Balcani: il giornalismo nelle fauci del corporativismo capitalista
Un esame della situazione dei media nel sud est Europa e nel continente in generale. Le difficoltà e le sfide del giornalismo di oggi. Intervista con Brakica Petković, analista e coordinatrice del South East European Media Observatory
(Questa intervista è stata pubblicata originariamente dal portale H-Alter l’11 novembre 2015, titolo originale: Što učiniti (s) korporacijama? )
Brankica Petković è analista sui media e coordinatrice del South East European Media Observatory, una rete regionale composta da sette organizzazioni della società civile, dalla cui collaborazione sono nati diversi progetti di ricerca sullo stato dei media e del giornalismo nel sud-est europeo, frutto dei quali è anche il libro Značaj medijskog integriteta (L’importanza dell’integrità mediatica) pubblicato l’anno scorso. Cresciuta ed educata ad Osijek, Petković dagli anni Novanta vive in Slovenia, dove dal 2001 lavora come ricercatrice e project manager presso l’Istituto per la Pace (Mirovni inštitut) di Lubiana. È autrice di numerosi articoli e studi sulle problematiche relative alla libertà di stampa, con particolare riguardo alla concentrazione della proprietà, legislazione e credibilità dei media.
Partiamo con una domanda impegnativa: cosa significa essere giornalisti oggi nella regione in cui viviamo?
Le dirò cosa ne pensano gli stessi giornalisti. Dalle ricerche che abbiamo condotto negli ultimi anni è emerso che i giornalisti percepiscono se stessi come reggi microfono in quanto degradati al ruolo di semplice intermediario dell’informazione e privati di quello status sociale e professionale che porta con sé reputazione, sicurezza e rilevanza sociale. È una percezione giustificata perché ultimamente si è assistito ad un forte deterioramento dello status economico dei giornalisti, soprattutto rispetto ai tempi della vecchia Jugoslavia in cui essere giornalisti significava esercitare un mestiere rinomato ed appartenere al ceto medio. Oggi i giornalisti nella regione percepiscono stipendi inferiori alla media del paese in cui vivono. Ad eccezione della Croazia, dove questa cifra è leggermente superiore, in tutti i paesi della regione gli stipendi dei giornalisti vanno dai 200 ai 300 euro, spesso vengono versati in ritardo, e si lavora perlopiù in base ai contratti che (non) si rinnovano ogni tot mesi. Vi è inoltre la convinzione che chiunque possa fare il giornalista, e questo induce i proprietari dei media a non sentirsi obbligati a rispettare né gli standard professionali né quelli sociali perché, di fronte al dilagare della disoccupazione, si è ben consapevoli di poter trovare sempre, e in termini tempestivi, un altro giornalista, un altro lavoratore. Quindi, essere giornalisti oggi nella nostra regione significa essere considerati soggetti umiliati e non liberi, strumenti nelle mani di una élite mediatica corrotta.
Esistono delle eccezioni, giornalisti che vanno avanti a dispetto del sistema, contro il sistema?
Sono decisamente pochi quelli che riescono a sottrarsi a tali condizioni degradanti. A volte è solo grazie alla propria integrità e reputazione professionale che i giornalisti riescono a conquistarsi, all’interno degli ambienti mediatici pervasi da corruzione, un po’ di spazio dove poter agire in modo libero ed originale. In altri casi si tratta di giornalisti che, per evitare di essere completamente strumentalizzati da corporazioni dei media corrotte, decidono di rifugiarsi nei piccoli media privati, che per lo più sono i media on-line, come appunto H-Alter, oppure certi modelli ibridi molto interessanti, come quello di Novosti. Occorre però sottolineare che questo tipo di successo professionale non è mai casuale, bensì ottenuto lottando – è sempre il risultato di una lotta per uscire da un sistema corrotto. Ricordo che nel corso di una conversazione sull’integrità mediatica, il giornalista Predrag Lucić mi aveva detto una cosa importante: perché i cambiamenti avvengano occorre far nascere il bisogno di cambiamenti. E ciò non avverrà mai all’interno del sistema bensì andando contro il sistema. Esattamente come faceva il Feral. Se certi giornalisti riescono a mantenere la propria integrità professionale è solo perché cercano di rimanere al di fuori del mainstream mediatico. Il sistema mediatico, così come è oggi, non consente affatto di mantenere alta la dignità della professione giornalistica, né sul piano del rispetto del codice deontologico, compreso l’obbligo di servire l’interesse pubblico, né per quanto riguarda la tutela dei diritti dei giornalisti.
