Appunti per l’Europa: UE, Balcani e condizionalità
Un commento ad una ricerca sull’integrazione del sud est Europa nei Balcani. Gli autori di quest’ultima invitano la Commissine a fare chiarezza su tempi d’adesione e cooperazione regionale.
L’Unione gode di uno strumento indispensabile per promuovere lo sviluppo e la stabilità del sud est Europa: quello della condizionalità legata all’integrazione. Valeria Bello, studiosa di relazioni internazionali, commenta per l’Osservatorio la ricerca "EU Conditionality in South East Europe:Bringing Commitment to the Process" a cura di Othon Anastasakis e Dimitar Bechev presentata durante un convegno tenutosi presso il Centro di studi europei dell’Università di Oxford.
Mentre parte il conto alla rovescia per l’adesione dei Paesi dell’Europa centro-orientale all’Unione Europea, prevista per il 2004, già si inizia a discutere di un eventuale processo che guidi i Paesi dell’area balcanica verso l’integrazione nella più grande casa europea.
La Commissione stessa, in una sua relazione del 26 marzo 2003, afferma che: "L’unificazione dell’Europa non sarà completa finché ne sarà esclusa la sua parte sud-orientale" (1).
Si tratta della seconda relazione annuale che valuta l’andamento del "Processo di stabilizzazione e di associazione per l’Europa sudorientale" (SAP), una politica che si offre come quadro per lo sviluppo di relazioni politiche ed economiche privilegiate tra gli Stati dei Balcani e l’UE.
All’interno della strategia ideata per la regione, l’Ue ha previsto accanto al SAP altri strumenti attraverso i quali rafforzare la cooperazione con e tra questi Paesi, come il Patto di stabilità per l’Europa sudorientale e il programma CARDS, ossia un programma di assistenza finanziaria per i Balcani occidentali.
L’intera strategia messa a punto per la regione è oggetto dello studio condotto da Othon Anastasakis e Dimitar Bechev (2), con il quale si propone non solo una chiave di lettura dell’intero processo, sia dal lato dell’UE sia da quello dei Paesi in questione, ma si intende anche formulare un’analisi dei risultati e delle conseguenze che la politica messa in atto dalla Commissione sembra produrre.
Al centro della ricerca, gli autori pongono il sistema delle "condizionalità", a loro dire "lo strumento più potente che l’UE abbia a disposizione per trattare con i Paesi candidati e con i potenziali candidati dell’Europa post-comunista" (3).
In realtà, la vera potenza che l’UE ha nel trattare con i suoi vicini sta nella forza attrattiva che esercita il "modello europeo", gli alti standard di vita che promette, la redistribuzione della ricchezza alle regioni meno sviluppate, la certezza del diritto, la tutela dei diritti, la pacifica convivenza tra nazioni e nazionalità diverse, ossia tutti quei vantaggi che per le popolazioni della regione balcanica sono stati a lungo e sono tuttora solo dei miraggi.
Infatti, come gli autori stessi sottolineano l’adesione è, nella maggior parte dei casi, un progetto a lungo termine, ma non costituisce uno scopo in sé e per sé. E’ popolare perché le élites e le popolazioni lo considerano come una formula per alti standard di vita e per la crescita economica. Ciò fornisce all’UE una leva potente (4).
Dunque, le condizionalità poste dall’Unione attraverso i vari strumenti giuridici ricompresi nella sua strategia verso l’area hanno valore, peso e forza in virtù -e in modo direttamente proporzionale- della capacità che il modello europeo ha di attrarre questi Paesi.
Sull’Europa centro-orientale la forza attrattiva dell’UE è stata enorme, tanto da far compiere sforzi inediti a governi e popolazioni, e ciò malgrado anche le delusioni a cui spesso tali Paesi sono andati incontro, soprattutto a causa del continuo rimandare l’apertura dei negoziati di adesione. Oltretutto, quest’ultima veniva rinviata non solo per dare tempo all’economia di libero scambio di mettersi in moto e all’implementazione dell’acquis communautaire di essere abbastanza avanzata, ma anche perché l’Unione stessa non era stata in grado di dare avvio in tempo alle riforme istituzionali necessarie per accogliere altri dieci Stati membri.
Non a caso, l’adesione ha avuto una data e, quindi, una certezza solo quando queste riforme istituzionali sono infine giunte, vale a dire a Nizza, nel dicembre 2000.
Il problema dell’incertezza dell’adesione è messo in evidenza anche nello studio in questione.
Gli autori sottolineano, infatti, più volte come l’UE nella sua strategia per i Balcani non colleghi chiaramente le condizionalità e il loro rispetto alla previsione della "membership"; non viene chiarita, in altre parole, la posta in gioco.
