Azerbaijan e Bosnia: schiavi per il progresso

Dietro alle luci sfavillanti di molti edifici di Baku, capitale dell’Azerbaijan, c’è il sudore e a volte letteralmente il sangue di migliaia di moderni schiavi. Con il coinvolgimento anche di criminali di guerra bosniaci. Un’inchiesta OCCRP

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Baku 2017 (© moviephoto/Shutterstock)

(Pubblicato originariamente da OCCRP   il 28 aprile 2020)

"Ci trovavamo in una situazione veramente difficile", dice Seudin Zoletić. "Senza soldi. Senza cibo. Senza niente".

Sono passati anni, ma l’uomo, 46 anni, è ancora perseguitato dall’esperienza traumatica che ha vissuto come lavoratore forzato in Azerbaijan. "Quell’esperienza ha segnato la mia vita per sempre".

Zoletić adesso vive nella sua città natale di Živinice, una città operaia nel nord-est della Bosnia Erzegovina. L’uomo ha incontrato un giornalista di OCCRP più volte nel corso di diversi mesi per raccontare la sua storia.

Sigaretta dopo sigaretta, in un caffè locale con musica pop a tutto volume in sottofondo, Zoletić ha ricordato i suoi mesi in trappola in un cantiere in un paese lontano. Ha descritto la sua battaglia per la giustizia, persa contro il regime di quel paese. E ha espresso la speranza che quest’anno, nelle mani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, possa finalmente trovarla.

Zoletić parla ripetutamente della sua famiglia: due figli così promettenti, che chiama i suoi “ragazzi d’oro” e una moglie malata, alla quale è devoto. È stato per sostenere loro che nell’estate del 2009 ha accettato quella che sembrava un’offerta di lavoro promettente in un cantiere della capitale dell’Azerbaijan, Baku. Le persone che l’hanno assunto avevano promesso uno stipendio buono, condizioni eccellenti e un alloggio dignitoso. 

Zoletić è uno dei 700 operai provenienti da Bosnia Erzegovina, Serbia e Macedonia del Nord che hanno accettato offerte simili in cerca di una vita migliore. Questi uomini hanno costruito tra il 2006 e il 2009 alcuni degli edifici più noti di Baku, tra i quali un grande spazio per eventi, il Buta Palace , e un enorme centro espositivo . Di questi progetti multimilionari, almeno tre sono stati finanziati dal governo.

Gran parte dei lavoratori erano in realtà trattati come moderni schiavi. Insieme ad altre centinaia di operai, Zoletić viveva in uno spazio sovraffollato con poco cibo per un lavoro massacrante di dodici ore al giorno. Il passaporto gli venne confiscato. Alcuni operai venivano picchiati. Uno di loro è morto tra le braccia di Zoletić. Gli stipendi promessi erano considerevolmente ridimensionati o non pagati affatto.

Zoletić non aveva idea di chi ci fosse dietro SerbAz, l’azienda che lo aveva assunto. Un’inchiesta di OCCRP rivela che ci sono forti ragioni per sospettare che l’azienda fosse nelle mani della moglie e di uno stretto collaboratore di Azad Rahimov, il ministro per la Gioventù e lo Sport. Il ministero aveva affidato a SerbAz diversi progetti di costruzione dal valore di 54 milioni di manat (65,8 milioni di dollari).

Se verranno confermate, le nuove prove presentate da OCCRP incastrerebbero Rahimov in uno dei più grandi casi di sfruttamento lavorativo dell’Europa di oggi. Si solleverebbero domande anche sulla famiglia presidenziale, che rimane saldamente al potere dal 2003. Rahimov è noto infatti per essere uno stretto collaboratore del Presidente, Ilham Aliyev; una delle strutture private per le quali gli operai hanno lavorato, un centro commerciale di lusso, appartiene ora alla famiglia Aliyev.

Azad Rahimov, sua moglie Zulfiya e il suo socio non hanno risposto alle richieste di commentare questa storia. L’azienda che oggi possiede il centro commerciale ha negato di aver ingaggiato SerbAz nel lavoro e non ha fornito ulteriori informazioni, dichiarando che si tratta di contratti commerciali confidenziali.

Gli sforzi di Zoletić per ottenere giustizia in Azerbaijan sono falliti. Un ricorso per il suo trattamento è stato più volte rigettato dalle corti nazionali, mentre un attivista che se n’è fatto carico è stato cacciato dal paese. La sua ultima speranza è la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che dovrebbe pronunciarsi sul caso entro l’anno.

