Balcani aperti, porte chiuse: donne ancora discriminate

Nonostante l’idea di promuovere la cooperazione e la convergenza economica dei paesi coinvolti, l’iniziativa Open Balkan ha deluso le aspettative delle donne, ancora ostacolate nell’accesso al lavoro. Un’analisi che mette in luce le difficoltà incontrate dalle donne in cerca di un lavoro oltre confine

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Belgrado, Serbia, camerieri in pausa - © Shutterstock

Zlatka*, 30 anni, è un’economista originaria di Kavadarci, in Macedonia del Nord. Incuriosita dall’iniziativa Open Balkan, ha deciso di cercare un lavoro in Serbia. Insoddisfatta del comportamento del suo datore di lavoro e scoraggiata della mancanza di opportunità di crescita professionale, ha visto l’iniziativa come un’occasione per mettersi alla prova all’estero, crescere professionalmente e forse anche trasferirsi con tutta la famiglia – marito e due figli piccoli – in un luogo con prospettive migliori.

Zlatka è una delle ottantotto donne provenienti dalla Macedonia del Nord che dal marzo 2024 – quando è entrato in vigore l’accordo sul libero accesso al mercato del lavoro, sottoscritto nell’ambito dell’iniziativa Open Balkan – hanno presentato richiesta di permesso di lavoro nella vicina Serbia. Le restanti richieste (219) sono state presentate da uomini, tutti provenienti dalla Macedonia del Nord, tranne uno dall’Albania.

Nel dicembre 2021 i leader dei tre paesi hanno siglato un accordo sul libero accesso al mercato del lavoro nei Balcani occidentali. Ad oggi, nonostante un’intensa attività di promozione, l’iniziativa non ha prodotto gli effetti annunciati, e desiderati, dai suoi ideatori, soprattutto per quanto riguarda l’occupazione femminile.

Stando ai dati ufficiali, in Serbia e in Macedonia del Nord circa il 30% dei permessi di lavoro è stato rilasciato a donne. Quanto all’Albania, nonostante le ripetute richieste di informazioni, le statistiche sui permessi rilasciati non sono mai state diffuse pubblicamente.

“Credo che il motivo principale del predominio maschile nella manodopera straniera sia legato alla domanda: i datori di lavoro cercano manodopera straniera per lavori tradizionalmente considerati maschili, nel settore edile o in quello dei trasporti”, afferma Sarita Bradaš, psicologa ed esperta di diritto del lavoro.

“Un altro motivo è legato ai ruoli di genere tradizionali. Ci si aspetta che siano gli uomini a provvedere alla famiglia, quindi sono più motivati a cercare lavoro all’estero. Dalle donne invece ci si aspetta che si prendano cura dei figli e della famiglia, aspettative che limitano la possibilità per le donne di emigrare”.

Parlando delle dinamiche del mercato del lavoro, Bradaš sottolinea il fatto che “le donne in Serbia vivono in condizione di svantaggio e la situazione delle donne straniere è ancora peggiore”.

Dai dati emerge un quadro analogo anche per la Macedonia del Nord: su un totale di 675 permessi di lavoro concessi attraverso il meccanismo Open Balkan, 445 sono stati rilasciati agli uomini provenienti dalla Serbia, 229 alle donne provenienti dalla Serbia e uno ad un uomo proveniente dall’Albania.

Le promesse mancate e la disillusione

Interpellata sull’attuazione dell’iniziativa Open Balkan, I’Agenzia per l’impiego della Serbia ha affermato che i paesi contraenti si sono impegnati a semplificare le procedure amministrative per l’ingresso, la circolazione, il soggiorno e il lavoro dei cittadini di altre parti contraenti. “Si sono inoltre impegnati a garantire parità di accesso al mercato del lavoro nel paese ospitante per i cittadini di altre parti contraenti, in conformità con l’accordo e la legislazione nazionale”, ha precisato l’Agenzia, sostenendo che l’iniziativa sia rivolta in egual misura a uomini e donne.

“Le possibilità e le modalità con cui una persona sfrutta i benefici offerti dal mercato del lavoro dipendono da diversi fattori. Da un lato, ci sono le condizioni di mercato e la domanda dei datori di lavoro per determinati profili, dall’altro il livello e il tipo di qualifiche possedute”, ha specificato l’Agenzia nel suo commento ufficiale sull’occupazione femminile. “Inoltre, occorre tenere conto delle caratteristiche individuali, anche delle aspettative e di un desiderio ricorrente tra i lavoratori, quello di lavorare principalmente nei settori che corrispondano alle qualifiche possedute”.