Negli ultimi anni lei è stata impegnata in diversi progetti di ricerca riguardanti la libertà dei media nella regione, trattando temi quali assetti proprietari, legislazioni vigenti nei singoli paesi, integrità mediatica… Può farci un riassunto dei risultati di queste ricerche? Quali i maggiori problemi con cui sono costretti a confrontarsi i giornalisti e i media nella regione?
Il quadro è piuttosto complesso, ma il nodo cruciale sta nei meccanismi di concentrazione proprietaria e di finanziamento. Come in qualsiasi altro ambito, occorre seguire il flusso del denaro per capire di cosa si tratta effettivamente. Uno dei problemi principali riguarda la transizione subita dal settore dei media, ovvero il modo in cui si è tentato di adattare il sistema mediatico lasciatoci in eredità dall’epoca socialista al nuovo modello capitalistico. Nel corso di tale passaggio, la questione della proprietà dei media è stata completamente trascurata. La maggior parte dei problemi attuali deriva proprio dal modo in cui è stato portato avanti il processo di privatizzazione, poiché con l’apertura agli investitori stranieri è stata a lungo tralasciata la questione della concentrazione della proprietà. In alcuni casi, come avvenuto in Croazia, i soggetti stranieri interessati al settore dei media sceglievano di investire là dove mancava un’adeguata regolamentazione degli assetti proprietari. Questo meccanismo ha generato, e continua a generare, un mercato mediatico in cui l’impulso alla compravendita dei media non è motivato dal desiderio di occuparsi dell’attività mediatica, cosa che non interessa affatto i proprietari dei media in questa regione, né tanto meno dal rispetto nei confronti del lavoro giornalistico quale attività volta a servire l’interesse pubblico. Si diventa proprietari dei media per poter influire sull’andamento della politica e dei flussi di denaro.
Quando parlo dell’influire sulle tendenze politiche, non mi riferisco all’aspetto ideologico, sarebbe illusorio. I proprietari dei media non distinguono tra sinistra e destra, a loro interessa influire sull’andamento dei flussi di denaro esercitando influenza sugli attori politici. Di conseguenza, quello che dovrebbe essere un mercato libero e concorrenziale in realtà vive sfruttando, come un parassita, i flussi di denaro pubblico, il che si fa anche aggirando il sistema fiscale, tardando o evitando del tutto il versamento di stipendi e contributi sociali, ecc. E quegli schieramenti politici che rientrano nella sfera di influenza dei proprietari dei media continuano a tollerare questo stato di cose.
È così che il denaro pubblico finisce nelle tasche di potenti magnati dei media. È interessante questo fenomeno perché apparentemente si tratta di un settore privato, di un mercato libero, ma in realtà il settore dei media in questa regione risulta intimamente connesso al denaro pubblico. Un ruolo importante vi gioca l’industria pubblicitaria, e particolarmente negativa è l’influenza esercitata da varie agenzie pubblicitarie che non di rado servono per riciclare il denaro sporco. Questo è emerso anche dalle nostre ricerche, soprattutto in relazione alle dinamiche registrate in Bosnia Erzegovina, che si sono dimostrate un drastico esempio di come attraverso contratti pubblicitari, ovviamente finti, il denaro possa essere sottratto alle aziende pubbliche. Non occorre però andare in Bosnia per rendersene conto, basta ricordare il caso di Fimi Media, un vero paradigma del principale problema che grava sul settore dei media in questa regione: flussi finanziari sospetti e scarsa trasparenza degli assetti proprietari.
Molti diranno che la colpa è della “mentalità balcanica“, anche se i problemi di cui sopra non sono esclusivi dei paesi dei Balcani. Le sembra fondata questa ipotesi dell’esistenza di una specifica “mentalità balcanica“? Perché viene tirata fuori così spesso in merito alle più varie questioni, comprese quelle relative ai media?
