizofrenia; vivo con pranzi domenicali, con bei vestiti, con i soldi sul conto e avrei paura se non ci fossero, con gli amici stretti… Se non avessi questa base provinciale, non potrei fare nulla.
Crede in qualcosa come gli angeli custodi?
No. Credo nei diavoli tentatori. Quello in cui credo è l’equilibrio universale: tutto quello che lanci nell’universo balzerà contro qualcosa e prima o poi ti tornerà indietro. Questo la gente lo deve sapere e si deve comportare di conseguenza. L’idea che esista la vita eterna è il mio incubo e ciò che di più spaventoso possa immaginare ed è ciò che non desidero. Io credo nel bene e nella giustizia, ho persino la prova materiale, l’esempio più banale è Milosevic, che è finito all’Aia, ma tutto ciò che succede intorno a me mostra il contrario.
Mi sembra che nei suoi pezzi manchi un amore realizzato o almeno un po’ di calore?
Nei miei brani non c’è odio, ma la gente si lacera per amare e per essere amata o almeno per essere rispettata. I miei pezzi sono apparentemente ruvidi, ma ciò è dovuto da un bisogno di mostrare in quel modo l’amore perché non è manifestato diversamente. Nelle "Cavallette", il mio ultimo pezzo, la gente vorrebbe amarsi, ma non riesce a farlo: ti viene in mente sempre in ritardo che non hai fatto vedere qualcosa a qualcuno, che non hai amato, che non hai saputo amare, lo sapevi ma non l’hai fatto. I miei drammi sono storie sull’amore non ricambiato nel mio ambiente e dentro di me: fra i genitori e i bambini, nelle relazioni tra partner, nell’amore per la verità o per l’idea del bene. Si tratta della mia esperienza intima che mi ha segnato in modo significativo. L’amore non è qualcosa che ho visto troppo nella mia vita.