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Annuario di Pace
Pubblicato un annuario sulle vicende di pace e di guerra ordinate in sequenza cronologica. lo ha curato la Fondazione Venezia per la Ricerca sulla Pace
La Fondazione Venezia per la Ricerca sulla Pace ha curato la redazione di questo annuario di vicende di pace e di guerra, ordinate in sequenza cronologica. Una serie di approfondimenti tematici per ripercorrere alcuni nodi dolenti del mondo. Una documentazione di ciò che hanno fatto e pensato, movimenti, gruppi, singoli, insomma, le molte anime del mondo della pace italiano. Per documentare, raccogliere e rilanciare: se guerre e paci ci sono, che si annoti almeno quale pace in Italia si è cercata, pensata, intravista lungo il corso di un anno.L’annuario è stato pubblicato dalla casa editrice Asterios di Trieste con la collaborazione delle riviste "Internazionale" e "Nigrizia" e di "Peacelink", il sito storico del pacifismo italiano.
Qui di seguito inseriamo un intervento nel libro dedicato ai Balconi e scritto da Claudio Bazzocchi e Giulio Marcon, del Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS).
2000: la pace incerta nei Balcani e le iniziative della società civile
Il 2000 è stato l’anno della caduta dei regimi nazionalistici in Croazia e Serbia. La morte di Tudjman nel dicembre ’99 e la vittoria del centrosinistra nel gennaio 2000 hanno portato la Croazia verso la democrazia, mentre la vittoria di Kostunica e la rivolta di piazza in Serbia hanno sconfitto definitivamente il regime di Slobodan Milosevic a Belgrado. Sono questi i due avvenimenti politici che hanno segnato il 2000 nei Balcani e per tutta quella parte di società civile italiana che in questi ultimi dieci anni ha sostenuto concretamente e intelligentemente l’altra Jugoslavia: quella che ha mantenuto saldi i valori della multietnicità, dell’universalismo, dei diritti fondati sullo stato sociale ed ha lottato per smascherare l’inganno della guerra, voluta fortemente dalle élite nazionalistiche per conquistare o mantenere il potere in uno stato che si stava dissolvendo.
Premessa e risposta ai grandi eventi politici del 2000 sono state – almeno per certi versi – le due Conferenze adriatiche della società civile balcanica, che hanno mostrato nei fatti la ricchezza ed il peso di questa parte delle società civili locali nonché del movimento di solidarietà e per la pace italiano. E vogliamo partire proprio da una descrizione di questo movimento, e della sua crescita lungo i dieci anni di guerre in ex-Jugoslavia.
1991 – 2000: volontariato e impegno per la pace nei Balcani
Diverse fonti (Ics-Consorzio Italiano di Solidarietà, Agesci, Forum del Terzo Settore) concordano nello stimare in almeno 20.000 i volontari, gli operatori umanitari e in generale i civili che si sono recati nelle aree della ex Jugoslavia per realizzare interventi umanitari, di interposizione e di cooperazione durante gli ormai dieci anni di guerre passate. E sono stati, in base a queste stime, oltre 1.200 le associazioni, i gruppi grandi e piccoli, le parrocchie, le scuole, i comitati spontanei che si sono mobilitati per la solidarietà con le aree colpite dal conflitto. E per l’accoglienza diretta ai profughi: più di 5.000 in Italia, più di 45.000 nelle aree di conflitto. Analogamente si possono fare stime così significative anche per gli enti locali e, a alla luce dei dati accumulati fino ad oggi, si può realisticamente affermare (si tratta anche in questo caso di una stima prudente) che in questa esperienza di intervento umanitario e di cooperazione con l’Europa centrale, orientale e balcanica siano stati coinvolti non meno di 1.000 enti locali.
A fianco della mobilitazione umanitaria, poi, vanno citate le tante iniziative politiche e pacifiste promosse con alterni risultati: la "Carovana della pace" da Trieste a Sarajevo (settembre 1991), la "marcia dei 500" a Sarajevo (dicembre ’92) e "Time for peace" in tutti i territori jugoslavi (dicembre ’92), Mir Sada (agosto ’93), "Tre città, una pace" (dicembre ’93) … e tante altre. E poi le manifestazioni in Italia: a Trieste nel giugno del ’91, il corteo da Ancona a Falconara nell’aprile del ’93 e la marcia Perugia-Assisi nel settembre ’93, "mille giorni bastano!" a Roma per i mille giorni di assedio di Sarajevo nel dicembre del 1994 e poi nel luglio del ’95, manifestazioni e cortei in 50 città italiane contro le stragi di Srbrenica e Zepa. E poi, recentemente: le manifestazioni a Roma, Aviano, da Perugia ad Assisi nel 1999 contro l’intervento della Nato in Kosovo.
