BiH: la tragedia di Donja Jablanica, ancora senza risposte

Un terzo delle cave in Bosnia Erzegovina sono illegali e rappresentano un pericolo per la popolazione: emblematica la tragedia di Jablanica, dove enormi pietre estratte da una cava sono precipitate su un villaggio contribuendo alla morte diciannove persone

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Cava in Bosnia Erzegovina (foto S. Mlađenović Stević)

Ci sono pochi luoghi al mondo dove le cave rappresentano un pericolo così grave per l’incolumità dei cittadini e per la sicurezza dei loro beni come in Bosnia Erzegovina. Lo conferma un’analisi secondo cui un terzo delle cave presenti sul territorio della BiH opera senza permessi validi o con una documentazione parziale.

L’anno scorso, nel giro di pochi mesi, si sono verificati due gravi incidenti: un’operazione di abbattimento illegale in una cava nel canyon di Mostarska Bijela, quando un’intera collina è crollata nel fiume Neretva, e una tragedia senza precedenti a Jablanica, dove enormi pietre estratte da una cava sono precipitate su un villaggio, situato ai piedi della montagna, distruggendolo completamente.

Già nel 2012, Miro Mehmedbašić, ispettore capo tecnico della Federazione BiH, aveva lanciato l’allarme: “In Bosnia Erzegovina, per ogni cava che opera legalmente ce ne sono altre due illegali”.

Che la situazione sia ancora la stessa, se non peggiore, lo può constatare chiunque attraversi la Bosnia Erzegovina osservando le colline spogliate di preziose pietre da costruzione.

Il cattivo funzionamento dei meccanismi di rilascio delle concessioni e di monitoraggio dei lavori nelle cave, la malagestione delle cave e la tendenza a ignorare gli avvertimenti lanciati dalla popolazione delle aree a rischio, sono solo alcuni dei motivi di preoccupazione legati al costante ampliamento dei terreni per l’estrazione di sabbia e pietra per rispondere alle esigenze del settore edilizio in Bosnia Erzegovina.

Le cave spuntano in modo incontrollato, nelle immediate vicinanze dei centri abitati e delle strade, in prossimità dei terreni disboscati e di quelli colpiti da frane. Molte cave “provvisorie”, legate a determinati progetti di costruzione, operano illegalmente, lasciando i terreni irrimediabilmente devastati.

Considerando poi la mancata applicazione del principio di risarcimento del danno ambientale – provocato dall’utilizzo improprio degli impianti o da qualsiasi altro intervento sull’ambiente naturale – per un importo che dovrebbe essere proporzionale al valore economico e ambientale del bene distrutto, è legittimo affermare che il patrimonio naturale e i cittadini della Bosnia Erzegovina non sono protetti in modo adeguato, mentre i responsabili della devastazione dell’ambiente sfuggono abilmente alla giustizia.

Le conseguenze della frana a Donja Jablanica (foto Hanadi Maslo)

Le conseguenze della frana a Donja Jablanica (foto Hanadi Maslo)

Donja Jablanica

Le alluvioni, che il 4 ottobre 2024 hanno colpito la popolazione di Donja Jablanica, nell’Erzegovina, hanno causato diciannove morti. Secondo il programma satellitare europeo Copernicus , circa settecento edifici, più di 18 chilometri di strada e gran parte della linea ferroviaria che attraversa Jablanica sono stati distrutti da irruente inondazioni e frane con tonnellate di pietre precipitate da una cava situata a soli cinquecento metri dal centro abitato.

Nonostante la normativa vigente in materia di ricerca mineraria e geologica non preveda una distanza di sicurezza da rispettare, è poco probabile che il titolare della concessione abbia ottenuto i permessi ambientali e urbanistici necessari per aprire una cava a poche centinaia di metri dal villaggio.

Tuttavia, la cava di Jablanica, visibile a occhio nudo dalla strada statale M17, è senza dubbio attiva da anni. Poco prima della tragedia, la popolazione locale ha visto alcuni macchinari in azione nell’area della cava.

È chiaro che le autorità bosniaco-erzegovesi non hanno imparato nulla dall’esperienza delle inondazioni catastrofiche del 2014. Secondo Nermin Nikšić, primo ministro della Federazione BiH, il sistema non è fallito nel caso di Jablanica, nonostante nessuno abbia reagito all’allarme lanciato tempestivamente dall’Agenzia per il bacino del mare Adriatico in merito a possibili inondazioni e frane in quell’area.

Negli ultimi vent’anni, gli abitanti di Donja Jablanica hanno ripetutamente denunciato alle autorità la posizione problematica della cava, situata su una collina ripida e accidentata, a poche centinaia di metri dal villaggio e dalla strada statale.

