Armenia e Azerbaijan: attiviste per la pace raccontano il post-confitto

Le donne non sono solo vittime dei conflitti, ma anche della discriminazione di genere, che si accentua in tempo di guerra. Ne parlano attiviste per la pace di Armenia e Azerbaijan

08/03/2021, Claudia Ditel -

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© Lolostock/Shutterstock

Il cessate il fuoco in Nagorno-Karabakh dello scorso 10 novembre, che ha posto fine alla guerra dei 44 giorni tra Armenia ed Azerbaijan, difficilmente porterà una pace di lungo periodo. Le misure post-conflitto sono focalizzate principalmente su questioni militari e di sicurezza, con il recente lancio dell’unità militare congiunta tra Turchia e Russia in Azerbaijan e la missione di peacekeeping russa impegnata nel prevenire il sorgere di nuove tensioni e al contempo gestire la protezione dei rimpatriati e lo scambio dei prigionieri e dei corpi. Tuttavia, il dilemma di sicurezza nella regione si rafforza inevitabilmente, specialmente dopo la circolazione dei video che testimoniano crimini di guerra e dopo il dichiarato piano da parte dell’Azerbaijan di citare in giudizio l’Armenia per i costi di ricostruzione. Le tensioni nella regione di Syunik tra i gli abitanti di un villaggio armeno e le autorità azere sono solamente la punta di un iceberg che rivela quali sfide bisogna aspettarsi nel decennio in corso. La struttura verticale dei negoziati, che hanno recentemente visto i leader di Armenia, Azerbaijan e Russia incontrarsi a Mosca per discutere la costruzione di nuove infrastrutture congiunte, servirà a ben poco per ridurre le tensioni alla radice.

Tale gestione autoritaria dello scenario post-conflitto non solo finisce per porre in secondo piano le questioni umanitarie, ma genera anche due società cristallizzate e isolate. Ai negoziatori sfugge il nodo della questione, con la creazione di progetti transfrontalieri che sbloccano i movimenti interregionali senza affrontare prima la questione di preparare la popolazione alla coesistenza. Sarà questa la parte più difficile, una volta che alla popolazione di sfollati verrà permesso di tornare nei rispettivi territori. Le necessità delle donne, spesso dimenticate, diventano un forte denominatore comune nella creazione di iniziative congiunte transnazionali. Secondo alcune attiviste per la pace provenienti dall’Azerbaijan e dall’Armenia, che sono state intervistate da OBC Transeuropa, le donne vengono trattate come una minoranza quando si tratta di fronteggiare i bisogni della popolazione locale, divenendo così non solo vittime del conflitto, ma anche di una cultura di genere discriminante, che viene persino accentuata in tempo di guerra.

Una tragedia umanitaria transgenerazionale

Al suono delle sirene in seguito ai bombardamenti, le popolazioni dei territori circostanti il Nagorno-Karabakh sono state costrette a fuggire in Armenia. La maggior parte delle persone sono state sistemate in rifugi improvvisati, costrette a dormire nelle macchine od ospitate in qualche casa insieme ad altre famiglie. Le donne lamentano la mancanza di un’assistenza umanitaria che tenga in considerazione le questioni di genere. “Molti sfollati sono stati sistemati in alcune scuole, che hanno rivestito un ruolo importante come rifugi nell’immediato; tuttavia le scuole non sono un posto in cui vivere per un lungo periodo, in particolare perché alcune hanno scarse strutture sanitarie”, racconta Afag Nadirli, consulente presso l’Azerbaijan Youth Foundation, dipartimento di relazioni internazionali. “Alla gente non viene garantita un’assistenza sanitaria di base. La maggior parte degli sfollati temporanei, le cui case sono state distrutte dai bombardamenti, non hanno potuto farsi una doccia da quando sono stati sfollati. Le donne sono certamente un gruppo vulnerabile tra questi, specialmente quelle con bambini piccoli, proprio per la mancanza di un accesso alle cure sanitarie. I numeri sono elevati e le missioni di valutazione sia del governo che delle agenzie delle Nazioni unite necessitano di tempo prima di essere finalizzate”.

Il carattere transgenerazionale della crisi umanitaria emerge nelle parole di Saadat Abdullazada, attivista azera impegnata nell’organizzazione di training sui diritti delle donne, tra cui le questioni legate alla salute sessuale e riproduttiva: “I miei amici hanno visitato alcuni rifugi e hanno detto che specialmente le donne sono disperate. Loro da bambine furono costrette a lasciare le proprie abitazioni e adesso sono i loro figli a dover fare lo stesso, il che è difficile dal punto di vista psicologico”. Saadat Abdullazada descrive poi la situazione di una donna incinta, sistemata in un rifugio, che le aveva raccontato che sin da quando era piccola era cresciuta in un campo per rifugiati e che suo figlio era nato a sua volta come rifugiato. “Per me sarebbe davvero dura”, aggiunge Saadat, “non riesco neppure ad immaginare cosa stiano vivendo”.