Quando si parla della mentalità balcanica, in qualsiasi contesto, e soprattutto riguardo al sistema sociale ed economico, penso che sia molto utile leggere quanto ne ha scritto Boris Buden. Questo filosofo e pubblicista fa notare come nel corso della transizione dal sistema socialista a quello capitalista da queste parti ci si sia identificati con alunni che devono imparare la democrazia, con bambini ancora immaturi per costruire da soli un sistema sociale. Abbiamo infatti accettato le prediche rivolteci dall’Occidente e il trattamento che ci ha riservato, e che persiste tutt’oggi, considerandoci come popoli privi di cultura democratica e di capacità di svilupparla. Abbiamo invece rigettato, in maniera del tutto acritica, certi valori e ideali consolidatisi nel periodo socialista, accettando alcuni nuovi che sono, in larga misura, solo apparentemente democratici. Alcuni dei presupposti fondamentali della democrazia, come la volontà e possibilità di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, che va di pari passo con il diritto di essere informati adeguatamente attraverso i media pubblici, sono continuamente messi a repentaglio dal sistema capitalistico. Non è un problema circoscritto ai Balcani, questi valori continuano ad essere compromessi, in modo profondo e sistematico, anche nell’Occidente. La concentrazione proprietaria, e molti altri problemi concernenti il settore dei media, esistono anche nei paesi occidentali, dall’Italia alla Gran Bretagna. In questo senso, quella ipotesi incentrata sulla mentalità balcanica non regge assolutamente, tuttavia resta il fatto che i paesi ex jugoslavi si trovano in una situazione specifica, risultato di mezzo secolo di vita sotto un sistema sociale diverso, e devono trovare il modo di fronteggiarla, senza però percepirla come una croce, come un immane castigo. Gli strumenti che i media avevano a disposizione per agire all’interno del sistema socialista hanno sicuramente influenzato il modo in cui ormai da due decenni va portata avanti la costruzione del nuovo sistema mediatico.
In che senso?
Occorre esplicitare il fatto che sono ormai vent’anni che da queste parti si cerca di creare un sistema mediatico ispirato alle leggi e teorie dei media formulate nei paesi occidentali, e ciononostante quello di cui siamo testimoni è un progressivo disfacimento del settore dei media, che si trova in condizioni decisamente peggiori rispetto all’ultimo periodo socialista. Quindi, c’è qualcosa che davvero non funziona e la colpa non può essere della cosiddetta “mentalità balcanica“. In fin dei conti, i principali attori sulla nostra scena mediatica sono gruppi ed esperti occidentali. Se il problema stesse davvero nel nostro essere barbari, ci sarebbero stati mille modi per sistemare le cose, ma non è questo il caso. Ora sta diventando chiaro che il vero problema risiede nel modello che stiamo copiando – è un modello fallito che necessita di essere completamente riformato, e non solo nella nostra regione.
In tal caso, quali sarebbero gli strumenti appropriati per tutelare i cittadini?
Dalle ricerche che ho condotto insieme alla collega Sandra Bašić Hrvatin, analizzando la situazione dei media anche nei paesi europei maggiormente sviluppati, è emerso che a livello dell’intera Unione europea non si dispone degli strumenti atti a proteggere i cittadini dai media corrotti e ad assicurare loro l’accesso all’informazione imparziale e di qualità. Vi è da chiedersi se da qualche parte esista un meccanismo simile, perché il sistema capitalistico funziona in modo tale da servire esclusivamente gli interessi del capitale e dei padroni, e lo fa anche l’Unione europea quando protegge le grandi aziende mediatiche. Prendiamo ad esempio l’insistenza sull’alfabetizzazione mediatica dei cittadini, che rappresenta ormai da anni una delle priorità della strategia europea per i media. Che questo sia un aspetto importante, è indiscutibile. Ma guardi, io che ho compiuto il mio intero percorso formativo nel periodo socialista, già dalle elementari venivo a contatto, attraverso varie materie ed attività, con le tematiche legate ai media. Quello che oggi viene chiamato l’educazione ai media già allora costituiva una parte importante dell’attività didattica, esistevano giornali e radio scolastici, ecc. Quindi, è inutile sostenere che l’alfabetizzazione mediatica sia qualcosa di completamente nuovo, qualcosa che salverà i cittadini da un sistema mediatico impazzito. Ripeto, è una questione importante, ma non prioritaria, poiché riguarda solo una parte del problema. Potremmo essere salvati solo a condizione che riusciamo a fermare e tenere sotto controllo quelli che detengono il potere reale. Occorre spezzare le grandi corporazioni dei media, che al momento nulla può costringerle a rispondere all’opinione pubblica. Sono più potenti dei governi e dei politici, e insieme a loro sono dei mostri che derubano i cittadini e manipolano l’opinione pubblica. I cittadini dell’intera Europa e del resto del mondo, non solo quelli della regione balcanica, sono le vere vittime di questo stato di cose, che al momento non si riesce a ribaltare.
