Atatürk e l’AKP, nessun attacco frontale
La figura di Kemal Atatürk, padre fondatore della Turchia moderna, non è più il pilastro ideologico della nuova élite dell’AKP del premier Recep Erdoğan. Eppure, sostiene lo storico Fabio Grassi, il partito di Erdoğan non ha alcuna intenzione di aprire un "dossier Atatürk", ma punta piuttosto a devitalizzare la presenza del "grande condottiero" nello spazio pubblico. Nostra intervista
Fabio L. Grassi (Roma, 1963) si occupa di Turchia da più di venticinque anni, vive a Istanbul da tredici anni e attualmente ricerca e insegna Storia del Ventesimo Secolo presso l’Università Tecnica di Yildiz di Istanbul. Tra le sue decine di pubblicazioni ha al suo attivo le ampie monografie "L’Italia e la Questione Turca (1919-1923). Opinione Pubblica e Politica Estera", Torino Zamorani, 1996, e "Atatürk. Il Fondatore della Turchia Moderna", Roma, Salerno, 2008, 20092, 20103, entrambe tradotte in turco.
La Turchia è un Paese che cambia in fretta. Dopo 10 anni di governo del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), la figura di Atatürk rimane ancora il pilastro ideologico per le élite del Paese?
Nella sostanza direi di no. Uno spunto interessante per capire cosa succede è il discorso fatto dal premier Recep Tayyip Erdoğan la sera del 12 giugno 2011, quando era evidente il nuovo successo elettorale del suo AKP. In quel frangente Erdoğan ha reso omaggio non ad Atatürk, il padre politico della Turchia moderna, ma al Gazi Mustafa Kemal, il grande eroe vittorioso della guerra di liberazione e il fondatore della repubblica (vedi box). Dubito che sia stata una scelta casuale e, anche se “istintiva”, è comunque molto significativa.
Ma questa tendenza è percepibile anche nello spazio pubblico?
In questo decennio l’AKP non ha portato avanti alcuna azione di aperto smantellamento del culto di Atatürk. Erdoğan si è sempre guardato bene dall’aprire un “dossier Atatürk”, ritenendola una mossa politicamente inopportuna. E’ comunque evidente che l’azione riformatrice di Atatürk non corrisponde ai riferimenti culturali dell’attuale élite politica. Ma non è una novità: è dal 1945 che una parte del mondo politico turco, che esprime una parte sostanzialmente maggioritaria della società, tenta in varia misura di smarcarsi dall’impostazione ideologica del grande fondatore, pur mostrando nello spazio pubblico la più profonda deferenza nei suoi confronti. Credo che questo atteggiamento continuerà anche nel futuro, perlomeno in quello prossimo.
Quindi nessun attacco frontale, ma un lento svuotamento sostanziale…
Direi che possiamo individuare una somiglianza speculare, e storicamente non priva di una certa ironia, tra l’atteggiamento di Atatürk nei confronti della religione e l’approccio della nuova élite nei confronti di Atatürk. La nuova Ankara di Atatürk era “la città senza moschee”, ma il fondatore della Repubblica fu sempre attentissimo a non fare mai mosse dichiaratamente ostili contro l’Islam come tale. Atatürk tentò non di stroncare, bensì di devitalizzare la presenza religiosa in Turchia. Ora questo governo punta in qualche modo a devitalizzare la presenza di Atatürk e della sua ideologia dalla scena pubblica e istituzionale.
Ci sono elementi dell’esperienza storica e ideologica di Atatürk che l’AKP ha genuinamente recuperato e fatto propri?
Nell’AKP ci sono molte posizioni, e direi che quella nazionalista è tutt’altro che secondaria. Ciò che Atatürk e il gruppo dirigente del primo periodo repubblicano hanno trasmesso alla Turchia, e anche all’attuale classe dirigente, è una forte e seria idea di stato. Esiste oggi una Turchia perché nel 1919 ci fu un nucleo di stato che non si piegò e che volle a tutti i costi sopravvivere. A differenza di quanto successo nel mondo arabo, la “tribù”, per così dire, del gruppo dirigente kemalista era lo stato, il che peraltro affonda le radici nella peculiare organizzazione dell’Impero Ottomano. Questo fa sì che anche l’AKP, in cui sicuramente si trovano correnti, cordate e cricche, agisce però con un forte senso delle istituzioni.
Come declinano nella modernità il proprio “kemalismo” i partiti che oggi si rifanno ad Atatürk, primo fra tutti il Partito Repubblicano del Popolo (CHP)?
Per circa vent’anni il kemalismo del CHP è consistito nella strenua difesa di una concezione “alla francese” della laicità dello stato e in un costante richiamo di allarme verso un vero o presunto pericolo integralista, oltre che ovviamente in un culto acritico del Grande Condottiero. Il CHP si era ingessato, alleandosi ai settori più autoritari dello stato e apparendo come il rappresentante di gruppi sociali privilegiati e concentrati sulla difesa dello status quo. Questa impostazione è stata costantemente punita dall’elettorato, il che ha portato infine ad un ricambio della dirigenza. Oggi alla guida del partito c’è Kemal Kılıçdaroğlu, che ha riportato in agenda i problemi sociali e temi come la lotta alla corruzione, facendo recuperare al CHP posizioni importanti. All’interno del partito restano però forti settori oltranzisti, e c’è chi pensa che si possa arrivare ad una scissione.
