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Armenia, 100 anni

Ieri sera a Yerevan sono iniziate le commemorazioni del centenario del genocidio armeno. L’arrivo delle delegazioni internazionali, il concerto dei System of a Down, la speranza del riconoscimento

24/04/2015, Simone Zoppellaro - Yerevan

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Yerevan, il Memoriale del Genocidio (Tsitsernakaberd). Foto Marco Fieber, Flickr

Immaginate di vivere in un mondo in cui l’Olocausto sia stato negato per cento anni dal paese che ne eredita la responsabilità morale e storica. Immaginate che i sopravvissuti e i loro discendenti abbiano perso ogni diritto su quel paese: le loro case, i luoghi di culto, le proprietà – tutto perduto. Ora, immaginate che molti altri paesi nel mondo portino avanti lo stesso negazionismo, rinnegando la verità della storia per una mera convenienza politica o economica. Purtroppo, non si tratta di fantascienza, ma del mondo in cui viviamo noi tutti, se si considera al posto della Shoah il suo predecessore e l’evento ad essa più prossimo: il genocidio armeno.

Cento rintocchi di campana hanno risuonato ieri in Armenia, a Gerusalemme e in altre città del mondo alle 19:15. Un gesto simbolico, compiuto in religioso silenzio, per ricordare i tragici eventi del 1915. Una tragedia che qui a Yerevan non è parte di un passato lontano, ma un incubo destinato a ripetersi nel corpo e nella mente dei discendenti fino a che la memoria di quelle vittime non troverà pace.

E di pace, in terra d’Armenia, se ne vede ancora pochissima. Piegata da una miseria sempre più feroce e invadente, approdo di migliaia di profughi giunti qui per miracolo dalla Siria, e infine stremata da una guerra – quella per il Nagorno Karabakh – che dopo vent’anni dal cessate il fuoco pare sempre più lontana dal trovare una soluzione, l’Armenia lotta ogni giorno per la sua sopravvivenza. Anche per questo – perché la tragedia è ancora oggi il pane quotidiano di questa gente – il genocidio non pare una cosa remota, qui ai piedi dell’Ararat.

Mentre si susseguono gli arrivi all’aeroporto di Yerevan, dal cantante Charles Aznavour a diversi capi di stato come Putin, Hollande, il presidente serbo e il suo omologo di Cipro, sale l’aspettativa nel cuore di molti cittadini armeni. Che questa sia la volta buona, sembrano dire, che si rompa una volta per tutte l’indifferenza e l’isolamento a cui questa giovane repubblica dal cuore antico pare condannata da un crudele destino.

Dossier dedicato al centenario del Genocidio armeno

E allora il simbolo scelto per questa commemorazione, un fiore dal nome simbolico, il non-ti-scordar-di-me, assume quasi una seconda valenza. Un fiore che in questi giorni si vede ovunque a Yerevan, dai cartelloni disseminati nelle strade cittadine, fino alle spille sulle giacche e alle magliette, e finanche sul palco del concerto dove si sono esibiti – la sera del 23 aprile – i System of a Down. Ebbene, questo fiore viola ci invita non solo a meditare sul passato e sulle vittime, ma anche a ricordarci che la tragedia è ancora in corso, e pare lontana dal trovare un epilogo.

Quei cento rintocchi di campana giungevano al termine di un’importante cerimonia tenutasi ieri a Echmiadzin, il centro storico e spirituale della chiesa apostolica armena. Si è trattato del primo degli eventi in programma che marcano fra il 23 e il 24 aprile il culmine del centenario del genocidio. Quanto è avvenuto, alla presenza del presidente della repubblica armena Sargsyan e del catholicos Karekin II, padre spirituale della chiesa apostolica, è stata la canonizzazione del milione e mezzo di vittime del genocidio compiuto un secolo fa. Una cerimonia di due ore e mezza che si è conclusa nel momento in cui, un secolo fa esatto, ebbe inizio il genocidio degli armeni nell’impero ottomano.

Fu proprio nella notte fra il 23 e il 24 aprile del 1915 che il piano di sterminio ordito dai triumviri Mehmed Talaat Pascià, Ahmed Gemal e Ismail Enver iniziò la sua tragica messa in atto. Obiettivo primo di quella notte furono gli intellettuali, i leader politici e spirituali armeni dell’Impero ottomano, arrestati e in seguito deportati, e nella quasi totalità uccisi. A ulteriore testimonianza di un’attenta pianificazione dello sterminio che sarebbe seguito, i Giovani turchi miravano così a soffocare sul nascere ogni possibile resistenza all’attuazione del genocidio.

Dopo la cerimonia di canonizzazione, la commemorazione è proseguita a Yerevan con un altro evento molto sentito dalla gente, e che ha trovato – nonostante la pioggia incessante – una notevole partecipazione di pubblico. Ci riferiamo al concerto dei System of a Down, la band armeno-californiana capitanata da Serj Tankian che si è esibita alle nove nella centralissima piazza della Repubblica.

Un concerto bello e coinvolgente, in cui non sono mancati spunti di riflessione su quel tragico passato e anche sull’attualità politica dell’Armenia. Si è trattata della prima esibizione della band a Yerevan, e per molti nel paese anche del primo grande evento di questo tipo. Che non si trattasse solo di rock’n’roll, è stato reso subito evidente anche dalla maglietta indossata dal batterista John Dolmayan: “Our wounds are still open” (“Le nostre ferite sono ancora aperte”), con chiaro riferimento al mancato riconoscimento del genocidio da parte di paesi quali la Turchia e gli Stati Uniti.

Il culmine emotivo del concerto si è toccato con il discorso dal palco del vocalist Serj Tankian. Un discorso denso e destinato a lasciare il segno, che dimostra ancora una volta l’impegno politico portato avanti su molti fronti dalla band in questi anni.

Dal palco, il vocalist – da sempre impegnato nel dialogo e nella riconciliazione – ha raccontato come sua nonna fu salvata da un turco, e come il governo turco di oggi dovrebbe considerare come eroi uomini come questi. Il nonno, invece, vide a cinque anni la morte del padre, e divenne cieco a causa degli stenti. Dopo un appello alla Turchia e agli USA perché riconoscano come genocidio quanto avvenuto un secolo fa, non è mancata una critica alla Russia e anche al governo di Yerevan, responsabile – a detta di Tankian – per la mancanza di uguaglianza sociale e la continua emigrazione all’estero dei suoi cittadini.

Attorno al palco, gli onnipresenti non-ti-scordar-di-me. E la speranza nostra è proprio questa: che ricordo degli orrori di ieri serva soprattutto, scolpito per sempre nelle nostra memoria, a prevenire quelli di oggi e di domani.

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