Mentre molti altri operai sono stati riluttanti a parlare dei loro giorni in Azerbaijan, Zoletić ha detto che per lui era importante parlare: "Se più persone sono a conoscenza di questa situazione, sarà difficile che accada di nuovo".

"Non avrei mai immaginato che la vita potesse essere così crudele, che potessero essere inflitte tante ingiustizie", ha detto. "Nel ventunesimo secolo".

“Mi fidavo di SerbAz”

Zoletić ricorda la sua infanzia nella Jugoslavia socialista felice e spensierata. Suo padre, un minatore, aveva un salario dignitoso che consentiva alla famiglia di vivere bene. Zoletić si ricorda di quando giocava a “indiani e cowboy” su una collina vicino casa, piuttosto lontana dal centro di Živinice. Lì i suoi vicini tenevano gli animali da fattoria nelle loro proprietà. Ancora oggi è molto affezionato al suo piccolo angolo di Bosnia.

"La vita è bella", dice. "Amo il mio paese. E Živinice. [Anche] in questi momenti difficili, la trovo bellissima".

Invecchiando, Zoletić ha subito numerose delusioni. 

Da giovane, gli si prospettava una carriera nel basket, ma un infortunio lo costrinse a smettere. Il suo sogno di arruolarsi svanì quando l’Armata popolare jugoslava non lo ammise – per il fatto di essere musulmano, ritiene. Qualche anno dopo, quando la Jugoslavia si disintegrò, si unì all’esercito della Bosnia indipendente. 

Dopo essere stato congedato nel 1997, Zoletić venne assunto in una grande fabbrica di scarpe di Tuzla, finendo per apprezzare quel lavoro ripetitivo e guadagnandosi una promozione alla posizione di supervisore.

Ma nel 2009 la sua fabbrica, così come molte altre in Bosnia, era in difficoltà. Gli operai, pagati pochissimo, scesero in piazza per chiedere l’aiuto del governo. Zoletić dovette trovare un modo migliore per sostenere la sua famiglia. 

Fu allora che sentì parlare per la prima volta di SerbAz, un’azienda che stava assumendo personale in Bosnia per lavori di costruzione ben pagati in Azerbaijan.

"Ero interessato", dice. "Perché non avrei dovuto esserlo? … Soprattutto dopo aver visto persone che andavano e tornavano con i soldi".

Insieme ad altre persone, Zoletić si recò in un’altra città per incontrare il reclutatore di SerbAz. Gli venne offerto un lavoro di costruzione, per il quale doveva firmare una breve dichiarazione che elencava i termini del suo impiego e precisava le regole di condotta. Zoletić si rende conto solo ora che non si trattava di un contratto legale – e che quello avrebbe dovuto essere un segnale di avvertimento di quello che sarebbe avvenuto.

Ma in quel momento la promessa di uno stipendio dai cinque agli otto dollari all’ora era troppo invitante. "Ero ottimista, questo è sicuro", dice Zoletić. "Mi fidavo di SerbAz". 

Attese settimane prima di sapere che era il momento per lui di andare, settimane durante le quali chiamò più volte i rappresentanti dell’azienda. Due mesi dopo la firma gli venne detto di fare i bagagli.

Insieme ad altri venti uomini di Živinice, Zoletić salì su un minibus per la capitale serba, Belgrado, dove furono raggiunti da un altro gruppo di uomini bosniaci. Molti erano più giovani e meno esperti di lui. Alcuni erano ancora adolescenti.

Ma tutti condividevano l’ottimismo di Zoletić. In Bosnia, anche quelli abbastanza fortunati da avere un lavoro non guadagnavano tanto più di 200 dollari al mese. Se le promesse di SerbAz fossero state vere, avrebbero guadagnato quella cifra in pochi giorni nella lontana Baku.

"Eravamo diretti verso un futuro più luminoso", afferma Zoletić. "Questo è quello che credevamo".

"La realtà ti colpisce"

Atterrato in Azerbaijan, Zoletić capì quasi subito che il suo destino non era più nelle sue mani.

Dopo aver passato i controlli immigrazione e aver ottenuto un visto turistico della durata di un mese, Zoletić racconta che il suo gruppo venne raggiunto da due uomini che descrive come “capi”. I nuovi arrivati avevano un atteggiamento da soldati e dissero di consegnare loro i passaporti per tenerli al sicuro.