Ma la novità del pacifismo di fronte al dramma jugoslavo, oltre e più che nelle piazze, si è manifestata "sul campo". Il lavoro pacifista e di volontariato è stato uno strumento per conquistare la fiducia delle comunità coinvolte nel conflitto e per ristabilire dei ponti di dialogo, esercitando un ruolo di pacificazione concreto e dal basso. Ad esempio, proprio nell’ambito del sostegno concreto alle alternative democratiche è stato promosso dall’Associazione per la pace e dall’Arci nel maggio del 1995 a Perugia un incontro tra Milorad Dodik, presidente del gruppo di 11 parlamentari serbi indipendenti del Parlamento di Pale che si opponevano al radicale Radovan Karadzic, e Sejfudin Tokic, leader dei socialdemocratici bosniaci all’opposizione di Alija Izetbegovic. In quell’occasione è stato firmato un documento comune a favore della Bosnia multietnica, ma come ricorda lo storico Stefano Bianchini: «l’evento fu ignorato dalla stampa e i partecipanti invitati dal mondo politico ad "adeguarsi" alla realtà». Come al solito i pacifisti sostenevano le forze democratiche e l’occidente trattava con le leadership nazionaliste.
Quella dei volontari è stata dunque una vasta mobilitazione pacifista e umanitaria internazionale realizzata dal tessuto della società civile e degli enti locali negli ultimi anni che – pur concentrata in gran parte nella fase dell’emergenza bellica con l’invio degli aiuti e l’assistenza ai profughi – ha avuto un significativo prolungamento nella fase della ricostruzione e ora della cooperazione.
Gli insegnamenti di questi dieci anni
Da subito – anche nel corso degli interventi di emergenza e di invio di aiuti nella prima metà degli anni ’90 – l’approccio culturale e le metodologie operative utilizzate hanno teso a sostenere e a valorizzare il tessuto sociale e comunitario, la società civile lacerata dal conflitto, le forze che si opponevano al nazionalismo. Infatti in un conflitto che aveva tra i suoi obiettivi la pulizia etnica, la rottura della convivenza (colpendo ad esempio le città simbolo della multietnicità come Mostar e Sarajevo), la distruzione del tessuto comunitario interetnico, era necessario difendere le isole di resistenza a questa folle logica bellica e nazionalista: fu questa la ragione del sostegno a situazioni così diverse come la città multietnica di Tuzla in Bosnia, il sistema dei media indipendenti in tutte le aree della ex Jugoslavia, le esperienze di incontro e cooperazione multietnica (forse l’unica insieme a quella dei giornalisti) delle donne di tutte le repubbliche jugoslave.
Organizzazioni della società civile ed enti locali hanno individuato nel corso di questa esperienza di cooperazione e di intervento umanitario con i paesi colpiti dai conflitti e dalle tensioni interetniche nell’Europa centrale, orientale e balcanica, alcune direttrici fondamentali del proprio impegno che hanno ispirato gli interventi concreti realizzati e quelli in via di progettazione.
Tra questi vanno ricordati il sostegno alle democrazie locali e alle società civili con programmi specifici di gemellaggio, cooperazione decentrata, formazione degli amministratori locali, sviluppo di reti di protezione e di rafforzamento del tessuto civile e democratico, attraverso il sostegno alle associazioni e ai media. Si deve menzionare a questo proposito l’esperienza delle Ambasciate della Democrazia Locale, promosse dal Consiglio d’Europa e finanziate da vari governi europei, che vedono la rete dei comuni e delle associazioni italiane protagonista a Zavidovici (BiH), Prijedor (BiH), Tuzla (BiH), Sisak (Croazia) e da ultima Nis (Serbia), lanciata nel mese di giugno 2001 da una rete di comuni e associazioni italiane con l’intento di aprirsi ad un rete di sostegno europea più ampia. Infine va evidenziato l’impatto strategico dell’investimento sulla formazione, gli scambi culturali e la cooperazione universitaria, come antidoto a ogni tentazione di chiusura nazionalista e come costruzione di opportunità di lavoro.
1999-2000: le conferenze adriatiche della società civile balcanica
All’indomani della fine della guerra nella Federazione Jugoslava, nella primavera del 1999, ICS e Tavola della Pace hanno sentito l’esigenza di fare il punto sulla situazione nei Balcani dal punto di vista della società civile dei paesi dell’area. Sono state organizzate così ad Ancona due conferenze della società civile balcanica nel settembre del 1999 e nel maggio del 2000, grazie alla forte sensibilità politica della Regione Marche e del Comune di Ancona.
