Serbia | | Diritti, Società civile
Belgrado, capitale della Queeroslavia
Sei anni fa si svolgeva la prima edizione del Queer Beograd Festival, organizzato dal collettivo Queer Beograd. Ripercorrendone la storia, parliamo di linguaggio, avventure e immaginario dei movimenti LGBT e queer in Serbia
Nel 1994 veniva depenalizzata in Serbia l’omosessualità (maschile, quella femminile non era prevista). Nel 2001, nell’indifferenza delle forze dell’ordine, la prima sfilata dell’orgoglio LGBT e queer belgradese veniva repressa con violenza dai contro-manifestanti (estremisti religiosi e nazionalisti), guadagnandosi così l’ironico soprannome di “parata del massacro”. Da allora è abitudine sentire parlare dei (tentativi di) Pride in Serbia e dei problemi che li accompagnano. Ma cosa fanno i gruppi LGBT e queer di Belgrado fra una scarica di botte e l’altra? Qui parliamo del collettivo Queer Beograd, dei festival che ha organizzato e delle parole che ha inventato per spiegare cosa vuole cambiare.
Benvenut* in Queeroslavia
Il primo QB Festival si svolgerà dal 3 al 7 maggio 2005. È organizzato dal collettivo omonimo, formato nel 2004 da sette ragazze e un ragazzo, che si definisce radicale, internazionale e queer. Non a caso, sui volantini si legge che il festival si terrà a “Beograd, Queeroslavija”. Una Jugoslavia queer in un edificio abbandonato della capitale serba. E non è un capriccio estetico: quando l’identità nazionale è legata a doppio filo con il tradizionalismo di genere (come spesso accade), e quando questo si manifesta in forma così violenta come accade nei Balcani, entra in serio conflitto con un’identità di genere od orientamento sessuale “alternativo”.
“La Serbia è per i serbi, non per i gay”. Questo gridavano gli estremisti nel 2001, mi racconta Ksenija. “Andate in Croazia! Poi sono andata al Pride in Croazia e ci gridavano: andate in Serbia!”. Qualche mese più tardi, al secondo festival tenutosi a dicembre 2005, Maja mi dirà: “Io non ho un’identità nazionale. Non sono slovena, sono di Lubiana”. Questo conflitto coinvolge sia l’identità femminile che maschile: chi non aspira ad essere un soldato modello o una madre devota è fuori dai confini ideali della nazione. “Negli anni novanta, ad esempio, essere gay significava essere spazzatura, un traditore della patria”, ricorda Boban.
La Queeroslavija è quindi un’invenzione allo stesso tempo nostalgica e utopistica: fantasticando di uno spazio comune libero da nazionalismi (come la Jugoslavia aspirava ad essere) ed aperto alle diversità, rappresenta un Paese che non esiste più e non esiste ancora, dove ogni soggetto può trovare piena cittadinanza anche se “eccentrico”, “queer”. Ma queer è un’invenzione anglosassone, si sono chiesti spesso gli attivisti: che cosa vuol dire “queer” in Serbia?
Come si dice “queer” in serbo?
L’elaborazione del concetto di “queer” nel contesto locale (serbo) e regionale (balcanico) è molto discussa dagli attivisti nel corso degli anni, ed è fra le tematiche principali della seconda e terza edizione del QB Festival. C’è chi pensa che sia un mero concetto d’importazione anglosassone, una moda sterile che nulla ha a che vedere con le realtà e le identità delle minoranze di sesso, genere e orientamento nell’universo balcanico. Ma l’elaborazione teorica del collettivo va alla ricerca di una traduzione, a livello linguistico e politico, e la presenta nel manifesto del terzo festival (ottobre 2006):
"In serbo non c’è una parola che significa queer, che possa spiegare perché diciamo queer e intendiamo qualcosa che va oltre la non-discriminazione per le persone LGBT. Queer per noi è un termine radicale, inclusivo e creativo che accomuna tutte le forme politiche di lotta contro l’oppressione. Per questo il nostro nuovo festival si chiama Kvar [disfunzione], un termine tecnico che indica il malfunzionamento di una macchina, perché in questo mondo di capitalismo, nazionalismo, razzismo, militarismo, sessismo e omofobia noi ci vogliamo celebrare come un guasto degli ingranaggi".