Ciò sarebbe in parte, secondo gli autori, causa dello scarso impegno dei governi dei Balcani occidentali nel dare seguito alle raccomandazioni formulate dalla Commissione nei loro confronti.Ciò sarebbe anche uno dei motivi per cui le popolazioni reagirebbero con ostilità alle condizionalità e alle riforme istituzionali dei loro rispettivi governi che ne dovrebbero rappresentare l’esito.
Eppure, la prima relazione annuale della Commissione riguardante il SAP inizia con l’affermare: "Nel 2000, dopo un decennio di disordini nei Balcani, i leader europei hanno deciso che per garantire la stabilità nella regione era indispensabile consolidare progressivamente le relazioni con l’Unione europea e offrire una prospettiva concreta di adesione. Questa politica è conosciuta come processo di stabilizzazione e associazione, sostenuto da un vasto programma di assistenza finanziaria (CARDS)" (5).
E’ vero, comunque, che le prime condizionalità poste, risalenti al Regional Approach del 1997, non menzionavano alcun processo di adesione. Il rispetto dei principi democratici, dei diritti umani, dello Stato di diritto, della protezione delle minoranze, dell’attuazione di riforme economiche di libero mercato e della cooperazione regionale erano condizioni per ottenere concessioni commerciali, assistenza finanziaria e cooperazione economica da parte dell’Unione.
Il Regional Approach è stato, poi, soppiantato nel 1999 dal SAP e dal Patto di stabilità per l’Europa sud-orientale (SP).
Il Patto di stabilità nasce con il proposito di lanciare una cooperazione regionale nei Balcani nei settori della politica, dell’economia e della sicurezza.
Il SAP, invece, dovrebbe rappresentare lo strumento attraverso il quale l’Unione approfondisce i suoi rapporti con i singoli Stati appartenenti all’area.
Il passo successivo è costituito dalla firma di un Accordo di stabilità e di associazione tra l’UE e gli Stati che dimostrano di compiere progressi nel rispetto delle condizionalità previste dal SAP; questi accordi sorgono per formalizzare le intese di dialogo politico tra l’Unione e ciascun Paese della regione e, dunque, delineano criteri più specifici a cui gli Stati si debbono conformare in ogni singolo settore.
Insomma, il processo è graduale ed in ciò molto simile a quello instaurato nell’ultimo decennio con i Paesi dell’Europa centro-orientale.
Inoltre, si tratta, come si è visto, di una strategia che affianca alle relazioni bilaterali la cooperazione regionale.
In ciò consiste l’altro punto nodale su cui si articola l’analisi di Anastasakis e Bechev.
Non bisogna dimenticare, infatti, che, mentre nell’Europa centro-orientale durante l’ultimo decennio i Paesi percorrevano gli uni affianco agli altri la via della transizione, nei Balcani occidentali un atroce conflitto si faceva strada e separava e distruggeva.
Gli autori, allora, mettono in evidenza come la cooperazione regionale possa essere l’unico modo per superare le divisioni del passato e, a tal fine, suggeriscono che l’UE debba maggiormente insistere sull’indivisibilità dell’avanzamento delle relazioni bilaterali con l’Unione dallo sviluppo positivo della collaborazione regionale nell’area.
Dallo studio dell’European Center Studies, infatti, si evince che le élites politiche degli Stati in questione percepiscono il Patto di stabilità come uno strumento per ritardare l’adesione piuttosto che uno strumento con il quale risolvere le questioni più spinose dell’area.
Insomma, la cooperazione regionale non viene intesa come parte della strategia per l’integrazione in Europa e come criterio indispensabile per poter aspirare alla fatidica "membership", ma piuttosto la si considera un suo sostituto. Ciò avviene nonostante la Commissione, nella sua seconda relazione annuale sul SAP, precisi: "La cooperazione regionale costituisce altresì parte integrante della preparazione all’integrazione nelle strutture europee. Il contributo di ciascun paese al conseguimento degli obiettivi regionali consentirà di determinare la volontà e la capacità di assumere gli obblighi della piena integrazione nell’Unione europea" (6).
Dunque, ci si dovrebbe chiedere perché le élites balcaniche continuano a non vedere, o a non voler vedere, il legame profondo esistente tra la dimensione bilaterale e quella regionale della strategia dell’Unione nella regione.
Ciò si ricollega alla questione poc’anzi accennata dell’opinione pubblica e delle sue perplessità sull’operato europeo nell’area balcanica.
Anastasakis e Bechev, infatti, molto appropriatamente fanno notare che la percezione che la gente comune ha dell’UE è ambigua: da una parte si desidera anche con ansia l’intergrazione e la prosperità, il rispetto dei valori democratici e la pace che essa promette; d’altra parte, però, è molto diffusa quella che viene definita "teoria cospirativa", secondo cui determinati Stati membri favorirebbero alcuni Stati o comunità etniche balcaniche a spese di altri (7).