Il primo appuntamento, denominato Verso una Conferenza della società civile per la pace, la democrazia, la cooperazione nei Balcani, si è tenuto il 21 e 22 settembre 1999 ed ha avuto il carattere di preparazione alla Conferenza del maggio 2000. In quell’occasione si sono succeduti interventi di esponenti della società civile e del mondo accademico dei vari paesi balcanici: dalla Bosnia-Erzegovina alla Croazia e alla Serbia-Montenegro, dalla Macedonia al Kosovo e all’Albania. Hanno ragionato di pace, integrazione e cooperazione assieme a studiosi italiani e rappresentanti delle maggiori associazioni italiane, che in questi anni hanno lavorato con la pazienza e la responsabilità delle politiche di pace.
Il 17 e 18 maggio 2000 si è tenuto il secondo appuntamento: la Conferenza della società civile per la pace, i diritti umani, la democrazia e la cooperazione nei Balcani, promossa dal Consorzio Italiano di Solidarietà assieme agli Enti Locali per la Pace, la Tavola della pace, il Consiglio regionale e la Giunta Regionale delle Marche, la Provincia ed il Comune di Ancona.Più di cento persone da nove regioni dei Balcani e da varie associazioni si sono trovate ad Ancona per rivendicare il ruolo decisivo della società civile nelle politiche di ricostruzione nei Balcani. È stato un lavoro che in questi anni non si è sottratto né al fare concreto, né alla denuncia e alla proposta politica. Anzi possiamo dire che il fare concreto a supporto della società civile nei luoghi delle crisi ha avuto ed ha sempre rilevanza politica perché l’intervento a favore di tutte le vittime della guerra è già di per sé azione politica che contrasta i nazionalismi a partire dai bisogni delle persone, contro la logica degli schieramenti etnici.
Con la conferenza della società civile gli organizzatori hanno voluto presentare ai governi europei, riuniti nella conferenza intergovernativa sulla sicurezza nell’Adriatico tenutasi ad Ancona negli stessi giorni, le proposte della società civile per sostenere le popolazioni colpite dalla guerra, per fermare la violenza e le violazioni dei diritti umani che tuttora continuano nell’area, per prevenire lo scoppio di nuovi conflitti armati e per favorire l’integrazione europea dell’area balcanica. I Balcani – si è detto in quell’occasione – non sono solo un problema di sicurezza o stabilità, ma soprattutto di democrazia. Puntare sulla sicurezza e la stabilità può significare la legittimazione ulteriore dei nazionalismi che garantiscono la sicurezza nei propri territori col modello della separazione etnica, quello del "ognuno a casa propria". I nazionalismi vanno invece sconfitti sul terreno della democrazia e della politica per tornare a chiamare col loro nome i problemi: questioni sociali, rappresentanze democratiche, modello di sviluppo, autonomia politica della società civile. La stessa ricostruzione deve essere un’occasione di pace e di riconciliazione; non può essere semplicemente ricostruzione economica, materiale e delle infrastrutture; non può essere solo occasione di sviluppo e di commesse per le imprese occidentali, ma deve diventare ricostruzione sociale, del tessuto democratico e civile.
È stato apprezzato quindi dagli organizzatori che il Ministero degli Affari Esteri italiano abbia voluto sostenere lo svolgimento della Conferenza della società civile, per avviare un dialogo con l’associazionismo italiano, gli Enti locali e i soggetti della società civile nei Balcani. Ai governi europei, ed in particolare a quello italiano, gli organizzatori si sono rivolti con la proposizione di alcuni punti concreti di intervento, affinché il Patto di Stabilità sia in realtà un patto di democrazia e di autonomia politica e sociale per i Balcani: la promozione di una politica di pace nell’Adriatico fondata sul disarmo e la prevenzione dei conflitti; la considerazione dei flussi migratori non come una minaccia, ma come una risorsa e un’opportunità che favorisca la libera circolazione delle persone e delle culture contro le chiusure dei nazionalismi; un’iniziativa più incisiva a protezione delle minoranze con misure specifiche di tutela e integrazione e con la piena applicazione del diritto di asilo; un’iniziativa su scala regionale a favore dello sviluppo della formazione e della crescita culturale delle giovani; un programma a sostegno delle democrazie locali per il rafforzamento delle istituzioni ed il loro decentramento amministrativo mediante il ruolo decisivo della cooperazione decentrata; la promozione di accordi e istituzioni comuni per i paesi del sud-est europeo, in modo da poter «contrattare» con le aree forti condizioni di scambio e riconoscimento reciproco delle rispettive tradizioni e culture.
