Andrea Segre, lo sguardo oltre
Andrea Segre è oggi un rinomato regista di film e documentari pluripremiati. Negli anni novanta giovanissimo si impegnò nei Balcani, telecamera in mano, in progetti di volontariato coordinati dal Consorzio Italiano di Solidarietà. Un’intervista
Come è iniziato il tuo impegno civile nella ex-Jugoslavia?
Negli anni della guerra in Bosnia e Croazia, quindi tra il 1993-’94 quando ero liceale, ero attivo nel coordinamento studentesco del Liceo Classico "C. Marchesi" di Padova. Organizzavo assemblee, incontri e mostre su ciò che accadeva nei Balcani, invitando a parlare persone come Paolo Tamiazzo, di Assopace ma anche responsabile internazionale Arci dell’Umbria e che a partire dalla fine degli anni ’90 fu attivo nel Consorzio Italiano di Solidarietà (Ics) in Serbia e Kosovo.
Il mio primo contatto fisico con i Balcani è avvenuto nel 1998 da studente universitario, prima della guerra in Kosovo e quindi ancora con Slobodan Milošević al potere in Serbia. Partecipai a un viaggio partito da Padova per incontrare l’opposizione serba, organizzato dall’Assopace di Padova in stretto contatto con l’Ics. La delegazione era costituita da gruppi di studenti, Assopace, movimenti studenteschi, sinistra giovanile e altri.
A quei tempi la tua attività artistica era già iniziata. Quando si intrecciò con l’impegno nei Balcani?
Nel 1997 fui uno dei fondatori dell’Associazione Toni Corti a Padova: eravamo un gruppo di amici che faceva cortometraggi, nato dentro a un circolo della sinistra giovanile il cui coordinatore era Fabio Rocco, figlio di Gianni Rocco animatore dell’Associazione per la Pace di Padova. Toni Corti entrò a far parte di Ics alla fine degli anni novanta.
Ma prima ancora del mio impegno con Ics, tornai nei Balcani nella primavera del ’99, quando vivevo a Berlino. Partii con un gruppo di artisti berlinesi organizzatori del festival "Balkan Black Box", dedicato alla cultura indipendente antinazionalista balcanica e della diaspora di quei paesi che viveva nella capitale tedesca. Il Festival si era sempre svolto a Berlino e il viaggio, attraverso Croazia e Bosnia Erzegovina, aveva l’obiettivo di organizzare una puntata del festival nei Balcani che si fece l’anno dopo a Pola/Pula.
Durante quel viaggio, nella tappa di Mostar, incontrammo i ragazzi dell’associazione Mladi Most (Ponte giovane), con cui poi Toni Corti iniziò dei progetti di scambio e di VSO, cioè di volontariato civile internazionale. Da questo incontro è poi nato il coinvolgimento di Toni Corti, contattato da Ics, e la realizzazione del primo documentario su Mostar, girato da Luca Rosini e Alberto Bougleux ("Thank you people of Japan", 60′, 2002).
L’altro impegno, parallelo, era legato alla realizzazione della tesi di laurea, che scrissi stando a Niš nel ’99 dove l’Ics interveniva in centri per rifugiati rom e serbi scappati dal Kosovo, dal titolo "La Comunicazione sociale negli organismi di solidarietà internazionale: il caso del Consorzio Italiano di Solidarietà – ICS". Il tema era legato alla tipologia di attività che l’operatore fisso dell’Ics Guglielmo Schininà, che aveva già lavorato da volontario in Macedonia e Kosovo [oggi Schininà è Head of IOM’s Psycho-social Response Section ndr.], realizzava in quei centri. Si trattava dei primi progetti di comunicazione e di teatro sociale applicato in situazione di emergenza.
Quando cominciò il tuo forte coinvolgimento?