L’autopsia ha dimostrato che la maggior parte delle vittime di Donja Jablanica è morta sommersa da frane e non da un torrente d’acqua. Non vi è quindi dubbio che la causa principale della tragedia siano state le pietre estratte dalla cava e poi precipitate sul villaggio.

Nelle fotografie disponibili si vede chiaramente il tracciato scavato dal corpo di frana trasportato dall’acqua verso il centro abitato. A sette mesi dalla tragedia, ancora non è stata ufficialmente avviata alcuna indagine.

Il silenzio e i tentativi di insabbiare la vicenda

Durante le alluvioni dell’ottobre 2024 Hanadi Maslo ha perso un figlio non ancora nato. Nella notte del 4 ottobre un forte temporale con pioggia battente ha svegliato Hanadi nella casa dei genitori di suo marito a Donja Jablanica. La pioggia ha provocato un’alluvione improvvisa e Hanadi è riuscita a malapena a salvarsi.

I muri della casa sono crollati, travolti da una valanga di acqua, fango e rocce. La donna si è lasciata trasportare dal torrente, finendo tra le macerie a poche centinaia di metri dalla casa. La battaglia per sopravvivere si è protratta per ore, fino a quando Hanadi non ha trovato un riparo.

Tuttavia, colpita da questa violenta alluvione, accompagnata da frane, la donna, in quel momento all’ottavo mese di gravidanza, ha perso il bambino. Aveva tre costole rotte e un polmone perforato, consolandosi però col fatto che suo marito e la sua famiglia erano al sicuro.

Sette mesi dopo, Hanadi si batte insieme agli altri abitanti di Donja Jablanica, ancora sfollati, per la verità su quanto accaduto e per ottenere informazioni attendibili sulla sicurezza del luogo colpito dalla tragedia, in attesa di un risarcimento e dell’individuazione dei responsabili.

“Non ci fermiamo, protestiamo, chiediamo risposte. L’attuale élite al potere ha rubato tanto e ora cerca di insabbiare tutto", afferma Hanadi, che attualmente vive a Mostar con suo marito. La donna spiega che non tornerà mai più a Donja Jablanica.

Hanadi Maslo (foto archivio privato)

Hanadi Maslo (foto archivio privato)

La maggior parte dei sopravvissuti dovrà affrontare le conseguenze del trauma per il resto della propria vita. Solo pochi vorrebbero ritornare, se e quando sarà possibile. Alcuni hanno perso nove membri della propria famiglia nelle inondazioni. Attualmente tutte le case sono inagibili, quindi la popolazione si arrangia come può.

Da mesi ormai le autorità bosniaco-erzegovesi a tutti i livelli rifiutano di assumersi qualsiasi responsabilità per le attività svolte nella cava di Jablanica. L’impianto, a quanto pare, non disponeva delle autorizzazioni regolari, nonostante fosse attivo dall’inizio degli anni 2000 su un terreno di cui il governo cantonale è proprietario di maggioranza. L’azienda che gestisce la cava ha beneficiato in più occasioni di incentivi erogati dal cantone per lo sviluppo dell’economia locale.

Le indagini, condotte dalla procura del cantone dell’Erzegovina-Neretva, sono ancora in fase preliminare, concentrate sulla raccolta delle prove per accertare la responsabilità per la morte di diciannove persone e la distruzione del villaggio.

I fondi statali destinati alla riparazione dei danni causati dalle alluvioni dello scorso ottobre – danni nel caso di Jablanica stimati in 26 milioni di euro – come anche numerose donazioni provenienti dalla diaspora e dalla comunità internazionale, sono ancora bloccati dalle istituzioni statali. Ad aiutare concretamente la popolazione colpita sono stati l’associazione Pomozi.ba , singoli cittadini, altruisti e familiari delle vittime.

Ancora in cerca di risposte, dopo le proteste organizzate ad aprile a Sarajevo, una delegazione di studenti e familiari delle vittime ha accettato un incontro con Nermin Nikšić, premier della Federazione BiH, invitandolo a incontrare anche la popolazione locale e proponendo le date per una visita a Donja Jablanica.

“Non si sono mai presentati. Sono venuti solo [alcuni esponenti del governo] per farsi fotografare in occasione dell’inaugurazione di una strada statale recentemente ricostruita. Nient’altro!”, denuncia Hanadi, visibilmente delusa, e aggiunge: “Donja Jablanica è un esempio lampante dell’incompetenza dello stato. Questo il messaggio ai pupazzi che ci governano: se non siete capaci di fare il vostro lavoro, andatevene! Ci sono persone capaci che meritano le vostre poltrone e gli stipendi stratosferici. Andatevene, avete già fatto abbastanza per farci litigare e per spingerci a lasciare le nostre case!”.

