Armeni di Turchia: i rimasti
In Turchia vivono molti discendenti degli armeni fuggiti al genocidio del 1915. La sociologa e giornalista Laurence Ritter ha condotto diverse inchieste e studi sulla loro condizione. Intervista
Il 24 aprile 2015 si è celebrato il centenario dal genocidio armeno. Mai l’Armenia è stata così al centro dell’attenzione internazionale dal 1991, anno dell’indipendenza: ha saputo, l’Armenia, approfittare di questi eventi così da far sentire la propria voce nel mondo senza auto-limitarsi nel ruolo esclusivo dell’eterna vittima?
Al di là dell’Armenia, diciamo che sono stati piuttosto gli armeni e il genocidio di cui sono stati vittima che per una volta si sono ritrovati sotto i riflettori dei media. Penso che in effetti, la chiusura in uno statuto (o, piuttosto, in un non-statuto) di vittime, non possa riuscire a definire il popolo armeno – al contrario. Si tratta di un popolo che nel 1915 non solo ha perduto un milione e mezzo dei suoi, ma anche la maggior parte del proprio territorio, nel quale gli armeni vivevano dalla fine del regno Urartu (VII secolo a.C).
Quel territorio aveva come centro storico i dintorni di Van, nell’attuale Turchia orientale, oggi popolata per la maggior parte da curdi. Dunque, quel che è stato commemorato non è stato solamente lo sterminio di un popolo, ma anche un genocidio culturale: gli armeni sono stati dispersi in giro per il mondo, mentre altri sono riusciti a fuggire in quella che poi divenne l’Armenia sovietica e infine, nel 1991, l’Armenia indipendente, ma i territori originari, i monumenti, le chiese, i monasteri, i luoghi di vita, sono stati quasi tutti cancellati dalle carte geografiche durante il genocidio del 1915.
Le persecuzioni contro gli armeni non si sono fermate con gli stermini del 1915, ma sono proseguite nel tempo. La commemorazione del centenario del genocidio è anche l’occasione per discutere di un’altra questione molto delicata e attuale : il destino dei discendenti di coloro che riuscirono a sfuggire ai massacri e che trovarono il modo di restare in Turchia.
Sì, è vero, e possiamo anche aggiungere che il massacro non ha avuto inizio nel 1915: bisogna ricordare che i massacri organizzati dal sultano Abdul Hamid alla fine del XIX secolo e il massacro di Adana, nel 1909, poco tempo dopo la presa del potere da parte del movimento dei Giovani Turchi (lo stesso che poi pianificherà e perpetrerà il genocidio del 1915), sono stati eventi che hanno avuto come obiettivo quello di indebolire gli armeni.
I discendenti di coloro che riuscirono a salvarsi sono stati lungamente ignorati. Perché? In primo luogo perché spesso si trattava di bambini all’epoca troppo giovani per ricordarsi delle loro origini, e che furono presto integrati in famiglie curde e turche, a volte per una reale volontà di salvataggio, più spesso come piccoli schiavi e servitori. Il prezzo pagato dalle donne e dalle giovani ragazze fu terribile. Oggi i nipoti di queste donne violentate e forzate a sposarsi a dei curdi e a dei turchi prendono finalmente la parola in Turchia.
E’ stato il libro di Fethye Cetin, Heranush, mia nonna , dove si racconta il destino di una donna armena, pubblicato nel 2005, a spianare la via. Bisogna poi accennare a quei clan famigliari di armeni sfuggiti alle persecuzioni che riuscirono a praticare il matrimonio endogamico, e che dunque sono oggi totalmente armeni. Alcuni sono islamizzati, altri no, oppure lo sono solo di facciata. Non abbiamo dunque a che fare solamente con dei nipoti la cui nonna era armena, ma anche con clan famigliari che hanno praticato per decenni l’endogamia al fine di sopravvivere e, magari, di provare a perpetuare la propria cultura e lingua.
Nel suo ultimo libro, Les restes de l’épée (non ancora tradotto in Italia), dà la parola a decine di armeni nascosti o discendenti di donne armene forzate a sposarsi. Si tratta, spesso, di gente semplice, che vive nel mezzo delle difficoltà dei villaggi curdi. Qual è stata la sua esperienza con queste persone? Quali difficoltà ha dovuto affrontare per avvicinarli?