Un anno dopo partii per l’Albania e ci rimasi per circa un mese, fino al giorno prima della discussione della tesi di laurea… perché impossibilitato a partire prima, bloccato a Valona da una gastroenterite fortissima. Ero partito su richiesta di Claudio Bazzocchi che coordinava gli interventi dell’Ics in Albania, per realizzare assieme ai ragazzi del Centro giovani di Valona un piccolo progetto video. Era un impegno che mi interessava perché mi permetteva di entrare in stretta relazione con alcune persone, con un budget minimo che quindi non mi obbligava a fare grosso lavoro di gestione.
Lo sottolineo perché una cosa che mi è stata subito chiara durante gli anni del mio impegno è che non volevo avere a che fare con la professionalizzazione dell’aiuto. Una volta che tu stai in un luogo, anche solo per un mese, ti arrivano subito proposte di lavorare su progetti di aiuto. Ma questa "professionalizzazione" mi metteva addosso molta angoscia. Perché all’inizio parti con l’idea di conoscere, incontrare persone, fare con loro direttamente delle cose, mentre se finisci negli uffici dove si gestiscono i progetti ti ritrovi ad occuparti di più di questioni burocratiche e di coordinamento, perdendo la relazione diretta con persone e territori.
Però tra il 2001 e il 2006 entrasti a fa parte della dirigenza dell’Ics, quindi con un ruolo importante…
Sì, ho fatto parte del Consiglio nazionale dell’ufficio di Presidenza, dunque ero vicepresidente vicario. Ma era un impegno, come sempre dissi a tutti i miei colleghi di Ics, da volontario, di condivisione di una visione politica e di intervento, che non volevo diventasse una professione. Ho sempre voluto rimanere aderente a quello spirito con cui ero partito per Valona.
Quanto rimanesti a Valona e come fu lavorare con quei giovani?
Ci rimasi 4 mesi, per realizzare a nome dell’Associazione Toni Corti il cortometraggio "Kà drita" (C’è luce), nell’ambito di un progetto co-finanziato dal Comune di Genova a ARCI Liguria e Ics.
Durante la lavorazione ho stretto amicizia con i quattro ragazzi del Centro giovani con cui girai, soprattutto Elidon Lamani e Dritan Taulla. Il racconto che si snoda nel corto fu scritto insieme a loro e io poi mi presi il compito di portarlo in Italia.
Posso dire che in quel periodo ero un po’ un "bastardo" – nel senso misto – perché non ero né un cooperante né un regista puro. Ma da quella esperienza è nato l’importante filone di ciò che poi definimmo "cooperazione creativa", cioè costruire il racconto dentro il progetto, dove anzi il raccontare "è" il progetto ma senza la necessità di strutturarlo in maniera rigida come avveniva nei classici progetti di cooperazione.
Come vivesti questa esperienza?
Io non ero regista, portavo solo un linguaggio, un’esperienza e la telecamera. Quindi con i ragazzi, che erano miei coetanei e con cui avevo un rapporto orizzontale, paritetico, costruivamo insieme il racconto. Un’orizzontalità che poi ci ha portato a fare il secondo film-documentario fatto insieme dal titolo "A metà. Storie tra Italia e Albania".
In che senso?
Nel senso del "movimento orizzontale", tra chi come me dall’Italia era andato in Albania e chi, in senso contrario, da lì era partito per restare in Italia. Quando ne discutemmo dissi: va bene lavorare insieme, ma io arrivo dal posto "giusto" nel posto "sbagliato". Per cui proposi di raccontare anche con l’occhio di chi aveva fatto il viaggio inverso al mio e così mischiare le carte, destrutturare l’immaginario pregiudiziale "giusto" o "sbagliato" sull’Italia e sull’Albania.
E’ partito così un ulteriore scambio orizzontale, facilitato anche dal fatto che Elidon e Drita parlavano perfettamente l’italiano, in un documentario che racconta la condizione "a metà" di 4 migranti tra l’Albania, terra vicina e nascosta, e l’Italia, terra di ospitalità e ostilità.
L’esperienza di volontariato ha inciso nel tuo successivo lavoro di regista?