Uno strumento per approfondire la sfida: l’Osservatorio sui Balcani di Rovereto
Il 2000 ha visto nascere anche l’Osservatorio sui Balcani di Rovereto come emanazione della Fondazione Opera Campana dei Caduti di Rovereto (che già da anni promuove l’Università Internazionale delle Istituzioni dei Popoli per la Pace), che si pone proprio come strumento di approfondimento e ricerca per tutte le associazioni e i soggetti della solidarietà internazionale italiani che vogliono riflettere su questi nodi. L’Osservatorio affronta con interventi originali dei partner e di "antenne" disseminate sul territorio (collaboratori fissi in tutti i paesi balcanici) i nodi che investono il futuro della regione, in gran parte irrisolti: il dramma dei profughi; i danni economici ed ambientali che vedono sommarsi allo sfacelo dei vecchi regimi le gravi conseguenze degli interventi militari; la crisi fiscale di stati ormai dipendenti dagli aiuti internazionali; l’imperversare di una criminalità economica che nella fragilità istituzionale e nell’assenza di regole trova largo spazio, a fronte di una diffusa e crescente insicurezza sociale.
L’Osservatorio potrà essere quindi quel luogo comune di incontro a disposizione delle organizzazioni non governative italiane ma anche delle forze vive delle società locali, in cui approfondire il tema dell’autogoverno democratico delle comunità, come concetto di fondo per immaginare la rinascita di quelle terre. C’è bisogno di ricucire, sulle macerie dei regimi e delle guerre, un legame con le istituzioni pubbliche fondato sulla partecipazione e su un diffuso sistema di autonomie locali anziché su rapporti gerarchici e di delega. In altre parole, un approccio comunitario capace di affrontare i bisogni individuali e collettivi in un’ottica diversa tanto dallo statalismo, quanto dalla privatizzazione mercantile di ogni segmento della vita economica e sociale di un territorio. Questo percorso si è già manifestato negli anni scorsi attraverso le mille relazioni della cooperazione decentrata e della diplomazia delle città, che hanno cercato di ricostruire i ponti di dialogo e di civiltà demoliti dalla guerra.
Cosa resta da fare: il lavoro nei Balcani nel tempo della globalizzazione
A due anni dall’intervento NATO la situazione nella regione balcanica è tutt’altro che pacificata, anzi è diventata molto più difficile e intricata, sia dal punto di vista politico, sia da quello umanitario, come ben dimostra la crisi macedone. Lo stesso impianto di Dayton ha mostrato tutti i suoi limiti e gli interventi di ricostruzione attuati hanno rafforzato le élite nazionalistiche. La sfida balcanica è sempre quella di coniugare il fare con la politica, gli interventi di cooperazione con la denuncia delle contraddizioni. Questo è possibile solamente con progetti di cooperazione orientati al sostegno della società civile, delle istituzioni locali e dello sviluppo comunitario.
Siamo di fronte ad un passaggio decisivo nei Balcani, ora che le politiche tradizionali della comunità internazionale e l’intervento della NATO mostrano contraddizioni e fallimenti. E’ necessaria quindi grande unità di intenti fra tutti i soggetti che in Italia lavorano per i Balcani: il movimento pacifista e quello ambientalista, le associazioni della solidarietà internazionale e il movimento contro la globalizzazione ed il liberismo selvaggio, nella consapevolezza che l’impegno comune contro il modello di sviluppo dominante, a est come a ovest, passa anche dall’autonomia della società civile, in Italia come nei Balcani.
Come si è visto, molte organizzazioni nongovernative e associazioni italiane in questi anni hanno lavorato nei Balcani – anche in collegamento con quell’"altra Jugoslavia" fatta di associazioni e gruppi indipendenti, comunità democratiche che hanno resistito al nazionalismo – con l’idea di scardinare la cittadinanza fondata sull’appartenenza etnica e di promuovere i principi dello stato sociale e dei diritti per tutti. In ciò si è capito che a nulla serve impegnare risorse ed energie, se contestualmente non cambia il quadro sociale e politico dell’area. E questa riflessione tocca anche noi, le nostre comunità. In questo senso la vicenda jugoslava parla anche di noi. La sfida della convivenza è comune a tutte le società figlie in diverso modo della globalizzazione.
Claudio Bazzocchi e Giulio Marcon