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Azerbaijan: le preoccupazioni di Aliyev
Il crollo del prezzo del petrolio provoca il brusco rallentamento dell’economia azera, con possibili conseguenze sulla stabilità della regione caucasica. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
L’Azerbaijan sta attraversando una fase di crisi legata alla variazione del prezzo delle materie prime, in particolare dell’energia. Sotto controllo della famiglia Aliyev dal 1993, il paese ha conosciuto una spettacolare crescita economica durante gli ultimi quindici anni grazie ai proventi derivanti dall’esportazione di gas e petrolio verso i paesi dell’Unione europea, che hanno chiuso un occhio sulle violazioni dei diritti umani nel paese. Anzi, l’Azerbaijan si è addirittura visto premiato in vari modi: membro del Consiglio d’Europa dal 2001, ha ospitato l’edizione 2012 dell’Eurovision Song Contest oltre alla prima edizione dei Giochi Olimpici Europei.
Ganja, la seconda città più importante del paese, è stata inoltre scelta come Capitale Europea della Giovinezza 2016. Decisione singolare per un paese celebre per le incarcerazioni di massa di giornalisti e attivisti per i diritti umani e per aver cacciato il team di Amnesty International alla vigilia delle elezioni tenutesi l’1 novembre 2015, elezioni su cui è pesata l’assenza dell’OSCE, impossibilitata a monitorare il corretto svolgimento del voto a causa delle restrizioni imposte dalle istituzioni azere.
I rapporti tra l’Azerbaijan degli Aliyev e l’Unione europea si sono consolidati soprattutto a partire dal 2006, data in cui venne ufficialmente inaugurato l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC) che dal mar Caspio trasporta il petrolio fino alle coste del Mediterraneo.
La famiglia Aliyev ha legittimato il proprio potere basandosi su due pilastri fondamentali: il relativo benessere finanziario derivante dall’esportazione di gas e petrolio, e la retorica nazionalista anti-armena, conseguenza del mai risolto conflitto per il Nagorno Karabakh.
Grazie a questi due pilastri, il regime ha potuto prosperare e procedere indisturbato con un’ondata di arresti e processi-farsa contro ogni tipo di opposizione: giornalisti, attivisti per i diritti umani, blogger, avvocati. Le prigioni dell’Azerbaijan accolgono a tutt’oggi numerosi oppositori e critici, tra cui la giornalista Khadija Ismayilova e l’attivista per i diritti umani Leyla Yunus, direttrice dell’Institute for Peace and Democracy in Azerbaijan e vincitrice, nell’ottobre 2014, del premio Andrei Sakharov per la Libertà di Pensiero assieme ad altri tre attivisti e avvocati azeri, Razul Jafarov, Anar Mammadli e Intiqam Aliyev.
Il ritorno dell’Iran
Ora la situazione in Azerbaijan rischia di essere fortemente scossa dal raggiungimento, lo scorso anno, dell’accordo sul nucleare iraniano, che ha aggravato la situazione per i paesi produttori di petrolio in un contesto già segnato da un brusco calo del prezzo del greggio. Nel gennaio 2015 il prezzo al barile era infatti già sceso sotto i 50 dollari, e la corsa al ribasso è poi continuata nel corso dell’anno.
La riduzione del prezzo al barile del petrolio ha avuto, tra le sue innumerevoli conseguenze, anche quella di portare la banca centrale dell’Azerbaijan, il 21 febbraio scorso, a svalutare il Manat, la moneta nazionale, del 33.5% contro il dollaro e del 30% contro l’euro. Il governo azero si era allora dichiarato nonostante tutto ottimista affermando che l’economia del paese era sufficientemente forte da reggere un prezzo al barile attorno ai 50 dollari. Tuttavia le quotazioni da allora sono continuate a scendere e oggi il prezzo al barile si attesta attorno ai 30 dollari. Troppo basso perché l’economia dell’Azerbaijan, la quale si regge per il 70% sull’esportazione di petrolio, non ne subisca conseguenze. All’inizio di gennaio la Banca centrale ha ammesso di aver dovuto spendere più di 8 miliardi di dollari per sostenere il Manat, e il 18 gennaio scorso il presidente Ilham Aliyev ha annunciato un pacchetto di misure d’emergenza per far fronte alla crisi.