Per quanto riguarda la libertà e la qualità dei media, esistono grandi differenze tra i paesi della regione? Si può parlare di un paese in cui lo stato di salute dei media risulta il migliore, ovvero il meno peggio?
I modelli di assetto proprietario e di finanziamento che prevalgono nei paesi della regione si assomigliano abbastanza tra loro, benché ciascun contesto nazionale sia caratterizzato da certe peculiarità. In Albania, ad esempio, un grande problema è la mancanza di trasparenza. Lì nemmeno oggi esistono statistiche sulla diffusione della carta stampata, che sono un presupposto fondamentale per il buon funzionamento del mercato mediatico, almeno per quel che riguarda le inserzioni. D’altra parte, vi si scorge un certo slancio – il potere è nelle mani di una coalizione di sinistra che, con il sostegno dell’Unione europea, sta intraprendendo un ampio programma di riforme e cambiamenti, ivi comprese numerose modifiche legislative. In questo senso, sembra che ci sia più ottimismo. In Bosnia e in Serbia, invece, la situazione è più drammatica, dal momento che il potere e i gruppi ad esso vicini non esitano a minacciare molto esplicitamente i giornalisti nonché ad esercitare le più varie forme di pressione, comprese quelle economiche, sui mezzi di informazione. Quello che preoccupa molto, in particolare in Serbia, è l’andamento del processo di privatizzazione dei media, che sta dando risultati deprimenti, essendo portato avanti in modo tale da lasciare mani libere agli aspiranti proprietari dei media che spesso non possiedono né l’esperienza né il capitale sufficienti per adempiere effettivamente a tale funzione. L’attuale situazione dei media in Serbia potrebbe essere definita come una combinazione di buoni tentativi legislativi e pessimo procedere della privatizzazione, a cui va ad aggiungersi il persistere delle pressioni governative sui media.
Per quanto riguarda invece la Bosnia, quello che non funziona è il meccanismo di regolamentazione degli assetti proprietari dei media. Mi spiego meglio. Vi è un divieto per gli stranieri di acquistare i media, ma non viene affatto rispettato. Gli investitori stranieri lo eludono fondando imprese “locali“, in modo che nessuno si chieda chi sia realmente dietro a tutto ciò. L’impasse delle decisioni politiche dura ormai da troppo tempo e ciò si ripercuote in maniera molto evidente sull’efficienza degli organi regolatori. L’Agenzia per la Regolamentazione delle Comunicazioni della Bosnia Erzegovina (RAK) è stata a lungo un modello per tutta la regione, al suo interno si sono formati alcuni dei più rinomati esperti a livello europeo, in primis Dunja Mijatović, attualmente al suo secondo mandato come rappresentante dell’Osce per la libertà dei media. Ora quest’agenzia è praticamente in rovina e il suo stato di salute peggiora di giorno in giorno. In Croazia, invece, sono presenti alcune realtà drammaticamente arretrate, ma anche una situazione piuttosto interessante sul versante della governance dei media. Si tratta di un tentativo di riflettere, a livello istituzionale, su come dovrebbero essere i media croati, il quale però potrebbe fungere da modello anche per gli altri paesi della regione. È vero che l’intero processo di formulazione di questa strategia per i media si protrae ormai da molto tempo, ma penso che sia comunque importante.