Le autorità conniventi

Cinque mesi prima della tragedia di Donja Jablanica, un’intera collina nel villaggio di Bijela, nell’Erzegovina, è crollata precipitando nel fiume Neretva. La causa – un’operazione illegale di abbattimento di rocce in una cava situata nei pressi del villaggio.

“È curioso notare come entrambi gli incidenti si siano verificati nel cantone dell’Erzegovina-Neretva. Il primo è accaduto nella valle di Mostarska Bijela, dove le operazioni di abbattimento in una cava – peraltro non illegale – sono state effettuate in modo da far precipitare un’intera collina in un ramo del lago Salakovac, e nessun pescatore o passante è morto solo per pura fortuna. Anche in questo caso le istituzioni non hanno reagito”, spiega Anes Podić dell’associazione ambientalista Eko Akcija.

Podić sottolinea che quello dell’Erzegovina-Neretva è l’unico cantone della Federazione BiH a non disporre di una legge sulle foreste che permetta di proteggere il patrimonio forestale, in attesa dell’adozione di una legge quadro sulle foreste, da decenni ormai bloccata da alcune forze politiche.

“Il disboscamento illegale e gli incendi boschivi – fenomeni in forte aumento proprio perché nessuno si occupa delle foreste – hanno portato all’intensificarsi delle inondazioni e degli effetti delle forti piogge, mietendo molte vittime”, spiega l’attivista.

La situazione in Bosnia Erzegovina, a differenza di molti paesi dell’Europa occidentale, è caratterizzata da leggi inadeguate, istituzioni inefficaci e, di conseguenza, pratiche corruttive nell’assegnazione delle concessioni.

“Non tutti – denuncia Podić – possono aprire una cava in Bosnia Erzegovina. Lo fanno le persone legate strettamente, e in vari modi, all’élite al potere. Le ispezioni sono ovviamente l’ultimo dei loro problemi.

Il numero di vittime a Jablanica sarebbe stato molto inferiore se non fosse stato per quella cava. E la procura è ancora distratta dalle indagini preliminari, nonostante la topografia di quel terreno sia perfettamente chiara. Non servono le immagini Lidar 3D, richieste dalla procura, per noi è chiaro cosa è successo”, sottolinea Podić.

Cosa accadrà quando non ci sarà più nessuno a protestare?

In Bosnia Erzegovina non esiste alcun registro centrale delle cave. Nel settore minerario, compresa la documentazione riguardante le autorizzazioni rilasciate, le competenze sono suddivise tra entità, cantoni e comuni.

Stando ai dati emersi da un’inchiesta condotta da Radio Slobodna Evropa in cinque paesi dei Balcani, delle 1.350 cave individuate grazie alle immagini satellitari, quasi la metà opera senza le autorizzazioni necessarie.

La ricerca ha dimostrato che sul territorio della Bosnia Erzegovina ci sono più di 440 località in cui si trovano cave di vario tipo, legali e illegali, piccole e grandi, alcune abbandonate da tempo, altre in rapida espansione.

In Bosnia Erzegovina non esiste nemmeno un registro dei titolari delle concessioni e la politica in questo settore, a giudicare dai recenti fatti, favorisce gli investitori ai danni dell’ambiente e della popolazione locale.

“Negli ultimi trent’anni – spiega Anes Podić – i nostri beni sociali e ambientali sono stati oggetto di continui saccheggi. Prima hanno distrutto le nostre aziende, poi tutto il resto. In questo contesto, la normativa in materia di concessioni svolge un ruolo molto importante essendo concepita in modo da agevolare un processo decisionale lontano dagli occhi e senza alcun coinvolgimento dell’opinione pubblico. Stiamo svendendo le nostre risorse senza ottenere nulla in cambio”.

Podić poi sottolinea che il settore non governativo, pur essendo molto attivo e impegnato nella tutela dell’ambiente, semplicemente non riesce a controllare tutti gli accordi dannosi con cui la leadership al potere mette a rischio le risorse della Bosnia Erzegovina.

Una tendenza agevolata dalla carenza di personale e di risorse finanziare destinate agli ispettorati competenti, nonché da una magistratura corrotta. La società civile deve fare i conti con un altro aspetto sconfortante: alcune aree della BiH, caratterizzate da uno straordinario patrimonio naturale, si stanno spopolando, rischiando di diventare oggetto di sfruttamento sfrenato delle risorse.

“Cosa accadrà quando non ci sarà più nessuno a protestare?”, chiede con preoccupazione Anes Podić.

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