La posizione dell’Armenia
Il trattato sul nucleare iraniano ha portato alla fine di gran parte delle sanzioni che hanno isolato il paese negli ultimi dieci anni, riportando pienamente Teheran sulla scena regionale e internazionale. Dal punto di vista dei rapporti nell’area, questo costituisce un’occasione ghiotta per la piccola Armenia, la quale ha il triplo vantaggio di godere di un ottimo rapporto di vicinato con la Repubblica Islamica, di essere un’alleata della Russia e di far parte, dal 2 gennaio del 2015, dell’Unione Eurasiatica composta da Russia, Bielorussia, Kazakistan e Kirghizistan.
Sono molti i progetti nell’agenda delle rinnovate relazioni tra l’Armenia e l’Iran, il più importante dei quali potrebbe essere il progetto di un gasdotto che dovrebbe trasportare il gas iraniano verso la Georgia attraverso l’Armenia. Una possibilità che non sarebbe bene accolta dal governo azero, nel mezzo di una crisi economica che ha già innescato una serie di manifestazioni e scontri con la polizia in diverse città del paese.
La diretta conseguenza di un accordo tra Teheran, Yerevan e Tbilisi significherebbe infatti la perdita del monopolio energetico azero nella regione a vantaggio del nemico di sempre, l’Armenia. Il piccolo paese caucasico potrebbe infatti giocare un inedito e importante ruolo geopolitico tra l’Iran, la Georgia e la Russia, con la quale ha recentemente siglato un accordo che prevede una maggiore cooperazione militare tra i due paesi in funzione anti-turca e un incremento della presenza militare russa nelle basi di Gyumri, la seconda città armena in ordine d’importanza, e di Yerevan.
La carta del Nagorno Karabakh
Il recente riacutizzarsi del conflitto in Nagorno Karabakh va dunque considerato alla luce delle vicende internazionali che hanno caratterizzato il 2015. A tutt’oggi sono in molti a pensare che il governo dell’Azerbaijan stia infatti tentando di giocarsi il tutto per tutto utilizzando la carta del conflitto per distogliere l’attenzione della popolazione e rilegittimare così un governo sempre più isolato a livello internazionale.
Regione separatista popolata da armeni ma, fino al crollo dell’Unione Sovietica, parte della Repubblica Sovietica Azera, il Nagorno Karabakh è teatro di un conflitto che oppone l’Armenia e l’Azerbaijan e che nel lontano 1994 venne interrotto dalla firma di un cessate il fuoco che certificava una sconfitta sul campo per le truppe azere e una sofferta vittoria per quelle armene. Da allora il conflitto è in fase di stallo, e a nulla sono serviti gli innumerevoli incontri organizzati dal cosiddetto Gruppo di Minsk – formato da Francia, USA e Russia – che da anni tenta di trovare una soluzione pacifica. Il cessate il fuoco del 1994 è stato costantemente violato nel corso degli anni, portando entrambi i paesi a investire ingenti somme di denaro nell’acquisto di armamenti.
Il conflitto ha conosciuto un’escalation senza precedenti a partire dall’estate del 2014, e ad oggi i colpi di mortaio e i tiri dei cecchini non avvengono più solamente lungo la linea di contatto tra la repubblica separatista del Nagorno Karabakh e dell’Azerbaijan, ma sempre più spesso lungo la frontiera tra l’Armenia e l’Azerbaijan. Il 24 settembre del 2015 i bombardamenti dell’artiglieria azera sui villaggi frontalieri di Paravakar e Bertavan, nella regione del Tavush, nel nord dell’Armenia, hanno provocato la morte di tre donne armene, Sona Revazyan, 41 anni, Shushan Asatryan, 94 anni e Paytsar Aghajanyan, 83 anni. Pochi mesi dopo, il 9 dicembre, il conflitto ha conosciuto una nuova escalation con l’impiego, da parte dell’esercito azero, di carri armati.
Una spirale di violenza che secondo l’analista politico Richard Giragosian ha un solo obiettivo: provocare una reazione da parte armena che possa giustificare il ritorno a uno stato di guerra tale da ridare legittimità al governo azero. Una strategia le cui spese saranno pagate dai civili.