Spesso ho avuto a che fare con la paura, che dimora ancora viva e palpabile. È una paura ben radicata e interiorizzata dai tempi del genocidio: per sopravvivere, bisognava sparire in quanto armeni. Dunque, nulla distingue questi armeni nascosti o islamizzati dai loro vicini – salvo casi in cui, nelle regioni dell’est dell’Anatolia a cui mi sono interessata, i vicini curdi sapevano benissimo chi era armeno nel villaggio, spesso persone condannate a un isolamento terribile.
Quando dico "paura", mi riferisco piuttosto alla paura del vicino nel villaggio più che delle autorità turche. Qualche volta la paura è diretta sia nei confronti dei turchi che dei curdi, soprattutto in alcune grandi città. Infine, non dimentichiamoci che far parlare queste persone significa anche far ricordare loro le storie legate al genocidio: chi venne ucciso, chi sopravvisse e come.
Per quel che riguarda il metodo d’approccio, bisogna dire che non ci si avventura in simili luoghi a caso. C’è un lungo lavoro di preparazione a monte, come ad esempio prendere contatti sicuri affinché i membri delle famiglie contattati non siano sorpresi del nostro arrivo, o non restino muti quando rivolgiamo loro la parola.
Chi sono oggi, nel 2015 gli armeni in Turchia?
Le cose evolvono velocemente. La riconsacrazione della cattedrale di Diyarbakır, nel 2010, è stato un gesto molto forte: al di là del valore puramente religioso che la sua riapertura rappresenta, la cattedrale è divenuta un luogo dove si apprende la lingua armena, dove vengono organizzate attività culturali, dove finalmente gli armeni possono prendere la parola e uscire dalla loro prigione di silenzio.
So che alcune associazioni armene hanno finalmente visto la luce in queste regioni, come ad esempio a Mush. Questo era impensabile solo pochi anni fa. C’è una volontà da parte degli armeni di riappropriarsi della propria identità, della propria storia, ed è un movimento che certamente non si fermerà.
Nel suo libro parla di un elemento largamente tralasciato dalla storiografia contemporanea, cioè il ruolo delle popolazioni curde durante i massacri del 1915. Asserisce in maniera molto esplicita che il governo dei Giovani Turchi si appoggiò alle popolazioni curde per realizzare il genocidio…
Sì, senza alcun dubbio, e questo sostegno era già presente dalla seconda metà del XIX secolo. Il governo dei Giovani Turchi venne massicciamente sostenuto e aiutato dalle popolazioni curde durante il genocidio. Spesso i curdi furono così diligenti nel loro sostegno alla soldataglia turca che uccidevano di mano propria i vicini di casa armeni. Molte famiglie mi hanno raccontato che, siccome gli armeni erano prima di tutto artigiani e commercianti, certe tribù curde sterminarono intere famiglie risparmiando quei membri che praticavano un mestiere specifico – ciò per il semplice fatto che un artigiano o un commerciante era insostituibile.
Dunque, quel che a volte disturbava gli armeni che intervistavo era proprio questo fatto: raccontare come mai la propria famiglia sovravvisse allorché il resto del villaggio veniva annientato. Penso che se oggi dovessi fare una nuova ricerca sociologica, essa sarebbe centrata sulla memoria curda del 1915. Non ho mai incontrato una famiglia curda che non sapesse esattamante cosa accadde a quel tempo. Dal momento che i curdi sono in pieno conflitto con il governo turco da circa trent’anni, oggi non negano più il loro passato sostegno alle truppe turche – al limite affermano di essere stati manipolati.
Oggi sostengono una sorta di solidarietà e fraternità con gli armeni, dicono che sono stati i turchi ad utilizzarli e che poi sono stati massacrati a loro volta. Nei fatti i curdi non solo hanno aiutato i turchi durante lo sterminio, ma si sono anche appropriati delle proprietà delle famiglie armene, delle loro case e dei loro beni, anche quando le famiglie armene dei villaggi non erano più ricche dei loro vicini curdi. Occupando le loro case e terre, hanno considerato l’est della Turchia come parte integrante di un Grande Kurdistan che andava creandosi a partire dal nord dell’Iraq.
Quello che è scioccante per certi armeni è che spesso, dopo aver espresso rammarico per le brutalità del passato, molti curdi iniziano a chiedere se i loro interlocutori armeni sanno dove i loro avi abbiano nascosto l’oro. La maggior parte dei curdi sono persuasi che gli armeni abbiano nascosto dell’oro prima di scappare o di essere deportati. Spesso si tratta solamente di una leggenda, ma ho potuto notare la reazione scandalizzata degli armeni. Sono discorsi che fanno riaffiorare i vecchi stereotipi che hanno facilitato il passaggio all’azione da parte dei curdi, e cioè l’intenzione di appropriarsi delle supposte ricchezze nascoste del loro vicino armeno.
