“Aquila d’inverno”, la vendetta di Erdoğan sui curdi in Siria e Iraq
Con l’operazione militare "Aquila d’inverno", la Turchia di Erdoğan rilancia la campagna contro le forze curde ed ezide in Siria del nord e Iraq. Una lunga guerra di logoramento, che secondo molti analisti vede una collaborazione di fatto tra le forze di Ankara e quelle dell’ISIS
La ricompensa per combattere l’Isis sono le bombe in testa. Un destino che da ormai più di cinque anni si ripete per le popolazioni curde situate in Rojava (Siria del Nord) e Iraq settentrionale (regione del Sinjar e campo profughi di Makhmour) e che in questi giorni si intensifica: nonostante non manchi molto all’arrivo della primavera, infatti, la Turchia ha deciso di lanciare l’operazione “Aquila d’inverno”.
Una serie di bombardamenti aerei, attacchi portati avanti con droni e artiglieria pesante si sono abbattuti nella notte fra martedì e mercoledì della scorsa settimana sui territori confinanti con la repubblica guidata da Recep Tayyip Erdoğan.
Secondo Ankara, si tratta di una decisione “in linea con il diritto di difesa sancito dall’articolo 51 delle Carta delle Nazioni Unite” e che ha lo scopo di “neutralizzare le forze di Pkk, Kck, Ypg e di altri elementi t[]istici”. Ma la realtà, fatto magari salvo per alcuni obiettivi specifici, è che la “minaccia alla sicurezza” che dovrebbero rappresentare per la Turchia quelle aree di terra a controllo curdo fra la Siria e l’Iraq è di natura squisitamente politica: sono infatti zone in cui si cerca, pur fra le mille difficoltà, di mettere in pratica i principi del confederalismo democratico elaborati da Abdullah Öcalan (detenuto dal 1999 nella prigione di İmralı nel mar di Marmara) e che sono diventate un simbolo della lotta per la libertà e per il riconoscimento dei propri diritti anche per le popolazioni curde che vivono in Anatolia.
Se tutto ciò, com’è noto, in Siria del Nord avviene sostanzialmente dallo scoppio della guerra civile del 2011 in poi, con la costituzione della regione autonoma del Rojava, la celebre resistenza di Kobane all’avanzata dell’Isis nel 2015 e una successiva stabilizzazione, al campo profughi di Makhmour (governatorato di Erbil, Iraq) è invece prassi consolidata praticamente fin dall’arrivo nell’area di rifugiati dalla Turchia legati alla lotta curda nell’ormai lontano 1998.
A Senghal, nella piana di Ninive (nord-ovest dell’Iraq), è invece la storia più recente ad aver condotto la popolazione locale degli ezidi (una particolare confessione religiosa di ascendenza zoroastriana) a essere invisa ad Erdoğan (nonché agli stessi curdi legati a Barzani che governano la regione autonoma del paese): dopo aver subito un pesantissimo massacro da parte dei fondamentalisti islamici di Daesh fra il 2014 e il 2015 (fatti riconosciuti dall’Onu come un “genocidio”) sono riusciti a riprendere controllo delle proprie terre anche grazie all’aiuto delle unità di autodifesa del Rojava Ypg e Ypj e dei guerriglieri del Pkk, da cui hanno poi “mutuato” anche modelli politici e forme di autogestione sociale per i successivi tentativi di “ricostruzione”.
Guerra di logoramento
Non stupisce dunque che nel commentare l’accaduto da parte delle autorità curde ci sia una certa dose di “fatalismo”: “L’obiettivo della Turchia è sempre stato quello di mettere in atto un cambiamento demografico nel nord della Siria”, ci dice il portavoce del Partito dell’Unione Democratica del Rojava Salih Muslim che ha accettato di rispondere alle nostre domande. “Vogliono sradicare dalle loro terre curdi, siriani e armeni sopravvissuti al genocidio ottomano, ed Erdoğan è pronto a tutto pur di raggiungere questo obiettivo”. Da quando le truppe statunitensi alla guida dell’allora presidente Donald Trump si sono ritirate dalle regioni settentrionali della Siria, in effetti, la controffensiva di Erdoğan si è dispiegata a pieno regime: a inizio ottobre del 2019, l’operazione “Primavera di pace” ha causato 70 morti e oltre 300mila sfollati; parallelamente, anche nel nord dell’Iraq sono stati portati avanti bombardamenti e raid, ma soprattutto pressioni politiche per arrivare al cosiddetto “Accordo di Shengal” dell’ottobre 2020 con cui – senza interpellare le autorità della piana di Ninive – si intimava alle unità di autodifesa del popolo ezida di abbandonare le proprie postazioni allo scopo di porre fine o quantomeno indebolire l’esperimento comunitario della zona.
