Balcani, il mercato del sesso

Le statistiche sul trafficking sembrano indicare che il numero delle vittime è in diminuzione, ma secondo alcuni il mercato di esseri umani ha semplicemente mutato caratteristiche. Le agenzie internazionali avvertono che canali legali di migrazione potrebbero arginare significativamente il fenomeno

13/09/2005, Risto Karajkov - Skopje

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Dal sito dell'OIM

Di Risto Karajkov, per Transitions Online, 17 agosto 2005 (titolo originale: "Going Deeper Underground")
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Carlo Dall’Asta

Un pregiudizio comune sui Balcani è che essi siano una regione omogenea. Da un punto di vista commerciale invece i Paesi balcanici sono molto diversi l’uno dall’altro.

Il commercio in esseri umani non fa eccezione.

L’elemento che unisce i Paesi dei Balcani riguardo al trafficking è che tutti loro vi partecipano; ogni altro aspetto varia da posto a posto.

La Moldavia e la Romania sono importanti Paesi di provenienza; Bosnia, Macedonia e Kosovo sono Paesi destinatari o di transito. Nel passato, l’Albania era sia regione di origine che di transito; rapporti recenti suggeriscono che essa starebbe ora cessando di essere una fornitrice.

Un altro elemento di differenza è la situazione delle vittime: sembra che esse siano trattate meglio in Kosovo e in Bosnia, a causa della larga presenza internazionale laggiù. Ma molti controbattono che è proprio questa presenza ad aver creato in primo luogo la domanda di prestazioni sessuali, e di conseguenza il trafficking.

Le modalità di "reclutamento" si differenziano, come pure i trafficanti. Il rapimento era in passato un orribile metodo usato per impadronirsi delle donne in Albania; da altre parti finti annunci che offrono posti di lavoro e matrimoni, spesso a nome di agenzie di viaggio e di modelle, sono il metodo preferito. Tutti questi annunci, dice Anna Eva Radicetti della Organizzazione Internazionale per la Migrazione (OIM) in Macedonia, sono "sempre intessuti di false promesse". E le promesse sono attraenti a causa "della situazione di povertà esistente in questi Paesi, delle economie devastate, degli alti tassi di disoccupazione, della debole applicazione delle leggi, e della corruzione".

Il trafficking cambia volto

Queste differenze complicano il discorso sulle tendenze nei Balcani. Ma c’è la speranza che il quadro generale della regione sia in corso di miglioramento. Un resoconto sul trafficking nel Sud Est Europa pubblicato nel marzo 2005 dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), dall’UNICEF, e dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha riportato che c’è stato un "forte decremento nel numero delle vittime assistite" dal 2002 circa.

Il rapporto suggeriva due spiegazioni possibili per questa tendenza: il primo, che il trafficking stia effettivamente declinando; il secondo, che esso si stia nascondendo sempre meglio.

"È probabile che la verità sia una combinazione di queste due teorie", nota un po’ desolatamente il rapporto. "Le misure anti-trafficking sono state in qualche misura efficaci e ci sono meno donne, di cui siamo a conoscenza, contrabbandate nella regione ma ci sono anche nuove tendenze che devono essere analizzate".

Una di queste tendenze è la diminuita efficacia delle perquisizioni nei locali pubblici. In Kosovo, per esempio, sono state condotte almeno 2.753 perquisizioni nei bar tra il gennaio 2003 e l’aprile 2004, ma sono stati individuati solo 75 casi di trafficking. Ciò suggerisce che i trafficanti potrebbero aver smesso di usare i bar e potrebbero aver spostato le loro attività in appartamenti privati.

Sembra anche che i trafficanti siano diventati assai più sofisticati. Le frontiere vengono attraversate più spesso legalmente che illegalmente, il che è un indicatore di una accresciuta organizzazione; sembra anche esserci un grande utilizzo di internet per le comunicazioni e la pianificazione. La mobilità dei ruoli complica anch’essa gli sforzi di chi combatte il trafficking. I trafficanti diventano protettori e i protettori diventano trafficanti. La distinzione non sembra rilevante, dato il tipo di affari preso nel suo insieme; ma per il protettore ed il trafficante ci sono grandi differenze rispetto alle condanne che essi rischiano se arrestati e giudicati colpevoli.