Zoletić dubitava che qualcun altro potesse custodire il suo passaporto meglio di lui. Tuttavia, realizzando che non aveva altra scelta, fece quello che gli veniva detto.

Poi il gruppo è stato fatto salire su dei minibus. Zoletić si sedette e aspettò, preoccupato per il suo passaporto e ansioso di sapere dove sarebbe stato portato. Era seduto vicino ad altri tre uomini che venivano da Živinice. Le persone venivano fatte scendere in punti diversi, Zoletić pregò che lui e i suoi amici finissero nello stesso posto. 

Alla fine, il minibus si fermò davanti a una casa enorme, circondata da mura alte quattro metri e con un grande cancello di ingresso. Zoletić ricorda di essere rimasto scioccato nel vedere che almeno cento persone vivevano già lì dentro. "Ci guardavamo l’un l’altro: ‘Cos’è questo posto? Oh mio Dio, dove sono?’".

"Non c’era altro spazio [per noi]," ricorda. "Non per sei persone, ma neanche per due". I loro supervisori improvvisarono una sistemazione, mettendo dei letti per lui e i suoi amici in un corridoio.

Al gruppo venne detto che era consentito lasciare la casa solo con un’autorizzazione da parte delle guardie. "Potremmo scappare, scavalcare la recinzione", pensò Zoletić. "Ma poi dove potremmo andare senza i nostri passaporti?"

Zoletić non era l’unico ad essere scioccato. Anche tutti gli altri operai stranieri erano collocati in case simili, eccetto i lavoratori specializzati. In ogni stanza erano disposti talmente tanti letti a castello che era difficile passare. In media, ventiquattro persone condividevano una stanza. I corridoi, una sauna e persino una piscina erano stati convertiti in camere da letto per poter ospitare più operai. 

Il primo giorno, Zoletić venne confortato dalle persone che erano lì da più tempo, che lo incoraggiarono a pensare positivamente. Ma le cose cambiarono quella sera, quando i sorveglianti andarono a visitare la casa. Informarono gli operai che avrebbero trattenuto i loro stipendi come precauzione, per evitare che li spendessero tutti in una città straniera. I lavoratori non sarebbero stati pagati finché non fossero tornati a casa.

Fu così che Zoletić conobbe i “caschi bianchi”, come lui e gli altri lavoratori chiamavano i sorveglianti. Per i mesi successivi questi uomini, che non erano originari dell’Azerbaijan ma provenivano dalle sue parti, avrebbero stabilito come avrebbe passato ogni ora delle sue giornate.

Nel delirio

Le giornate lavorative da dodici ore erano massacranti. Ogni mattina, Zoletić e gli altri venivano svegliati da un sorvegliante della casa poco dopo le cinque e condotti ai loro rispettivi cantieri. Il suo incarico era di installare pannelli di drenaggio dove sarebbe sorto il futuro centro espositivo. 

I pasti gli erano portati sul cantiere, ma il cibo era scarso. A volte il pasto consisteva solo di un po’ di salame, uova sode e pane raffermo. "Solo il tè era buono", dice Zoletić. "Si poteva bere insieme al pane".

Nelle interviste, molti operai hanno detto che nel periodo trascorso a Baku erano sempre affamati e avevano perso peso. 

"Molti sembravano essere appena usciti da un campo di concentramento… Erano irriconoscibili in confronto a quando erano arrivati", dice Zoletić.

Per integrare il poco cibo che ricevevano sul cantiere, gli operai potevano comprare qualcosa in più in una mensa gestita da SerbAz nel loro complesso residenziale, sottraendo soldi ai loro futuri stipendi. Zoletić sostiene che il sistema era pensato appositamente per evitare che se ne andassero – descrivendola come "una prigione semi-aperta".

Gli uomini non rientravano a casa prima delle nove di sera. Dopo una giornata lavorativa di dodici ore, le caviglie di Zoletić erano gonfie e facevano male. "Iniziai a mettere a congelare una bottiglia d’acqua da mezzo litro prima di andare a lavoro la mattina. La utilizzavo per massaggiare i piedi quando tornavo".

In quell’edificio che ospitava decine di persone c’erano solo due docce e due bagni. Gli operai dovevano aspettare ore per utilizzare il bagno. "Quando arrivava il tuo turno di farti una doccia e lavarti i piedi si erano già fatte le 10:30 o le 11:00", dice Zoletić. Ricorda che dormiva solo cinque o sei ore a notte.