Nel suo libro racconta anche la storia, bizzarra e atipica, di qualche giovane di origine armena che decise di arruolarsi nel PKK. Una strana contraddizione se si pensa al ruolo decisivo che ebbero i curdi duranti i massacri.
In effetti, ma i casi citati nel libro sono quelli di persone, curdi soprattutto, che quando erano giovani, negli anni ’80, ignoravano le proprie origini armene. All’epoca erano attirati da movimenti rivoluzionari d’ispirazione marxista.
Turchi e curdi condividono la medesima memoria sul genocidio o, al contrario, hanno punti di vista differenti?
Come ho già detto prima, la memoria non è la stessa. Penso che la società turca, nello specifico i cittadini, non abbiano semplicemente nessuna nozione storica di quel che accadde. Allo stesso tempo, però, bisogna segnalare che una parte sempre più consistente della società civile e degli intellettuali turchi si stanno mobilitando per riconoscere il genocidio, che ancora oggi resta una parola tabù.
Il giornalista e intellettuale turco di origini armene Hrant Dink, assassinato il 19 gennaio 2007, fece molto per confederare questi intellettuali e attivisti attorno al suo giornale, Agos. Il mio amico e collega Cengis Aktar, che ha scritto la prefazione del mio libro, è dell’avviso che "i djins, i demoni della tradizione islamica, sono usciti dalle loro bottiglie". Con questo egli vuole dire che un poco alla volta la società turca sente parlare sempre più spesso dei fatti avvenuti nel 1915.
Il muro di silenzio si sta sgretolando un poco alla volta, ma la posizione dello Stato è molto diversa. Da una parte è arroccata sulle posizioni nazionaliste create da Kemal Atatürk, pure se all’interno di un partito islamico e conservatore come quello del AKP, mentre dall’altra temono le eventuali domande di riparazione da parte degli armeni, specialmente per quel che riguarda i beni confiscati e, ovviamente, anche i territori perduti.
Spesso gli armeni si sentono un popolo perseguitato, quasi "maledetto". I pogroms di Baku e Sumgait nel 1988 e la guerra in Nagorno Karabakh hanno resuscitato i fantasmi del genocidio e delle persecuzioni. Oggi un’altra persecuzione è all’opera: quella dei cristiani d’Oriente, soprattutto in Siria e Iraq. In quanto popolo forgiato sull’identità cristiana, gli armeni sono spesso tra gli obiettivi di queste persecuzioni (la battaglia di Kesab ne è un esempio concreto) e si trovano dunque costretti a trovare rifugio in Armenia. Esiste un parallelismo tra questi diversi episodi?
Ciascun episodio di persecuzione rimanda al trauma originale del genocidio. Tuttavia, non dimentichiamoci che quella del Nagorno Karabakh è una delle rarissime popolazioni armene a non aver vissuto il genocidio – ma non certo ad aver conosciuto la pace. Nel 1920 la presa di Shushi da parte dell’Azerbaijan fu accompagnata da massacri, mentre la scelta di Stalin di donare questo territorio alla RSS d’Azerbaijan creò ulteriori frustrazioni. Questi fatti finirono per creare una situazione che esplose durante la decomposizione dell’Unione Sovietica, ma il trauma del genocidio non esiste in Nagorno Karabakh. Allo stesso tempo, però, è vero che nell’insieme del popolo armeno, tutti gli episodi tragici vissuti dalla collettività (e pure quelli individuali) richiamano alla memoria la tragedia iniziale e questo, ancora una volta, pure quando la gente non lo esprime in maniera diretta.
Ogni armeno è discendente di fuggitivi a cui è stata rubata la terra, massacrata la famiglia, distrutta la cultura. Ma ancora una volta, non si tratta di rinchiudersi nella sola commemorazione del crimine, altrimenti l’identità armena diviene proprio ciò che i loro boia volevano che divenisse, un contenitore di sofferenze. Ora, quella armena è una cultura così ricca, che affonda le sue radici così lontano nel passato, che non vedo proprio come potrebbe essere ridotta esclusivamente all’identità costruita da un massacro di massa.