Anche la tipologia e le risposte delle donne trafficate sembrano essere in corso di evoluzione. Recenti studi dell’OIM suggeriscono che una percentuale sempre più vasta di quelle che finiscono vittime del trafficking erano consapevoli del rischio che stavano correndo. Ma le vittime hanno ugualmente scelto di correre quel rischio, sostenendo di non aver avuto scelta.

"Il ragionamento solitamente è: ‘Questo essere fatta oggetto di trafficking a me non può accadere’", dice la Radicetti. "Questo è il primo, fatale []e".

Una volta che lo sbaglio è stato fatto, la sfida è sfuggire dalla trappola. I loro sfruttatori tuttavia stanno facendo in modo che esse siano meno incentivate alla fuga. Il rapporto ha scoperto che molte vittime del trafficking ora hanno documenti validi, e regolari contratti di lavoro come cameriere (con stipendi che in Kosovo arrivano fino a 600 dollari al mese), in aggiunta alle prestazioni sessuali che esse offrono ai clienti. La paura dei protettori e dei trafficanti e l’incertezza riguardo alle reazioni delle autorità hanno sempre vincolato le vittime del trafficking. Ma il numero di donne che proteggono i loro boss quando vengono contattate dalle autorità sta crescendo. Ciò potrebbe essere dovuto al miglioramento della condizione delle vittime. Anche il desiderio di non tornare nei propri Paesi di origine potrebbe spiegare perché i gruppi non governativi stanno scoprendo che un numero sempre maggiore di vittime identificate rifiuta l’assistenza da loro offerta.

Le vittime potrebbero, a quanto sembra, essersi adattate al proprio destino, accettando l’opportunità di legalizzare il proprio status e di mandare soldi alle famiglie rimaste a casa, spesso ridotte in povertà.
Per alcune donne l’accettazione è più plateale: le ex vittime diventano sfruttatrici esse stesse, contribuendo alla femminilizzazione del giro del trafficking.

Ma potrebbe essere in corso anche un’evoluzione nella direzione opposta, con lavoratrici del sesso consenzienti che finiscono per essere sfruttate dai trafficanti che le hanno aiutate ad entrare illegalmente in un Paese.

La rappresentante speciale dell’OSCE sul trafficking, Helga Konrad, ha detto che la complessità del trafficking è diventata un luogo comune. Ma, evidentemente, è un luogo comune vero.

Spendere senza aiutare?

L’evoluzione di questo tipo di commercio sta rendendo più complessa la tipologia delle lavoratrici del sesso. Ciò potrebbe contribuire alla difficoltà di stimare il numero di donne effettivamente vittime di trafficking.

Le stime sono enormi. Il rapporto sul trafficking del Dipartimento di Stato USA per il 2005 stima che nel mondo vengono trafficate ogni anno tra le 600.000 e le 800.000 persone, tra maschi e femmine.

Una stima della Commissione Europea, a sua volta basata su precedenti dati del Dipartimento di Stato americano, valutava il numero di persone trafficate dall’Europa centrale e orientale e dall’ex Unione Sovietica in circa 170.000 ogni anno. Altre 120.000 si ritiene che entrino in Europa occidentale da altre regioni, in particolare dall’Africa.

Ma queste cifre sono impossibili da verificare. In ogni Paese dei Balcani, i gruppi non governativi assistono poche dozzine di vittime all’anno, e la polizia poche centinaia.

"Evidentemente qualcuno sta esagerando", è stata la conclusione di uno degli esperti che TOL ha intervistato.

L’atteggiamento dei governi locali e della polizia non sempre aiutano a comprendere le dimensioni e le caratteristiche del problema. I governi preferiscono ancora tentare di contrastare il trafficking prevenendo l’immigrazione e la prostituzione, senza prestare veramente attenzione ad aiutarne le vittime. Le campagne governative ad ampio raggio per sbarazzarsi dei migranti clandestini male si accordano con gli sforzi fatti per identificare le vittime nascoste del trafficking, ed aumentano la paura di queste ultime di venire allo scoperto.