A volte non riusciva a dormire neanche quel poco. Ricorda che in alcune occasioni veniva svegliato dal sorvegliante che correva per i corridoi e bussava alle porte. Gli uomini si alzavano in biancheria, tremando dal freddo.

"Era un alcool test, pensa", dice Zoletić. "Ti dicevano di soffiare. Eravamo tutti allineati e loro ci controllavano. È inconcepibile. Ancora assonnato, provavi a capire cosa stava succedendo. Stavi sognando? Era un incubo".

Quelli che risultavano positivi ricevevano una multa di 500 dollari sul loro salario immaginario. La tecnica di “multare” i lavoratori per ridurre i loro guadagni e inculcare l’obbedienza era una minaccia costante.

"Il sorvegliante controllava come venivano rifatti i letti", racconta Zoletić. "Se non erano sistemati come voleva lui, venivamo multati". Anche fermarsi un attimo per riposare o andare troppe volte in bagno sul cantiere comportavano multe.

Un giorno, gli operai pensavano che il loro lavoro fosse finito e posarono i loro attrezzi. Uno dei sorveglianti è corso fuori e ha urlato di tornare a lavorare per un altro minuto. "Nel tempo che ci abbiamo messo a tornare indietro, quel minuto era passato. Stavano solo mostrando i muscoli".

"Quella situazione mi ferì molto", dice Zoletić, ricordando l’umiliazione. "Era inumano".

In una calda giornata estiva, un collega per una disattenzione fece cadere un tubo metallico colpendo Zoletić sulla testa, che iniziò a sanguinare abbondantemente. I capi fecero arrivare un medico che ricucì la ferita, ma non gli venne mai fatta una diagnosi o un esame dettagliato. "Mi trattarono come un cane", ha detto.

I suoi colleghi lo aiutarono con una colletta per comprare le medicine. Ma Zoletić era preoccupato che senza delle cure mediche appropriate, la ferita potesse infettarsi.

"Pensavo alla mia famiglia", dice. "Se solo avessi potuto volare e andarmene da lì. Era una battaglia per la sopravvivenza".

Tre giorni dopo, con la ferita ancora aperta e i punti in testa, venne rimandato a lavoro.

Morte nella struttura

Le condizioni difficili iniziarono a metterli a dura prova. Ad agosto, un operaio di Živinice, un uomo che Zoletić conosceva, morì di infarto nel suo dormitorio in un’altra città dell’Azerbaijan dove SerbAz stava realizzando un progetto di costruzione.

All’inizio di ottobre ci furono dei giorni in cui non c’era molto lavoro da svolgere. Zoletić e gli altri rimanevano in casa senza far niente – e senza avere nulla da mangiare. "Sembrava un periodo di crisi", ha detto. "Si poteva vedere facilmente nella mensa, dove erano rimasti pochi alimenti. E non ne venivano portati altri".

Un pomeriggio, un operaio si sentì molto male. Gli altri lo portarono in cortile e tentarono di rianimarlo, ma non ci riuscirono. L’uomo morì tra le braccia di Zoletić.

Ricorda di aver visto in passato quell’uomo, un ingegnere meccanico, bere caffè e fumare in giardino per conto suo. "È rimasto lì per poco tempo", ha detto Zoletić. "Era psicologicamente abbattuto, tutti lo eravamo, chi più chi meno. Lui purtroppo non è riuscito a sopportarlo".

"La vicenda ha scioccato tutti. In una situazione che sarebbe stata folle in ogni caso, stavamo guardando un uomo morto… Eravamo fuori di testa. Cosa avremmo dovuto fare? Cosa sarebbe successo? Arrivò la polizia".

Gli agenti interrogarono gli operai, ma sembrava non avessero alcun interesse alle loro condizioni, alle motivazioni che li avevano spinti ad andare lì o all’assenza di documenti validi per l’immigrazione. Continuavano ad essere in trappola.

Qualche giorno dopo vennero tagliati gas, elettricità e acqua. "Non avevamo più niente", dice Zoletić.

Nella disperazione, notò una cosa positiva: sebbene i lavoratori provenissero da paesi diversi di una regione che aveva attraversato una guerra da non molto tempo, il passato sembrava non contare. "Eravamo uniti", afferma Zoletić. "Come fratelli".

Gli uomini iniziarono ad aprirsi e Zoletić ascoltò storie dell’orrore. "Le persone venivano picchiate in stanze dove la musica veniva alzata a tutto volume", ha detto. "In questo modo gli altri non avrebbero sentito le urla".