La maglia nera della regione è certamente della Macedonia, stando a tutti i parametri con cui si valuta la salute della libertà di stampa. La situazione nel paese è tale che il governo persiste nell’influenzare l’operato dei media, sia direttamente, interferendo sulle scelte editoriali, sia indirettamente, attraverso il mercato delle inserzioni. Vi è una forte polarizzazione della scena politica e coloro che stanno al potere, al momento nelle mani di Gruevski, ne approfittano molto abilmente per mettere in atto brutali campagne contro gli attivisti della società civile e i media critici, minacciando i giornalisti (che non di rado trovano corone funebri davanti alla porta di casa), portando alla chiusura di numerosi mezzi di informazione, ecc. Sarebbe molto difficile paragonare la situazione negli altri paesi della regione con quello che accade in Macedonia. Nonostante diverse organizzazioni europee abbiano tentato di far sì che iniziasse a cambiare questo stato di cose, le strutture di potere e di controllo, pervase da corruzione e clientelismo, si sono dimostrate capaci di sopravvivere e resistere alle sollecitazioni e pressioni della comunità internazionale. Il problema però non è solo Gruevski, ma piuttosto tutte quelle opzioni politiche che, una volta giunte al potere, iniziano a considerare il paese che dovrebbero governare come qualcosa che le appartiene, come una specie di bottino. Questa è l’ottica adottata da Gruevski, ma anche da Janez Janša e Viktor Orban. Il ragionamento è il seguente: per conquistare il controllo sull’informazione occorre fondare un partito e vincere le elezioni, dopodiché si ha “diritto“ di interferire sull’operato dei media pubblici. Altrimenti non resta che far parte della società civile, da cui si aspetta che stia in silenzio. Da questa percezione che certi politici hanno delle risorse e dei media pubblici deriva la loro convinzione che il modo in cui governano sia del tutto legittimo.
Un tale dilagare della corruzione all’interno del sistema mediatico necessariamente richiede che vengano messi in discussione gli attuali modelli di gestione, finanziamento e asset
o proprietario dei media. Quale potrebbe essere un primo passo nella direzione di una soluzione?
Aprirne una discussione sarebbe un primo passo importante. La collega Hrvatin ricorda spesso come le élite politiche abbiano fatto propria quella interpretazione dei media, moderna ed occidentale, che li considera esclusivamente dal punto di vista tecnologico, come un servizio. Persino nella direttiva europea che affronta questa problematica si parla anzitutto dei “servizi di media“. Abbiamo lasciato che i media migrassero dalla sfera della cultura e della comunicazione politica alla sfera del tecnico, dove fungono da meri fornitori di servizi audiovisivi. I media pubblici devono resistere a tale degradazione, rifiutare di essere definiti in tal modo. Le discussioni su questo e su altri argomenti correlati dovrebbero essere portate avanti girando per paesi e città della regione, fino alle realtà più remote, per dibatterne con i cittadini, cercando di fare luce su quegli aspetti del sistema mediatico che essi magari non comprendono a fondo, pur avendone una propria idea. Bisogna discutere anche con gli stessi media e giornalisti, mettere insieme varie riflessioni e proposte e cercare di ideare un sistema mediatico alternativo in grado di mettere in pratica alcuni nuovi modelli che permetterebbero di proteggere l’interesse pubblico nell’ambito dei media. Nel contempo, è importante che questo nuovo sistema garantisca il libero funzionamento dei media commerciali, a condizione che vengano rispettati i limiti riguardanti regolamentazione, concentrazione proprietaria e vendita di spazi pubblicitari.
E i media non profit, come far sì che si crei un ambiente favorevole alla loro sopravvivenza e longevità?
