Banja Luka si prepara al referendum
In Republika Srpska l’imminente referendum sul Giorno della Nazione toglie completamente spazio alle amministrative del prossimo 2 ottobre. Reportage
Piccoli come santini o grandi quanto una parete, stampati su fogli di carta o proiettati su moderni maxi-schermi, i volti della campagna elettorale serbo-bosniaca sono ovunque a Banja Luka. La capitale della Republika Srpska (RS), l’entità serba che compone la Bosnia Erzegovina, si appresta a rinnovare tutta la propria amministrazione locale, in occasione delle elezioni municipali del 2 ottobre.
Eppure, tra i gazebo aperti in piazza Krajina e gli stand disposti ai vari incroci del centro cittadino, non si parla né di programmi né di problemi del paese. Su tutto aleggia infatti un voto ancora più imminente e che una sapiente regia ha saputo inserire ad una settimana dalle elezioni locali, ovvero questa domenica 25 settembre. È del referendum sulla festività nazionale del 9 gennaio che si finisce inevitabilmente per parlare davanti alle pile di volantini elettorali ancora da distribuire.
“Bisogna mantenere o meno il giorno di festa, che la Corte costituzionale di Sarajevo ha definito incostituzionale?”, questo è il quesito dal risultato scontato, in un plebiscito che – ammettono i candidati dell’opposizione – “fa il gioco della maggioranza”.
Candidati
“Dodik vuole tornare al governo a Sarajevo ed è per questo che sta facendo questa sporca guerra”, sostiene ad esempio Gordana Lazić, candidata al comune di Banja Luka tra le fila del Partito democratico serbo (Sds), una formazione all’opposizione nella Republika Srpska ma al potere a livello statale. “Di per sé, il referendum è una cosa positiva, ma non è necessario: tutti i serbi voteranno ‘sì’ – spiega Lazić – Non andava fatto ora, così è solo un gioco politico che permetterà a Dodik di guadagnare consensi”.
Anestesista di professione, Gordana Lazić si è candidata “per la prima volta”: “Non sono una donna politica di carriera, solo una donna arrabbiata”, scherza. “Sono 20 anni che Dodik è al potere, è diventato una specie di re. Come lui ci sono poche famiglie molto ricche, mentre il paese non ha una classe media e i giovani emigrano”, prosegue la dottoressa che guadagna “circa cento euro al mese” e la cui figlia è già partita all’estero, a Vienna, per studiare.
Mentre parla, alcuni abitanti di Banja Luka si avvicinano allo stand e se ne vanno dopo aver recuperato qualche penna omaggio. Il gazebo più grande, a pochi passi, è quello dell’Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti (SNSD), la formazione di Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska dal 2010 e Primo ministro del paese già nel 1998.
Senza il suo leader, partito alla vigilia del referendum a Mosca per incassare il sostegno di Vladimir Putin, l’SNSD preferisce non rilasciare alcuna intervista. Così, allo stand del partito, soltanto un entusiasta volontario di 19 anni, Bojan, si presta al gioco. Come la candidato Sds, anche lui si è avvicinato alla politica per la prima volta e ha scelto di sostenere Dodik perché “dice quello che pensa”. Studente di geografia all’università di Banja Luka, andrà sicuramente a votare domenica “perché si tratta del giorno della nostra repubblica ed è importante per il paese”.
In quanto agli ambasciatori stranieri che hanno invitato il governo della Rs a rinunciare allo scrutinio, Bojan crede che l’occidente abbia dei motivi nascosti per fare questo tipo di appelli, ma che non voglia svelarli.
Cosa pensa l’UE
In visita a Banja Luka per l’apertura, giovedì, del primo “EU Info point” della cittadina, l’ambasciatore dell’Unione europea in Bosnia Erzegovina, Lars-Gunnar Wigemark, spiega le sue ragioni. Il referendum è “non necessario” oltre che “in contraddizione diretta con la sentenza della Corte costituzionale”. “L’unica cosa positiva che vedo in questo referendum è che si tratta di un buon promemoria di come le politiche etno-nazionaliste – e non parlo solo della Republika Srpska ma di tutto il paese – possano essere tuttora usate da persone che, francamente, non sono interessate ad alcun cambiamento positivo”, afferma l’ambasciatore Wigemark che ricorda comunque come questa settimana sia quella in cui la Bosnia Erzegovina ha ricevuto il via libera dal Consiglio dell’Ue sulla propria domanda di adesione e invita dunque a calmare i toni.
“Questo paese non è più quello di vent’anni fa”, risponde a chi nei giorni scorsi ha parlato di “guerre” e “conflitti” imminenti, e conclude: “Vedo questo referendum come qualcosa di molto connesso alle elezioni locali della settimana prossima”.
Dopo che il consiglio della Republika Srpska ha annunciato giovedì che modificherà la propria legge sulle festività nazionali in accordo con la sentenza dell’Alta corte di Sarajevo e dopo che Dodik ha sminuito il ruolo del referendum definendolo “un sondaggio”, i timori nati negli ultimi giorni sembrano in effetti infondati.
“Il referendum non avrà conseguenze inattese. Questo plebiscito non ha nulla a che vedere con quelli degli anni Novanta”, analizza la giornalista locale Gilja Kovačević. Le ripercussioni del voto dipenderanno dal risultato delle elezioni locali: “Se Dodik otterrà dei buoni risultati, continuerà con questa retorica. In caso contrario, la sua carriera politica sarà conclusa”, pronostica Kovačević.
Quel che rimane come una sorta di morale del caso è ancora una volta la pesante influenza estera sulle vicende interne della Bosnia Erzegovina. “Izetbegović ha iniziato questo caso con il sostegno dei turchi, Dodik aveva inizialmente il sostegno di Belgrado che poi si è defilata lasciandolo in una posizione di scaccomatto. Sono i soliti giochi politici, che dureranno finché i tre popoli della Bosnia Erzegovina non si renderanno conto che cibo e lavoro sono questioni più importanti dei vari simboli nazionalistici”, conclude Kovačević.