La verità viene a galla

La disperazione degli operai riuscì alla fine a catturare un’attenzione più ampia.

Il primo a notare la loro condizione fu un uomo che vendeva cibo e sigarette in un chiosco situato vicino a un cantiere di SerbAz. Vide che i lavoratori avevano iniziato a non avere più soldi ed erano evidentemente affamati. Per giorni, consentì loro di comprare cibo e sigarette a credito. 

Il negoziante contattò un’organizzazione no-profit locale che si occupava di assistere i lavoratori stranieri, l’Azerbaijan Migration Center, guidata da un ex poliziotto, Alovsat Aliyev. Uno degli impiegati di Aliyev lanciò attraverso la recinzione un opuscolo sull’organizzazione e presto un operaio si mise in contatto con loro. 

Aliyev organizzò un incontro vicino alla struttura. L’operaio dovette uscire in segreto per evitare la vigilanza. Le sue descrizioni e le sue foto sulle condizioni in cui vivevano furono sufficienti a far entrare in azione l’attivista.

Il primo passo di Aliyev fu di entrare in contatto con la stampa. In un paese noto per la repressione dei media, si recò presso Radio Free Europe/Radio Liberty (RFE/RL), fondata dal governo USA e uno dei pochi media che conducevano giornalismo indipendente nel paese (ora è stata chiusa).

Insieme ai reporter di RFE/RL, si precipitò nella struttura. Una ripresa effettuata dai giornalisti mostra il momento in cui Aliyev incontrò per la prima volta gli uomini imprigionati. Sono magri e affamati e si accalcano intorno ai loro soccorritori. C’è anche Zoletić.

"Ho guardato il loro cibo", dice Aliyev. "C’era della zuppa in un pentola da cinquanta litri con qualcosa dentro. Ho aperto il frigo e non c’era niente. Niente acqua potabile. Non c’era acqua neanche per farsi la doccia".

"Era terrificante", ricorda. Aliyev ha immediatamente organizzato una conferenza stampa ed è entrato in contatto con le ambasciate dei lavoratori e con organizzazioni internazionali.

Le autorità si rifiutarono di intervenire, così l’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) e altre istituzioni finanziarono l’organizzazione di Aliyev per la fornitura di cibo e prodotti igienici per quegli uomini.

"Fu così che iniziò la nostra liberazione", dice Zoletić. "Facemmo le nostre dichiarazioni. Loro vennero a vedere le nostre condizioni di vita e ne rimasero sconvolti".

"Iniziarono a fornirci dei cestini per il pranzo, come durante la guerra in Bosnia".

La storia di quegli operai arrivò ai media e i loro capi e sorveglianti sparirono di fronte all’attenzione pubblica. I cancelli per entrare nella struttura si aprirono, ma gli operai ancora non avevano idea di cosa stesse succedendo, né gli erano stati dati i loro salari e i passaporti.

Dietro le quinte, Aliyev stava tenendo incontri con rappresentanti del governo. Cercava di arrivare alla qualificazione di quegli operai come vittime di tratta, di fargli ottenere i loro stipendi e di farli tornare a casa. Ma la procedura era lenta e incontrava rigide resistenze. 

I lavoratori erano sempre più disperati. "Un uomo minacciò di buttarsi dal tetto se non veniva lasciato andare", ricorda Zoletić. Quando venne mandato a casa, gli altri cercarono di attuare diverse tattiche per costringere l’azienda a rimandarli al loro paese, tra le quali dormire in strada e organizzare proteste pubbliche.

Alla fine SerbAz iniziò a mandarli a casa un po’ alla volta. Ogni mattina, gli impiegati dell’azienda rilasciavano una lista di coloro che potevano andarsene quel giorno. Dato che il suo nome era l’ultimo in ordine alfabetico, Zoletić dovette aspettare più a lungo di tutti gli altri. 

Per passare il tempo, girava per le strade di Baku. A volte saliva su un autobus a caso e arrivava fino al capolinea. Il poco russo che conosceva gli consentì di fare amicizia con alcuni ragazzi. Fece qualche partita di calcio con loro riuscendo, almeno per un po’, a dimenticare la sua situazione.

Dopo venti giorni di attesa, Zoletić vide finalmente il suo nome sulla lista. "È stata una gioia indescrivibile", dice. "Stavo tornando a casa. Non sono riuscito a dormire quella notte".