Solo riformando l’intero sistema si potrà assicurare uno spazio che permetta ai media non profit di operare in serenità e piena libertà, ma non nel senso di lasciarli liberi di perseguire ricchezza e fama – a cui del resto non giungeranno mai – bensì di svolgere il proprio lavoro indisturbati e di raggiungere uno status economico dignitoso. Accanto ai media indipendenti devono esistere anche le grandi emittenti pubbliche. La realizzazione di un tale sistema esige l’impiego di tutte le forze, sia politiche che mediatiche. Bisogna pensare ad un modello di finanziamento in grado di garantire, mediante appositi meccanismi di controllo, che il denaro dei contribuenti non venga lasciato alla mercé dei partiti politici e dei governi bensì affidato ai media che operano nell’interesse pubblico, oltre che nel rispetto dell’etica professionale. A volte succede che i bravi giornalisti decidano di lasciare i grandi media corrotti per fondare un piccolo media indipendente, ma nel tentativo di organizzarlo bene a livello dell’agire pratico, finiscono per violare la deontologia professionale – assumono lavoratori in nero, li sottopagano, cercano in ogni modo di aggirare il sistema, ma in realtà non fanno altro che prevaricare i diritti e le tutele dei membri della propria azienda. So che spesso sono costretti ad adottare un simile comportamento, ma ciò non lo rende accettabile. Se vogliamo parlare di una vera riforma dobbiamo pensare ad un sistema che permetta ai media di essere onesti e trasparenti anche relativamente alla propria organizzazione interna, rispettando la legislazione vigente e i diritti dei propri dipendenti. Questo dovrebbe essere il traguardo verso cui convogliare tutti gli sforzi, e non l’alfabetizzazione mediatica indicataci, come parola d’ordine, dall’Unione europea. I cittadini, in tutto questo, contano molto, per cui devono svegliarsi e rendersi conto che essere cittadini di un paese significa far parte della società. Non si può vivere isolati, bisogna partecipare, farsi sentire, impegnarsi per il cambiamento, agire usando i meccanismi che si hanno a disposizione. Ho speranza nei cittadini, nella loro alleanza con i giornalisti e con l’avanguardia non solo della società civile, ma anche della classe politica – perché anche la politica può essere riformata, o almeno una sua parte.
È possibile che gli eventuali cambiamenti nel settore dei media abbiano effetti significativi e duraturi senza che avvengano cambiamenti del sistema politico-economico in cui viviamo, cioè del capitalismo?
Nessun cambiamento avverrà nell’ambito dei media finché non sarà cambiato il contesto più ampio. La riforma del settore dei media non può essere portata avanti separatamente da quelle degli altri settori perché un sistema mediatico corrotto è solo un tassello di un meccanismo più complesso con cui si mira a corrompere lo stato e derubare i cittadini. Occorre quindi esigere riforme più ampie, soprattutto per quanto riguarda la gestione di imprese, risorse e beni pubblici. Poi vi sono le corporazioni dei media, che rappresentano una grossa parte del problema. Prendiamo, ad esempio, il caso di Ivica Todorić (recentemente classificato come l’imprenditore più ricco dei Balcani) che ha un’enorme influenza nella società croata, in ogni suo segmento, compresi i media. Bisogna interrogarsi su come sia possibile che si arrivi ad un tale dominio, analizzare le dinamiche che ci stanno dietro e pensare ai possibili rimedi, per far sì che questi meccanismi corporativi vengano disfatti e distrutti. Dunque, si tratta di una problematica piuttosto ampia, ma ciò non dovrebbe dissuadere noi che ci occupiamo di media dall’affrontarla, riflettendo sulle possibilità di cambiare l’attuale sistema mediatico ed esercitando pressioni affinché vengano intraprese riforme più ampie.
A questo proposito potrei accennare alla questione delle donazioni estere, che iniziarono ad affluire al settore dei media con la caduta del regime socialista e senza le quali da queste parti regnerebbe un buio mediatico totale. È importante, tuttavia, fare chiarezza sul fatto che questo tipo di aiuto finanziario ha una portata piuttosto limitata – non si può pretendere di cambiare il sistema destinando un po’ di soldi a certi media indipendenti, come H-Alter o BIRN. Ci si illude che un tale sostegno sia sufficiente per dare avvio ai più vasti cambiamenti sociali, oltre a quelli del sistema mediatico, poiché vi è l’idea che basti assicurare questa forma di finanziamento perché l’esigenza dei cittadini di informarsi attraverso i media “diversi“ possa essere soddisfatta e stimolata. Eppure da queste parti non si è ancora sviluppato nemmeno quell’autentico bisogno di un’informazione di qualità che è cruciale. Non ci salveranno donazioni statunitensi né quelle che arrivano da Bruxelles. Possono salvarci solo i nostri cittadini, tutto il resto è una soluzione effimera.
Lei vive e lavora in Slovenia da più di vent’anni. Come descriverebbe l’attuale situazione dei media nel paese?