Ciò sarebbe alla base della scarsa fiducia locale per ciò che concerne l’operato dell’UE nella regione.
Secondo ciò che si evince dalla seconda relazione della Commissione, invece, tutti questi problemi, la cui esistenza non viene negata, deriverebbero dall’atteggiamento che è proprio della gran parte delle élites politiche. "Anche il comportamento di numerosi leader politici lascia molto a desiderare: scontri diretti, interessi personali, corruzione, ostruzione e confusione anziché la volontà di soddisfare le esigenze a medio e lungo termine della gente incidono negativamente sull’evoluzione della situazione e indeboliscono la fiducia nelle istituzioni pubbliche" (8).
Poco prima la commissione aveva sottolineato: "E’ importante che l’efficacia della politica dell’Unione europea a favore dei Balcani occidentali sia compresa dalla popolazione della regione e sia soprattutto visibile. Il sostegno al processo di riforma e le aspettative realistiche nei confronti di ciò che esso può offrire dipendono dalla comprensione del significato del processo di stabilizzazione e di associazione" (9).
Ma chi può spiegare alla popolazione il senso della strategia europea se non le élites politiche?E che interesse o inquale modo hanno élites politiche corrotte e interessate a implementare riforme del settore della giustizia, dell’economia, degli affari interni?
E perché gli avversari politici non dovrebbero utilizzare le ostilità delle popolazioni nei confronti degli esponenti di Governo corrotti per inculcare interpretazioni dell’operato dell’UE nel senso della "teoria cospirativa"?
E pur senza negare che da sempre gli Stati membri appoggiano alcuni candidati a discapito di altri, questa di certo non può essere una buona ragione per impedire alle popolazioni di potersi avvalorare del sostegno dell’Unione europea nel cammino verso la pacificazione dell’area e verso adeguati livelli di vita e di tutela della persona.
La Commissione insiste sulla necessità di un maggiore impegno da parte dei governi, poiché una prospettiva credibile di adesione all’UE rappresenta un forte incentivo alla riforma radicale delle società in questione. L’Unione è chiara ed inequivocabile nei confronti di tale prospettiva. Nel contempo, occorre sottolineare che in definitiva la responsabilità deve essere assunta dagli stessi paesi dei Balcani occidentali. I progressi dipenderanno dalla loro volontà di realizzare le riforme necessarie e di adottare i valori e le norme europei. Non esistono scorciatoie verso l’integrazione europea (10).
Tuttavia, richiedere un maggiore impegno ai potenziali candidati, così come sono stati definiti i Balcani occidentali al Consiglio Europeo di Santa Maria de Feira (11), non sembra essere abbastanza.
Anastasakis e Bechev propongono alla Commissione, oltre di chiarire il ruolo della cooperazione regionale e di assumere una posizione chiara rispetto al processo di lungo termine dell’adesione, di tentare di rendere più partecipi le stesse popolazioni e le società civili all’interno della strategia attuata nei Balcani. Attraverso adeguati programmi di formazione, incentivi finanziari per lo sviluppo delle risorse umane si potrebbe essere in grado di rendere più familiari presso le cittadinanze locali le procedure, le norme e le politiche dell’Unione.
Investire sulla gente: questa deve essere la strada maestra della strategia europea nei Balcani. Investire sulla società civile, laddove la politica è lontana dalla civiltà.
Valeria Bello
Vai alla ricerca "EU Conditionality in South East Europe:
Bringing Commitment to the Process"
Un ulteriore approfondimento: "Balcani Occidentali e integrazione europea: proposta per una strada rapida"
(1) Commissione Europea, Relazione della Commissione. Il processo di stabilizzazione e di associazione per l’Europa sudorientale. Seconda relazione annuale, Bruxelles 26/03/03, COM (2003) 139 def., p.4.
(2) O. Anastasakis-D. Bechev, EU Conditionality in South East Europe:Bringing Commitment to the Process, European Studies Center, Oxford, Aprile 2003.
(3) Idem, p.3.
(4) Idem, p.19.
(5) Commissione Europea, Relazione della Commissione. Il processo di stabilizzazione e di associazione per l’Europa sudorientale. Prima relazione annuale, Bruxelles, 03/04/02, COM (2002) 163 def., p.3.
(6) Commissione Europea, Relazione della Commissione. Il processo di stabilizzazione e di associazione per l’Europa sudorientale. Seconda relazione annuale, Bruxelles 26/03/03, COM (2003) 139 def., p.13.
(7) Cfr. O. Anastasakis-D. Bechev, op. cit., p.15.
(8) Commissione europea, Seconda Relazione Annuale, p.8.
(9) Idem, p.6.
(10) Idem, p.16.
(11) Cfr. Consiglio Europeo, Conclusioni della presidenza, Santa Maria de Feira, 19-20 giugno 2000.