Il sistema Open Balkan segue uno schema ben preciso: i cittadini di ciascuno dei tre paesi coinvolti possono presentare domanda utilizzando il proprio documento d’identità elettronico tramite piattaforme di e-government per ottenere un numero identificativo Open Balkan, che poi utilizzano per accedere alle domande di lavoro sulle piattaforme degli altri due paesi.

Per Zlatka, proveniente dalla Macedonia del Nord, i primi passi sono stati facili: si è candidata per diverse posizioni lavorative a Belgrado tramite la piattaforma Open Balkan, ricevendo subito un invito per un colloquio. Si sentiva fiduciosa e realizzata, ma solo per poco. Durante le procedure per ottenere il permesso di soggiorno e la residenza è subentrata la disillusione.

Il primo ostacolo: anche quando una persona ottiene l’accesso al mercato del lavoro in un paese diverso dal suo, i suoi familiari non godono automaticamente del diritto di soggiornare e di lavorare in quel paese. Devono regolarizzare la propria condizione separatamente, secondo la legislazione nazionale.

Nonostante la promessa di un accesso più facile al mercato del lavoro nell’ambito dell’iniziativa Open Balkan, Zlatka ha dovuto affrontare numerosi ostacoli, dalle procedure amministrative al riconoscimento dei titoli di studio, passando per l’accesso limitato ai servizi pubblici, la difficile ricerca di una casa e le differenze culturali. Ostacoli che l’hanno spinta a rinunciare all’idea di trasferirsi all’estero per costruire un futuro migliore.

L’esperienza di Uendi Ramaj, studentessa dell’Università di Belgrado di origini albanesi, evidenzia ulteriori difficoltà e ostacoli. Dopo aver ricevuto una borsa di studio dal ministero dell’Istruzione serbo, partecipando attivamente a diversi programmi accademici nella regione, nel febbraio 2024 ha presentato domanda tramite la piattaforma digitale Open Balkan per accedere al mercato del lavoro serbo. Ad oggi però non ha ricevuto alcun riscontro.

“L’intera procedura avrebbe dovuto essere conclusa online. Tuttavia, non ho mai ricevuto alcuna risposta. Nessuno è stato in grado di dirmi cosa fosse andato storto”. La studentessa ha contattato anche le autorità albanesi, solo per scoprire che erano totalmente ignare delle procedure previste dal programma Open Balkan.

“Nella mia città natale, alcuni funzionari pubblici non sapevano nemmeno che esistesse questo programma. Ho dovuto insegnare loro come utilizzare la piattaforma”, racconta Uendi. “Le autorità dovrebbero anche considerare il fatto che molte persone, restie ad emigrare per mancanza di competenze, non sanno nemmeno di avere il diritto di candidarsi [al programma Open Balkan]”.

Anche chi ha competenze digitali e un livello di istruzione adeguato fa fatica a districarsi nei meandri di una burocrazia tutt’altro che trasparente.

“Se a me è andata così – commenta Uendi – non riesco nemmeno a immaginare quanto sia difficile per le donne che non hanno tempo, supporto e accesso alle informazioni”

Ad oggi non ci sono dati disponibili sul numero di persone che hanno ottenuto un lavoro attraverso il sistema Open Balkan. Considerando il tasso di disoccupazione femminile nella regione, tuttora molto elevato, la mancanza di trasparenza e di meccanismi di sensibilizzazione mirati contribuisce a marginalizzare ulteriormente le donne, ostacolandone l’accesso alle informazioni e la partecipazione ai processi decisionali.

“Molte giovani donne che conosco non ci hanno nemmeno provato”, spiega la studentessa. “Non ne avevano mai sentito parlare. Quindi, le informazioni sul progetto non arrivano a persone che potrebbero trarne grandi benefici”. Uendi ora sta valutando la possibilità di iscriversi ad un master nell’ambito del programma Erasmus Mundus e altre opportunità simili. I meccanismi europei, ormai consolidati, spesso sono considerati più affidabili di quelli circoscritti ai Balcani. “È difficile fidarsi di un sistema che ti delude ad ogni passo e i motivi non vengono mai spiegati chiaramente”.