Gli attacchi di questi giorni avvengono quindi nel contesto di un costante “tentativo di logoramento” da parte della Turchia verso le autonomie curde che si stanno stabilizzando da anni ai suoi confini. L’elemento di novità, che rischia di essere davvero destabilizzante nel prossimo futuro, è dato però dagli antefatti: alla fine di gennaio, le autorità del Rojava hanno dovuto affrontare un momento critico presso la prigione di Sina’a nella città di Heseke (distretto di Ghweiran) dove erano incarcerati circa 4mila guerriglieri dell’Isis.
La sera del 20 gennaio, alcune cellule fondamentaliste hanno condotto un attacco suicida contro il centro di detenzione. Parallelamente, altri miliziani di Daesh hanno dato vita a una sparatoria mentre, dall’interno del carcere, scoppiava una rivolta con tanto di presa di ostaggi per garantirsi l’evasione. Un conflitto durato quasi una settimana, che ha visto le forze curde e quelle delle Syrian Democratic Forces (Sdf) riprendere il controllo al prezzo di (stando ai dati del Rojava Information Center) 121 persone uccise fra le proprie fila (40 soldati, 77 membri dello staff della prigione) e un numero sconosciuto di morti e di evasioni fra i detenuti (cento dei quali sono stati nuovamente arrestati mentre erano in fuga). Segno dunque che Daesh, nonostante la fine del califfato e il sostanziale assopimento degli ultimi anni, è ancora vivo e vegeto e pronto a colpire per riguadagnar terreno non appena se ne ripresenti l’occasione.
Ma il punto è quanto le forze dell’Isis e quelle della Turchia si trovino in “sinergia”, non solo nella contingenza degli avvenimenti, ma dal punto di vista strategico: “A noi viene da considerare Daesh proprio come una divisione specifica dell’esercito turco”, ci spiega sempre il portavoce del Partito dell’Unione Democratica del Rojava Salih Muslim. “Basti pensare che l’Isis ha utilizzato il consolato turco di Mosul come proprio quartier generale. Secondo noi, la Turchia sta dietro all’attacco della prigione di Sina’a. La maggior parte delle persone che hanno preso parte all’aggressione venivano dalle zone di occupazione turca, dove sono state addestrate e dove hanno organizzato l’operazione cooperando con l’intelligence di Ankara”.
Collaborazione Isis-Turchia
Secondo la ricostruzione del Rojava Information Center, infatti, durante l’attacco al carcere la Turchia non è restata con le mani in mano, ma ha anzi condotto alcuni raid coi droni in altre zone della Siria del nord che potrebbero essere dunque interpretate come azioni di “copertura” per l’operazione dell’Isis. Di parere simile sono anche le autorità di Shengal, in relazione a quanto avvenuto nei loro territori: “Erdoğan non esita a utilizzare per procura le forze ‘radical-fasciste’ – come quelle dell’Isis – per destabilizzare la regione e aumentare la propria influenza politica, militare ed economica”, afferma il membro del Coordinamento del popolo ezida Fikret Igrek nel rispondere alle nostre domande.
D’altronde, il fatto che il governo di Ankara fornisca supporto in termini logistici e di munizioni a Daesh o che comunque sia quasi sempre disposto a chiudere un occhio sulle mosse dei fondamentalisti è qualcosa di riconosciuto da più parti e un think tank non certo filo-curdo come “Foreign Policy” lo definiva già quattro anni fa come un “segreto di Pulcinella”.
Tanto che è lecito supporre – come peraltro ha fatto tra le righe lo stesso Salih Muslim in alcune dichiarazioni all’agenzia “Anf” – che l’operazione “Aquila d’inverno” non sia altro che una “vendetta” contro la popolazione curda per il fallimento dell’attacco alla prigione di Sina’a, “perché le speranze che la Turchia aveva riposto nell’Isis si sono infrante”.
Questa vendetta ha un costo non indifferente: nell’area di Shengal, riferiscono le fonti locali, sono state sganciate in meno di quattro ore ben 39 bombe contro ventuno obiettivi, che hanno causato 3 morti fra i civili e una persona ferita; nel campo profughi di Makhmour sono otto i decessi, fra civili e membri dell’autodifesa, mentre in Rojava si contano quattro caduti nelle fila delle Sdf.
Ma le masse sono solidali con le sorti della popolazione della Siria del nord», ci fa sapere Salih Muslim: "La maggior parte di chi vive in quest’area sostiene le Sdf perché è interessato a salvaguardare il nostro progetto democratico basato sulla libertà e sulla convivenza di elementi diversi dal punto di vista etnico e ideologico", specificando a questo proposito che oltre 70 delle 121 persone uccise nelle fila delle Sdf era di origina araba e non curda, a segno di una forte collaborazione interetnica. "Gli ultimi avvenimenti rischiano di avere un effetto destabilizzante non solo sul nostro territorio, ma anche sull’Iraq e sull’intera regione", incalza da parte sua Fikret Igrek dal Shengal.
La comunità internazionale, intanto, che ne pensa?