Azerbaijan: “La guerra non ci ha salvati”

Alcuni ritenevano che la seconda guerra per il controllo del Nagorno-Karabakh avrebbe rivitalizzato l’Azerbaijan dal punto di vista psicologico, cancellato i sentimenti di revanscismo e alimentato l’orgoglio nazionale. Invece si è verificato nel paese un radicamento ancora più profondo della violenza, sia reale che simbolica

08/06/2021, Narmin Shahmarzadeh -

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10 novembre 2020, a Baku, capitale dell'Azerbaijan, si celebra la vittoria nella recente guerra contro l'Armenia (© Nurlan Mammadzada/Shutterstock)

(Pubblicato originariamente da OC Media il 14 maggio 2021)

Per molti anni in Azerbaijan, in occasione di qualsiasi critica rivolta al governo, veniva risposto che il Karabakh era la priorità e che i diritti umani non potevano essere garantiti in una situazione di guerra; oppure vi era chi riteneva che una volta riconquistata suddetta regione, l’entusiasmo per la vittoria avrebbe rinvigorito la fiacca opinione pubblica e, improvvisamente, le persone avrebbero avuto il coraggio e l’energia per reclamare il rispetto dei propri diritti da parte delle autorità. Tutto ciò a prescindere da quale fosse la specifica questione sociale o economica in oggetto. 

Quando l’anno scorso è terminato il secondo conflitto per il Karabakh in molti tra i cittadini ritenevano che si fosse infine fatta giustizia e che la la popolazione si sarebbe liberata dell’immagine che aveva di se stessa come perennemente oppressa. Molti di coloro che criticavano chi si opponeva alla guerra argomentavano che il conflitto aveva aumentato le possibilità di convivenza tra armeni e azeri. “Se questa guerra non ci fosse stata, se non ci fossimo ripresi le terre, gli anni di dolore e sofferenza patiti dai rifugiati provenienti da quei territori non avrebbero mai permesso loro di convivere con gli armeni in futuro”, affermavano. “Ora, invece, sarà possibile vivere insieme”.   

Nonostante il proclamato desiderio di coesistenza, le reazioni ai commenti provocatori del presidente Ilham Aliyev rivelano un atteggiamento meno conciliante della popolazione. Quando Aliyev ha dichiarato “Li cacceremo come cani” e, ancora, “Frantumeremo loro il cranio”, l’opinione pubblica nazionale ha accolto con giubilo queste parole. Sebbene il presidente abbia in seguito chiarito quelle affermazioni, specificando che si riferivano all’esercito armeno occupante e non ai civili, nessuno sembra aver sentito, o preso atto, di questa rettifica. 

Infatti, erano gli aspetti umilianti e denigratori di queste affermazioni ciò che la gente desiderava sentire. Dopo aver visto i video di Nikol Pashinyan nei quali danzava a Shusha (capitale del Nagorno-Karabakh, ndr) nel 2019 e leggeva un invito da parte di sua moglie e rivolto alla first lady azera a visitare il Nagorno-Karabakh – entrambi gesti percepiti come una derisione nei confronti dell’Azerbaijan – larga parte dell’opinione pubblica desiderava una rivalsa, alla quale Aliyev ha, dal loro punto di vista, provveduto. 

Ma lo spirito di rivalsa ha continuato ad essere presente anche dopo la guerra. Uno degli esempi più evidenti è rappresentato dagli elmetti dei soldati armeni esposti presso il Military Trophy Park. Alcuni giovani azeri che hanno criticato questa “mostra” sono stati sottoposti a una feroce gogna sui social media e alcuni utenti hanno persino affermato che, se paragonato ad atrocità come il massacro di Khojaly, il museo è, tutto sommato, umano. 

Esporre gli elmetti dei soldati armeni caduti in un parco aperto al pubblico, anche ai bambini, non è indice di una società che si è liberata dei propri traumi attraverso la vittoria e che ora è pronta a difendere i propri diritti. No, un episodio simile mostra solamente la crescita della rappresentazione della violenza, e della violenza stessa, nella società.

Il caso di Fuad Rasulzada, controverso comico e blogger, è esemplare. 

Durante la guerra un video che ritraeva il giovane soldato azero Khudayar Yasifzade, in cui cantava un brano patriottico alcuni giorni prima di essere ucciso in combattimento, ha commosso molti suoi connazionali ed è diventato un simbolo del dolore provato dalle persone per la morte prematura di molti giovani a causa del conflitto. 

In marzo Rasulzada ha scherzato utilizzando umorismo nero con un amico, che però poi ha postato la sua battuta su Twitter: “È da un po’ che Khudayar non pubblica un nuovo singolo”. Un mese dopo Rasulzada è stato brutalmente aggredito per strada da un gruppo di uomini. Dopo il pestaggio, la madre di Khudayar Yasifzade ha confessato di essere stata lei a chiedere ai suoi parenti di picchiare il giovane. Ha riferito anche di aver domandato loro di spezzargli le dita. 

In molti hanno elogiato la madre addolorata e dichiarato il loro sostegno a questo episodio di violenza in virtù della preservazione della memoria di un soldato caduto. Tuttavia, hanno dimenticato che, mentre stanno preservando la memoria di uno di loro, proseguono nell’umiliare quella di centinaia di soldati appartenenti allo schieramento opposto. Se, da un lato, tentano di proteggere una madre che ha perso suo figlio e giustificano il suo sdegno, dall’altro dimenticano che stanno mostrando aggressività nei confronti delle altre madri che hanno perso i loro figli. 

Non è stata stabilita alcuna giustizia storica grazie alla guerra, la quale ha invece rafforzato una simmetria d’odio. Ciascuna parte continua a incolpare l’altra per le proprie sofferenze, mentre piangono figli che considerano martiri della patria. Entrambe vedono i propri soldati come eroi e quelli dell’altra come demoni feroci. 

È stata però la guerra a uccidere i loro figli perché essa non porta né pace né amore, bensì morte, dolore e lutti per chiunque sia coinvolto. Non esiste una vittoria assoluta e l’unica cosa ad essere inevitabile, in guerra, è un numero sempre crescente di morti. Se, un giorno, questi due popoli capiranno che i loro governi hanno costruito una lotta di potere sulla base delle loro sofferenze, allora forse questo conflitto potrebbe davvero finire.

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