Uno dei massimi ricercatori in Europa sul trafficking ha detto a TOL in via informale che la polizia forse non si impegna veramente perché reputa inutile tutta la procedura di identificare le vittime, dal momento che queste stesse potrebbero ritornare dopo pochi mesi, se necessario.

Accuse come questa ed il ristretto numero di donne identificate ogni anno come vittime solleva la questione dell’utilizzo fatto delle centinaia di milioni di dollari che vengono spesi dalle organizzazioni internazionali e dai governi della regione in misure apparentemente mirate a contrastare il traffico di esseri umani.

Il sospetto è che i governi e i servizi di sicurezza spesso etichettino delle spese come misure anti-trafficking quando in effetti esse hanno direttamente poca relazione col trafficking: l’addestramento di pattuglie frontaliere, l’aggiornamento della polizia o dei giudici, l’acquisto di equipaggiamenti per le guardie di confine, e i maggiori controlli sui passaporti. Quest’uso del denaro non ha convinto gli Stati Uniti, per esempio: nel rapporto annuale del Dipartimento di Stato sul trafficking di esseri umani nel mondo, pubblicato in giugno, gli sforzi anti-trafficking dei governi dei Balcani ricevono voti bassi.

Cosa si dovrebbe fare allora? Il rapporto dell’OSCE e dell’ONU non aiuta molto: "l’interrogativo di quali strategie anti-trafficking si siano dimostrate efficaci e abbiano aiutato a ridurre il fenomeno, e di quali invece non siano state utili e siano servite solo a spingerlo sempre più nella clandestinità rimane senza risposta".

Il rapporto sicuramente giustifica un senso di pessimismo. Le donne sembrano più disposte ad assumersi dei rischi, le vittime del trafficking sono riluttanti o hanno paura di uscire allo scoperto, e alcune preferiscono continuare il loro commercio finché questo gli permette di restare all’estero, piuttosto che rischiare il rimpatrio da parte del governo e le ritorsioni dei trafficanti. I programmi di sensibilizzazione stanno rendendo le donne più informate, ma non le dissuadono dall’assumere comportamenti a rischio. Le vittime hanno bisogno di sostegno se devono uscire allo scoperto, ma i governi sono più interessati a tentare di catturare i trafficanti e a rimpatriare i migranti, che ad aiutare le vittime del trafficking. E nessuno sa davvero se il trafficking stia declinando: ma l’attenzione che gli apparati decisionali ed il pubblico daranno all’argomento dipende esclusivamente dalle cifre, anche se si tratta solo di autorevoli stime.

Ciò che vorrebbe la maggior parte degli esperti in questo campo è che l’attenzione si spostasse ora sulla prevenzione. Sul versante della spesa, questa dovrebbe indirizzarsi alle radici sociali profonde del trafficking: la povertà, la disoccupazione, e la mancanza di potere politico delle donne. Molti ritengono anche che si dovrebbe considerare un aspetto che in larga misura è mancato finora nei programmi internazionali: creare opportunità per una immigrazione legale verso l’Europa occidentale.

Questo è l’opposto di quanto i governi hanno fatto finora. Le campagne locali di sensibilizzazione sono sembrate talvolta intese a dissuadere con l’intimidazione la gente dall’idea stessa di emigrare. Ma il richiamo del denaro, o anche solo di una dignitosa vita di duro lavoro, indica che questa tattica intimidatoria potrebbe non essere efficace.

Le sfide, ognuna delle quali è scoraggiante pur nella sua giustezza, sono state elencate dalla Radicetti dell’OIM: "Fermare il trafficking, reintegrare le vittime e promuovere una migrazione regolarizzata, in quanto modo legalmente riconosciuto di vivere in nuovi territori". Avrebbe potuto aggiungerne un’altra: conoscere con certezza le reali dimensioni del trafficking.

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