Fare più figli per sostenere l’esercito

La violenza contro le donne va al di là dell’impatto diretto del conflitto sulle loro condizioni di vita; la violenza è strutturale e ha a che fare con il processo di "securitizzazione" perpetuato dai governi, che ha reso l’apparato militare il pilastro del sistema politico, economico e culturale. Gli ideali militaristi e la cultura machista si riversano sulle donne sotto forma di una struttura patriarcale, influenzando le loro vite quotidiane non solo durante la guerra, dunque provocando quello che la studiosa femminista Cynthia Cockburn definisce "un continuo di violenza". Eppure ciò non significa che le donne siano consapevoli degli effetti dannosi della cultura di guerra sui loro diritti e le loro libertà.

“C’era così tanto fomentare la guerra in Armenia anche da parte delle donne”, spiega Arpi Bekaryan, attivista di pace e giornalista freelance. “Incitavano gli uomini ad andare a combattere. Se non eri nell’esercito, se non avevi servito, se non avevi combattuto, non eri un vero uomo. Alcune donne postavano su Facebook frasi del tipo: ‘Perché non vai? Perché sei ancora qui?’. C’era anche un altro gruppo su Facebook in cui alcune donne condividevano foto di soldati. Domandavano: ‘Chi è più bello?’, questo genere di cose”.

“In Azerbaijan”, racconta Saadat, “molte donne vogliono la guerra, dicono ‘rivogliamo indietro le nostre terre! Dobbiamo continuare la guerra!’. Ricordo che quando avevano preso uno dei villaggi e i notiziari avevano riportato l’evento, ho sentito un sacco di persone affacciarsi dai balconi e urlare. Molte di quelle erano voci di donne, che strillavano ‘il Karabakh è Azerbaijan!’. Non sono riuscita a dormire quella notte. Ciò non è sorprendente, siccome la maggior parte di quei discorsi è propaganda fatta nelle scuole. Noi non avevamo altra scelta. Le donne sono state cresciute pro-guerra”. Saadat riporta anche di alcuni post di Facebook scioccanti, pubblicati da donne e uomini azeri durante i giorni della guerra, che incitavano le donne a sposare i soldati disabili che tornavano dal fronte e a dare alla luce più figli per sostenere l’esercito, anche dietro compenso da parte del governo.

“Durante la guerra, ho iniziato a notare come molti in Armenia iniziassero a parlare di questioni di sicurezza nazionale, nel senso che noi dovevamo partorire più bambini per non avere problemi coi numeri della popolazione”, racconta Knarik Mkrtchyan, coordinatrice di progetti relativi all’agenda Donne, Pace e Sicurezza. “Il militarismo patriarcale considera i nostri corpi come se fossero degli incubatori – per dare alla luce dei soldati. Ho sentito da alcune mie amiche ‘non mi interessa se non mi sposo, io voglio un figlio, perché altrimenti avremo una crisi demografica’. Questo affermato in una società patriarcale! Davanti alla retorica militarista avere un figlio e non essere sposate non è poi una questione così importante, perché si ritiene che la gente capirebbe. D’altra parte, molti stanno iniziando a parlare di servizio miliare obbligatorio per le donne".

Le donne hanno aderito all’angosciante e dolorosa responsabilità di essere madri della nazione prima che dei loro figli, accettando la morte dei figli da soldati come necessario sacrificio alla madrepatria, fino al punto che loro stesse hanno considerato di sacrificare le loro stesse vite. E tuttavia, questa mentalità pro-guerra influisce sui loro diritti riproduttivi. Non è un caso che sia l’Armenia che l’Azerbaijan si classificano tra le prime dieci posizioni su scala mondiale per rapporto numerico maschi/femmine, con 113 bambini per 100 bambine, indice di un elevato numero di aborti selettivi.

L’integrazione di genere come prospettiva di cambiamento

Armenia e Azerbaijan presentano allarmanti tassi di violenza di genere, che tendono ad aumentare in tempi di stress emotivo e frustrazione. In entrambi i paesi, le associazioni femministe hanno organizzato proteste per esortare i governi a ratificare la Convenzione di Istanbul del 2011 contro la violenza contro le donne. Ciò dimostra come la cultura anti-machista di alcune donne possa costituire un terreno comune per coinvolgere parte delle due popolazioni e decostruire la narrativa filo-militarista. Tuttavia, le questioni di genere non sono una priorità dei governi. Secondo Saadat: “La guerra è iniziata a settembre e noi dovevamo fare training sulle questioni di genere e sulla salute riproduttiva. Sarebbero dovuti terminare alla fine di novembre, ma sin da settembre non abbiamo potuto organizzare nulla poiché dovevano cooperare con un centro che dipende dal governo. Tale centro per i giovani ci ha detto che dovevano organizzare training su questioni storiche e militari e che non sarebbero stati disponibili ad organizzare training su questioni di genere. Avrebbero rischiato di indispettire la popolazione: ‘C’è la guerra e voi parlate di questioni di genere?’. Questo è quello che dicono”.

“In Armenia”, spiega Knarik, “fare peacebuilding non è ben visto al momento; è davvero un lavoro infame, poiché i peacebuilder vengono molto criticati. A questo punto, il lavoro del peacebuilder sta tutto nell’identificare le conseguenze della guerra, illustrare le conseguenze della guerra alla popolazione e, indirettamente, far notare che la pace è l’unica soluzione. Non usiamo un lessico diretto. Non è sicuro, la legge marziale è ancora in vigore in Armenia. Dobbiamo fare attenzione alle parole che scegliamo,  a qualsiasi cosa, alle interviste…”. Aggiunge: “Non c’era nemmeno una donna ai negoziati ufficiali. Non c’era interesse nel coinvolgere le donne. La mia visione è di incentivare un dialogo su livelli differenti se davvero vuoi ottenere una pace duratura. Questa è la soluzione che noi vogliamo per la pace”.

È proprio questo tipo di politiche a porte chiuse e tra élites che mina le prospettive di stabilizzazione nella regione, esacerbando la sfiducia e l’odio reciproco. Il nuovo assetto post-conflitto è una vittoria per le parti vincenti, ovvero Azerbaijan, Russia e Turchia. Allo stesso modo appare una sconfitta per le organizzazioni internazionali e primi tra tutti l’OSCE e il gruppo di Minsk, che hanno visto il loro ruolo politico da mediatori nel conflitto drasticamente ridotto. L’OSCE potrebbe rilanciarsi adottando un approccio integrato multi-livello, ovvero aprendo diversi canali di comunicazione tra mediatori e società civile, così come sottolineato dall’esperto di Caucaso Thomas De Waal . Allo stesso modo, approcci innovativi dovrebbero andare oltre la visione tipicamente occidentale della pace liberale, secondo la quale il rafforzamento dello stato di diritto e della democrazia rappresenta l’unica strada verso la stabilizzazione. I donatori internazionali, anziché rivolgersi a gruppi ristretti, ad esempio tramite incontri transnazionali esclusivamente tra giornalisti o figure politiche di rilievo, dovrebbero fare fronte ai bisogni primari della popolazione in uno scenario post-conflitto. I progetti dovrebbero essere pragmatici e bottom-up, così da riprodurre delle comunità di pratiche, ovvero comunità di persone che condividono dei vantaggi dall’essere coinvolte in iniziative congiunte su base quotidiana.

Le attuali questioni umanitarie critiche nello scenario post-conflitto sono anzitutto il processo di ricostruzione e la gestione del gran numero di sfollati e rifugiati, inclusi alcuni aspetti di natura psicologica come l’assistenza alle vittime di traumi da guerra. A questi si aggiungono e si intrecciano altre questioni delicate come la riabilitazione di terre arabili e pascoli, la cooperazione per la condivisione delle risorse idriche tra i villaggi armeni e azeri lungo i confini internazionali e infine, ma non per questo di minore importanza, il contrasto agli episodi di discriminazione di genere, che chiaramente si aggravano in seguito alla guerra. Prestare ascolto alle donne locali può suggerire agli attori internazionali quale direzione dovrebbe prendere un approccio incrementale. “Parlare di questioni veramente basilari, come l’elettricità, l’educazione dei bambini e non direttamente del conflitto”, suggerisce Afag, “sono queste le cose buone per costruire un terreno comune. Spero che le problematiche delle donne siano una di queste”.

Al momento in cui si scrive, è irragionevole immaginare una convergenza tra le due popolazioni. I processi di sminamento e ricostruzione saranno probabilmente completati prima della fine del decennio. Allora i contatti tra le popolazioni si intensificheranno e alcuni armeni e azeri si ritroveranno inevitabilmente vicini di casa. È tempo di iniziare a emancipare la popolazione locale attraverso progetti transnazionali. I bisogni delle donne potrebbero rappresentare un trampolino di lancio in questa direzione. Le donne potrebbero riscontrare diversi benefici nel venire coinvolte in progetti sensibili alle tematiche di genere di comune interesse su questioni critiche. Tali progetti possono consistere in coordinamento di case rifugio per vittime di violenza e programmi di supporto sia fisico che psicologico, sviluppo di un sistema di allarme rapido teso a contrastare la violenza di genere e campagne di sensibilizzazione. Infine, attori internazionali quali l’OSCE dovrebbero promuovere la creazione di un consiglio di donne che assista il processo negoziale. Mai prima d’ora l’adozione di una prospettiva di genere per la risoluzione del conflitto in Nagorno-Karabakh rappresenta non solo una questione umanitaria, ma anche una possibilità di cambiamento.

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