Fitore Ademi, una giovane albanese di origini kosovare, ha vissuto un’esperienza analoga. Ha partecipato ad un programma di cooperazione giovanile svolgendo attività di lavoro in Albania, Macedonia del Nord e Serbia. “C’erano tre organizzazioni e diversi gruppi di lavoro. Era anche previsto che trascorressimo qualche tempo in ciascun paese”, spiega Fitore. “Il nostro gruppo ha partecipato alla stesura di un documento programmatico sulla fuga di cervelli dalla regione. Abbiamo ricevuto un forte supporto teorico, comprese le attività di tutoraggio e ricerca”.

Tuttavia, quando, nel giugno 2024, è giunto il momento di recarsi in Serbia, a Fitore è stato negato l’ingresso nel paese, nonostante avesse un passaporto valido. “Non importava se mostrassi la carta d’identità o il passaporto. Mi hanno semplicemente respinta alla frontiera. I responsabili del programma non hanno potuto aiutarmi in alcun modo. Sono stata costretta a tornare in Kosovo e poi in Albania. Non ho mai ricevuto spiegazioni. Una vicenda senza epilogo”.

Pur essendo attiva in diverse organizzazioni giovanili e desiderosa di impegnarsi e contribuire al programma, Fitore è stata di fatto esclusa dalle attività pratiche. “Questi programmi dovrebbero aiutarci a superare le divisioni e costruire la cooperazione, favorendo lo sviluppo delle competenze trasversali e della fiducia. Quando anche i programmi istituzionali falliscono, resta solo la disillusione”.

Le considerazioni di Fitore sono condivise da molti dei suoi coetanei e non solo. “A questo punto, credo sia più saggio investire tempo e denaro per richiedere un visto e lasciare definitivamente la regione. Questa ormai sembra essere l’unica opzione valida”.

Un’iniziativa destinata a fallire?

“Open Balkan è un’iniziativa completamente sbagliata”, sostiene Sarita Bradaš. “La Serbia non è una meta attraente per i lavoratori perché non offre condizioni di lavoro dignitose, come evidenziato dai dati sul numero di permessi di lavoro rilasciati”.

Dati che per il giurista Mario Reljanović, esperto di diritto del lavoro, sono tutt’altro che sorprendenti. “Alcune barriere amministrative sono state rimosse per i cittadini dei tre paesi, ed è un dato positivo. Tuttavia, l’idea di un mercato del lavoro comune non ha mai avuto reali probabilità di successo”, spiega il giurista.

Reljanović individua due ostacoli principali che limitano l’attrattività dell’iniziativa. “Primo, dagli attuali modelli di migrazione per lavoro emerge uno scarso interesse per i movimenti transfrontalieri tra questi tre paesi. Resta infatti esiguo il numero di lavoratori arrivati in Serbia dalla Macedonia del Nord e dall’Albania”.

Secondo il giurista, i lavoratori che decidono di emigrare cercano destinazioni con un mercato del lavoro che funzioni meglio di quello dei tre paesi di Open Balkan.

“È vero che la Serbia offre salari leggermente più alti [rispetto agli altri due paesi coinvolti nell’iniziativa], questo però non è un motivo sufficiente per scegliere la Serbia anziché uno dei paesi dell’UE”, sostiene Reljanović. “Il costo della vita spesso vanifica questi vantaggi. Le condizioni di lavoro sono pessime in tutti e tre i paesi. In Serbia la situazione sembra particolarmente problematica in termini normativi, anche se i problemi pratici sono simili”.

“Inoltre, molte persone che decidono di emigrare preferiscono i paesi con una presenza consolidata di diaspore e comunità di immigrati – anche di seconda e terza generazione – provenienti dalla loro regione. Una tendenza che rafforza i flussi migratori verso l’Europa occidentale”.

Non è chiaro se il programma Open Balkan sia ancora attivo: le piattaforme digitali spesso non funzionano, non è disponibile alcun supporto multilingue e gli adetti al front office sono poco preparati. L’iniziativa non ha tenuto conto della realtà che molte donne si trovano ad affrontare. La mancanza di una progettazione attenta alle questioni di genere e l’assenza di dati affidabili rendono estremamente difficile, se non impossibile, stabilire in quale misura le donne riescano a trarre effettivamente benefici da Open Balkan.

*Alcuni nomi in questo articolo sono stati cambiati su richiesta degli intervistati.

 

Questa pubblicazione è stata prodotta nell’ambito della Collaborative and Investigative Journalism Initiative (CIJI ), un progetto cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina progetto

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