Per ottenere il loro misero stipendio, i lavoratori dovevano firmare una dichiarazione sostenendo che non gli si doveva alcun altro denaro per il loro lavoro in Azerbaijan.

"Abbiamo ricevuto un foglio da firmare in cui si affermava che tutto si era svolto normalmente, che era andato tutto bene e che loro non mi dovevano niente. Dopo aver firmato, mi pagarono una cifra arbitraria, nessuno sa come erano stati fatti i calcoli", afferma Zoletić. La cifra finale era stabilita da SerbAz e nessun operaio intervistato da OCCRP ha detto di aver ricevuto quanto si aspettava di aver guadagnato.

Zoletić e gli altri vennero accompagnati all’aeroporto dalla polizia e finalmente ebbero indietro i loro passaporti. Neanche il misero stipendio poteva smorzare la loro felicità. Sull’aereo esplosero in canti, cantando all’equipaggio “Čarsija,” un canto nostalgico bosniaco sul ritorno a casa.

Zoletić ricorda l’emozione che provò quando si ritrovò unito alla sua famiglia dopo tre mesi vissuti da schiavo. "Felicità per essere tornato a casa. Felicità per aver rivisto i miei cari. Felicità perché loro rivedevano me".

Una battaglia per la giustizia

Da quando sono tornati, Zoletić e gli altri sono diventati figure chiave in diversi procedimenti legali avviati in risposta al loro trattamento.

Astra, un’organizzazione serba anti-traffico, ha passato alcune settimane a raccogliere le testimonianze degli operai e ad aiutarli a tornare alle loro vite. Sulla base del suo rapporto, i procuratori bosniaci hanno avviato un’indagine e hanno incriminato tredici rappresentanti locali di SerbAz – gli uomini che avevano reclutato i lavoratori e comandavano sulle loro vite a Baku – per tratta di esseri umani.

Zoletić è comparso in tribunale come testimone. Inizialmente, l’apparente squilibrio delle forze in campo faceva paura. "Da un lato c’eravamo io e il procuratore, dall’altro c’erano tredici avvocati", afferma.

Ma il disagio scomparve appena iniziò a rispondere alle domande. "Stavo dicendo la verità", dice. "Non avevo più paura di niente".

Adesso era libero e i suoi aguzzini erano accusati di crimini seri. "Loro sono a processo. E io sono nel mio paese. Sono libero".

Il verdetto, dopo numerosi ritardi, è stato una vittoria parziale. Quattro uomini vennero dichiarati colpevoli; uno è stato condannato a un anno e nove mesi di carcere, mentre agli altri tre è stata data la condizionale. Gli altri non sono stati dichiarati colpevoli.

Nel frattempo in Azerbaijan l’organizzazione di Aliyev faceva causa a SerbAz a nome degli operai per il ritardo nel pagamento degli stipendi e per danni morali. Ma ha perso la causa e due successivi ricorsi. La difesa di SerbAz, che convinse i giudici, era basata sul fatto che i lavoratori avevano firmato un contratto non con SerbAz ma con una società satellite, un’azienda di Anguilla, nei Caraibi. Di conseguenza, gli avvocati di SerbAz argomentarono che la legge nazionale non poteva essere applicata al caso.

"Non ci è stata data la possibilità di essere presenti al processo, né di dare la nostra testimonianza", afferma Zoletić. "Credo che non abbiano neanche provato a ricorrere a tutte le vie legali per raggiungere la verità nella corte nazionale".

La questione ha raggiunto la Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo, che dovrebbe emanare una sentenza quest’anno relativa al fatto se i lavoratori abbiano ricevuto o meno un processo equo presso la corte azerbaijana.

Zoletić è ora tornato a Živinice. La fabbrica di scarpe dove lavorava è in bancarotta e lavora part-time in una serra, dove può coltivare il suo amore per le piante.

È orgoglioso dei suoi due figli, ai quali ha potuto parlare pochissimo durante il suo periodo traumatico a Baku. Uno dei due, che ora ha più di vent’anni, si è appena sposato. Il più piccolo è ancora adolescente e vuole proseguire gli studi in tecnologia informatica.

Zoletić è stato chiaro, non sta combattendo per i soldi. "Non c’è somma abbastanza alta per la quale un uomo possa voler passare quello che ho passato", ha detto. "Nessuno può darti abbastanza denaro da riuscire a dimenticare tutto. Ma voglio andare avanti, dimostrare che siamo dalla parte giusta. Perché i responsabili vengano condannati e perché la giustizia possa vincere".

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