Così come queer è un termine dispregiativo fatto proprio dalla cultura delle minoranze sessuali, la traduzione serba è un’operazione sovversiva che trasforma la marginalità e il discostarsi dalla norma in valori di emancipazione: se la macchina della normatività è profondamente ingiusta e discriminante, un guasto non può che essere una buona notizia. E se l’ultimo libro della celebre studiosa queer Judith Jack Halberstam parla di queer come “arte del fallimento”, non si può certo dire che il movimento queer serbo fosse rimasto indietro. Salutiamo quindi ogni pregiudizio per cui i movimenti LGBT e queer balcanici sarebbero al costante inseguimento, in una traiettoria lineare, del pensiero e delle conquiste occidentali. Proviamo invece a dare una rapida occhiata alla situazione attuale dei movimenti LGBT e queer in Serbia, con un occhio all’Italia e all’Europa.
“Tutto il mondo è paese”? Fra Stato ed Europa
“Tutto il mondo è paese” è quanto sospira Slaviša, raccontandomi delle divisioni interne al movimento LGBTQ serbo. L’anno scorso, infatti, sia in Italia che in Serbia l’organizzazione del Pride è diventata teatro di forti scontri fra associazioni. Nel caso serbo, sono stati i gruppi queer ad uscire dal consorzio organizzativo a causa di conflitti con i settori maggioritari del movimento LGBT. La divisione, per quanto spesso controproducente nei rapporti con l’esterno, riflette però un divario autentico fra premesse ideologiche e politiche diverse.
Come anche in Italia e in altri paesi sulla strada dei diritti civili, il movimento si divide fra aspirazioni “assimilazioniste” (direbbero gli antagonisti) e “antagoniste” (direbbero gli assimilazionisti). Ovvero, da un lato la volontà di intrecciare rapporti con le istituzioni statali ed ottenere pari diritti all’interno delle strutture sociali tradizionali (ad esempio il matrimonio o l’adozione): in altre parole, di “essere come tutti gli altri”. Dall’altro, quella di rivendicare la diversità come valore e contestare la stessa legittimità delle norme e dei rapporti di potere sociali ed economici, configurando un’alleanza fra soggettività marginalizzate dai modelli sociali dominanti, non solo sulla base del genere o dell’orientamento sessuale, ma anche in termini etnici, religiosi, politici o di classe (“l’intersezione delle lotte”). Da qui, ad esempio, l’alleanza dei gruppi queer con le organizzazioni delle persone migranti. Curiosamente, la conversazione fra me e Slaviša si svolge in Olanda, dove la parità di diritti è parte integrante dei valori istituzionali senza distinzione di parte politica, al punto che il movimento “antagonista” è praticamente inesistente e anzi si profila il rischio di un’alleanza fra movimento LGBT e partiti xenofobi.
Se chi in Serbia lotta per l’integrazione (termine più neutro rispetto ad “assimilazione”) fatica a stabilire un rapporto con istituzioni nazionali legate a logiche tradizionaliste (come del resto in Italia), trova però un alleato nell’Europa. Pressioni sovranazionali e aspirazioni all’integrazione europea hanno infatti portato all’avanzamento di proposte legislative di stampo progressista (come approfondito nel dossier di OBC "Fra Stato ed Europa"). Senza un’operazione culturale più profonda, però, questo parziale progresso rischia di rimanere formale ed estraneo al tessuto sociale. Proprio in quest’ottica assume particolare rilievo il lavoro quotidiano della parte di movimento che si muove in un quadro complessivo di ricerca della giustizia sociale.