I media sloveni rispecchiano questo quadro regionale di cui abbiamo parlato in quasi tutte le sue dimensioni, soprattutto per quel che riguarda la questione della proprietà. Particolarmente drastico è stato l’effetto della privatizzazione. Tra i media sloveni che sono stati privatizzati, quelli che non sono passati nelle mani di investitori stranieri oggi risultano completamente sfiniti, consumati. E questo perché diversi gruppi di corrotti hanno continuato per vent’anni a succhiarne il capitale e distruggerne la reputazione. A ciò si sono aggiunti gli effetti della crisi economica e della diffusione delle innovazioni tecnologiche.
Un esempio è il quotidiano Delo, per decenni uno dei più rinomati del paese, che ha finito per essere completamente devastato dal punto di vista economico, subendo un drastico calo della tiratura, e l’unica cosa che si è riusciti a preservare è un po’ di reputazione. Devo dire, però, che in Slovenia vi è ancora un giornalismo di qualità. I giovani giornalisti sono costretti a lavorare in condizioni molto difficili, ma ciononostante molti di loro sono splendidi professionisti. Anche tra i giornalisti meno giovani ci sono ancora quelli che continuano a mantenere un approccio critico e professionale al proprio lavoro. Certo, in Slovenia prevale, come ormai ovunque, un giornalismo cattivo e superficiale, giallo e sensazionalistico, ma ci tengo a sottolineare che se il vero giornalismo riesce ancora a sopravvivervi è solo grazie a quei giornalisti, per quanto pochi siano, che persistono nel non piegarsi.
Come i media sloveni raccontano la cosiddetta crisi dei rifugiati, che è una vera crisi umanitaria? Si limitano a riprodurre posizioni e dichiarazioni dei politici, oppure esiste un approccio diverso, più aperto nei confronti dei rifugiati e delle loro storie?
Una buona parte dei media parla di questa problematica come di una crisi umanitaria, identificandosi con chi è costretto a fuggire; si cerca di seguire la situazione sul campo e sensibilizzare l’opinione pubblica, contribuendo così al diffondersi della percezione dei rifugiati come vittime di guerra che hanno bisogno di aiuto. Il problema sta nei politici che parlano dei rifugiati come di una minaccia alla sicurezza nazionale, e questo tipo di discorso finisce inevitabilmente per penetrare anche nella sfera mediatica. Persino alcuni media di orientamento liberale stanno adottando questo atteggiamento negativo nei confronti dei rifugiati, facendo propria la retorica, che si nutre appunto di discorsi politici, che intreccia il richiamo alla difesa della patria con quello allo stato di emergenza.
Al polo estremo vi sono certi media, e i loro opinion makers, che fin dall’inizio rappresentano i rifugiati come una minaccia islamista, un movimento organizzato che mira a islamizzare l’Europa, ma è un discorso che rimane perlopiù ai margini dello spettro mediatico, ivi compresi i social network. Per quanto riguarda la televisione pubblica, il modo in cui si parla di questo argomento dipende dal caporedattore di turno, per cui si va dal rappresentare i rifugiati nel contesto della crisi umanitaria al far prevalere la retorica incentrata sulla minaccia, sulla necessità di chiudere le frontiere.
Tuttavia, ci sono anche momenti in cui ci si sente orgogliosi del giornalismo sloveno, di quei giornalisti che compiono un ottimo lavoro nel coprire, con grande coraggio professionale ed umanità, la crisi dei rifugiati, riportando l’attenzione anche sugli aspetti problematici della loro accoglienza e transito. Quando un articolo o un commento di tale spessore appare nel mezzo di questo deserto mediatico, ciò suscita speranze, soprattutto se si è consapevoli di quanto devastato sia il sistema mediatico a livello internazionale.
Ripeto, il sistema è potente, è un animale selvaggio che consuma tutto intorno a sé, ma al suo interno ci sono sempre delle persone, alcune delle quali, oggi come in passato, riescono ad andargli contro, a creare qualcosa di importanza storica per i cittadini del proprio paese, per l’intera umanità. Si tratta degli individui ancora capaci di sognare, cosa di cui ci si è quasi completamente scordati. Bisogna usare l’immaginazione, far nascere idee con la propria mente, avere coraggio di immaginare non solo la società che si vorrebbe ma anche le vie per raggiungerla. Persino i sistemi più brutali possono essere sfidati con immaginazione, umorismo ed audacia.
Questa pubblicazione è stata prodotta nell’ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto