Armenia-Azerbaijan: le intransigenze escludenti

"Lutti e dolori nel Caucaso sono esclusivi – afferma l’autore di questo commento – servono a plasmare l’identità di un popolo. E passano attraverso la negazione dell’altro, il diverso, il nemico con la cancellazione di ogni sua traccia e l’estirpazione della memoria"

30/10/2020, Paolo Bergamaschi -

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© Tengku Ammar/Shutterstock

Durante uno dei miei frequenti viaggi nel Caucaso meridionale mi capitò un giorno di scostarmi dalla direttrice principale che da Tbilisi porta a Yerevan sfiorando il confine con l’Azerbaijan. Si notavano di fianco alla strada in più punti i resti evidenti delle fondamenta di costruzioni in pietra bianca che l’erba del terreno incolto non riusciva a nascondere. "È quello che rimane dei villaggi abitati dagli azeri", mi spiegò, laconico, l’interlocutore armeno che sedeva al mio fianco.

Sono più di 200.000 gli azeri fuggiti dall’Armenia durante la guerra con l’Azerbaijan agli inizi degli anni Novanta. Si aggiungono all’oltre mezzo milione di sfollati che hanno dovuto abbandonare il Nagorno Karabakh e le province circostanti. Quasi un decimo della popolazione dell’Azerbaijan è formato da rifugiati e sfollati. Gli armeni scappati dall’Azerbaijan durante quello stesso periodo ammontano a più di 300.000.

Ogni volta che arrivavo a Baku in delegazione ufficiale il primo impegno del programma era la visita con le autorità azerbaijane al memoriale alle vittime della guerra nell’Alto Karabakh che si trova a lato del parlamento dove era prassi deporre garofani rossi su ogni tomba. A Yerevan, invece, il protocollo prevedeva la visita alla collina di Tsitseranaberd, sulla cui sommità si trova l’austero e struggente memoriale del genocidio. Furono più di un milione gli armeni trucidati dall’impero ottomano tra il 1915 e il 1916.

Una tragedia immane dell’umanità intera che, però, lascia indifferenti le autorità di Baku concentrate sulla santificazione dei propri martiri. Lutti e dolori nel Caucaso sono esclusivi. Servono a plasmare l’identità di un popolo. E passano attraverso la negazione dell’altro, il diverso, il nemico con la cancellazione di ogni sua traccia e l’estirpazione della memoria. L’omogeneità acquisisce, così, un valore primario e quando non è possibile farlo ridisegnando i confini si ricorre alla pulizia etnica.

Anche se è scomparsa dalle notizie di testa dei telegiornali la guerra nel Nagorno Karabakh continua a mietere vittime. Gli accordi di cessate il fuoco mediati fra le due parti, prima dai russi e poi dagli americani, sembrano scritti sull’acqua. I bombardamenti sulla piccola enclave armena, grande quanto il Molise, non cessano così come non cessano le bombe sulle città azere limitrofi. Gli armeni denunciano un migliaio di morti; le autorità di Baku, invece, tacciono sul numero dei caduti che, comunque, sono molto più numerosi. Anche la verità è vittima della guerra.

Nell’inestricabile groviglio di contraddizioni caucasico si registra il paradosso di una fragile democrazia, quella armena, dalla parte del torto, contrapposta ad una autocrazia dinastica, quella azera, che chiede insistentemente il rispetto del diritto internazionale. Dal 1994 l’Armenia occupa il venti per cento del territorio dell’Azerbaijan. Di questo solo la metà è terra contesa, l’Alto Karabakh.

L’altra metà sono sette province circostanti che Yerevan rifiuta ostinatamente di restituire adducendo ragioni di sicurezza. Del tutto comprensibile è la frustrazione di Baku nei confronti di un processo di pace che in ventisei anni non ha cavato un ragno dal buco. Il tempo trascorso è servito solo a gonfiare gli arsenali, che si svuotano ogni qualvolta si riaccendono a singhiozzo le ostilità, e le tasche dei diplomatici, che si avvicendano al tavolo negoziale ogni qualvolta le ostilità si attenuano.

Le notizie che arrivano dal fronte parlano di un avanzamento in più punti delle forze azere. In base ai mezzi dispiegati la sorte dell’esercito armeno sarebbe segnata. I soldati di Baku non sono più la sgangherata armata Brancaleone della prima guerra. I petrodollari di cui dispone l’Azerbaijan fanno la differenza. Gli azeri, però, sanno che oltre una certa linea non possono spingersi se vogliono evitare l’intervento della Russia, alleato militare dell’Armenia. Ilham Aliyev, l’uomo forte di Baku salito al potere nel 2003 dopo la scomparsa del padre Heydar, può, così, esibire il parziale guadagno territoriale ai propri concittadini come trofeo di guerra. Tacendo sul numero delle vittime e preparando una nuova e successiva guerra.

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