Cosa succede nel mondo accademico? C’è una produzione e una rivisitazione nuova rispetto alla figura di Atatürk e alla sua esperienza storica?
Nella sostanza, sì. Ormai tutta una serie di aspetti e di vicende molto scottanti del primo periodo repubblicano sono sottoposti ad uno studio e ad una denuncia anche molto franca ed aspra. Di solito si evita però di mettere direttamente in causa “lui”. C’è quindi una situazione complessa, in cui i nodi problematici e i drammi del periodo kemalista vengono ormai messi in luce, di solito però senza che ciò si traduca in un attacco diretto alla figura di Atatürk.
Offendere Atatürk in Turchia è ancora un reato. Esiste un dibattito pubblico sulla possibilità di rivedere questo articolo di legge?
Al momento anche questa è una questione congelata. C’è stato un ampio dibattito sull’altro articolo “scottante”, quello che punisce l’offesa alla turcità, che poi è stato emendato. L’assenza di un analogo dibattito sull’articolo in questione contribuisce all’impressione che, in questo momento, nessuno voglia affrontare di petto la questione Atatürk. Anche perché rimane una figura molto amata. E amata, attenzione, non solo tra le fila del CHP o dei nazionalisti del MHP, ma anche tra molti elettori dell’AKP. Un po’ come succedeva in tante case contadine del sud Italia, dove l’immagine della Madonna spesso si accompagnava a quella di Garibaldi, anticlericale convinto. I turchi imparano a scuola e spesso anche a casa che è buona cosa essere musulmani, amare la patria e considerare Atatürk il più grande genio di tutti i tempi. Non farsi al riguardo troppe domande è il miglior modo per vivere tranquillamente.
In un articolo scritto per Limes nel 2010, ha raccontato l’episodio di una ragazza velata che, in televisione, ha confessato pubblicamente “di non volere bene ad Atatürk”. Ci sono state nuove “confessioni” di questo tipo?
Per ora, a quanto so, è rimasto un episodio isolato. Certamente in una società in movimento come quella turca non escludo che possa succedere di nuovo. In questi anni, a criticare in modo più evidente e franco gli aspetti più autoritari del regime kemalista sono stati soprattutto ambienti di estrazione liberale. L’AKP, ripeto, ha la massima attenzione nel non affrontare frontalmente la questione. Questo non significa che l’astio di certi ambienti religiosi verso il kemalismo di tanto in tanto non salti fuori. Quando ad esempio nel 2008 è morta la grande soprano Leyla Gencer, l’acrimonia di una parte della società e della cultura turca verso di lei e quindi verso tutto quanto ella rappresentava (la musica classica occidentale era uno dei grandi amori di Atatürk) è emersa in modo evidente.
Nel 2008 il film “Mustafa” del giornalista e documentarista Can Dündar, un tentativo di raccontare l’uomo Atatürk oltre il mito, ha avuto grande successo, ma è stato accompagnato da molte polemiche. Quel dibattito ha avuto strascichi?
Ho notato che, dopo le polemiche a cui ha accennato, Dündar ha rinunciato ad occuparsi di temi particolarmente scottanti. Dopo che gli ambienti kemalisti più oltranzisti si sono scagliati violentemente contro di lui, accusandolo di “sacrilegio”, e dopo aver rischiato l’incriminazione, è come se avesse tirato i remi in barca, come se si fosse detto “ma chi me lo fa fare”. Un atteggiamento che ha messo in evidenza la permanenza di ambienti kemalisti molto rigidi. Da allora sulla figura di Atatürk non mi sembra che ci siano stati eventi mediatici della portata di “Mustafa”.
Oggi la Turchia viene spesso presentata come possibile modello per le rivoluzioni arabe. Questo ha portato a un rinnovato interesse verso la figura di Atatürk come riformatore politico?
Molti dei regimi dei Paesi arabi che stanno subendo dure contestazioni da parte popolare sono nati ad opera di figure storiche che avevano una grande ammirazione per Atatürk. Mustafa Kemal, non dimentichiamolo, è stato un grande modello per tutti i leader “progressisti-non comunisti” del terzo mondo, come Nasser, Sukarno, Nehru, per arrivare ai baathisti e ai leader anti-imperialisti dell’America Latina. Purtroppo questi regimi spesso si sono poi sclerotizzati in dittature personali.
Molti arabi guardano oggi alla Turchia come ad un Paese con una matura cornice istituzionale e democratica, in cui c’è però più che in passato coesione e sintonia tra stato e società civile, soprattutto riguardo alla presenza della religione nella sfera pubblica. Semplificando, nell’immediato è più alla Turchia di Erdoğan che a quella di Atatürk che si guarda oggi nel mondo arabo.
Detto questo, però, bisogna ribadire che Atatürk ha fatto ad Erdoğan, e a chiunque governerà la Turchia nel futuro, un “regalo” storico fondamentale, e cioè una seria ed alta idea dello stato e delle istituzioni. A mio modo di vedere, è grazie a questa eredità che in Turchia, anche in presenza di figure carismatiche, una dittatura personale come fu per esempio quella di Saddam Hussein (che era innanzitutto capo del suo clan, poi dei sunniti, poi degli arabi e solo in ultima istanza di tutti gli iracheni), è di fatto impensabile.