Moltissimo! Non solo, sono diventato regista negli anni successivi, ma imparai a farlo in Albania con quei ragazzi. La cosa strana è che io non ho mai voluto fare il regista di professione… mi è però accaduto di aver cominciato a farlo e solo dopo sono stato chiamato a esserlo. Cioè lo sono diventato prima di volerlo essere grazie all’esperienza fatta in Albania. Tutt’oggi quando mi chiedono "Hai frequentato il Centro sperimentale di cinematografia?", io rispondo: "No. Io ho frequentato il Centro giovanile di Valona"… e ovviamente mi guardano un po’ strano e mi chiedono cos’è.
Il tema delle migrazioni, che attraversa tutti i tuoi lavori da regista, nasce dall’incontro con l’Albania?
Certo. Uno dei motivi per cui decisi di partire per l’Albania oltre al mio impegno con l’Ics era per capire e conoscere gli albanesi, che cominciavano ad essere molto presenti a Padova, andando a vedere il loro paese. Il difficile poi fu, rientrato in Italia, disegnare agli amici una visione diversa da quella preconfezionata e pregiudiziale che avevano di quel paese e dei suoi abitanti.
L’anno dopo partii ancora per il Balcani ma questa volta in Kosovo, per girare il documentario “Kosovo: industrie dopo le guerre” realizzato per l’Unità di Ricerca coordinata presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Padova dal professor Gambino, all’interno del progetto " MIUR Nuove guerre, migrazioni e media”. Intreccia dunque lo sguardo della telecamera con il lavoro di ricerca universitaria, ricerca che comunque ho continuato a fare negli anni successivi. Sul Kosovo ad esempio elaborai alcuni testi, tra i quali “La guerra del Kosovo: dal superevento alla memoria degli episodi” o un altro dedicato all’intervento umanitario (“L’intervento delle OnG italiane in Kosovo”).
La formula sperimentata in Albania risultò essere valida e così, nel 2003, su proposta di Giorgio Cardone che per Ics coordinava gli interventi in Moldavia iniziati nel 2000, proseguii a lavorare su progetti costruiti sull’uso di linguaggi creativi e artistici nella cooperazione. Si coinvolgeva un gruppo o una comunità nella creazione di produzioni video o teatrali, dove loro stessi decidevano l’argomento su cui si sarebbero basati. Uno strumento molto utile con cui si riusciva a coinvolgere e rendere attive persone emarginate o discriminate e farle emergere dall’"inivisibilità".
Da tutte queste esperienze è nata poi ZaLab di cui sono co-fondatore e con cui tutt’oggi produco e lavoro, nella realizzazione di film e documentari ma anche molto altro come progetti di formazione e sensibilizzazione nelle scuole.
Cosa ti ha insegnato l’esperienza albanese?
Ho innanzitutto imparato a girare un documentario dove ad esempio c’era la luce ogni tre ore… ecco il perché del titolo del primo documentario. Quando ci trovavamo la mattina la prima cosa che ci dicevamo era "Kà drita? – C’è luce?"… e se non c’era si rimandava. Questo voleva dire anche fare un film dove potevi ricaricare le batterie della telecamera solo in quelle poche ore in cui c’era l’energia elettrica. Ecco perché ci abbiamo messo quattro mesi, dove passavamo molto tempo al bar in attesa, parlando e riflettendo non solo sul documentario.
Quando impari a fare un film in una situazione di vera orizzontalità, di fatica primaria in cui ti devi inventare tutto ma di esperienza umana profonda, quando arrivi a fare il regista con un budget alto e magari 40 persone che lavorano con te, quello che ti è rimasto dentro è saper costruire il film a partire dalle esperienze umane e non a partire dal budget. E questo è quello che ho ancora dentro.
Quindi se ho qualcosa da imparare dalle persone o dai territori, come ad esempio nella valle dei Mocheni in Trentino Alto Adige dove ho girato "La prima neve" lo faccio e con impegno perché è soprattutto un’esperienza umana, perché è così che ho imparato a fare cinema. Ovviamente oggi lo posso fare con un bagaglio di capacità tecniche e supporto finanziario di altra portata rispetto ad allora.
Dieci anni dopo, come vedi i Balcani?
In Serbia e Kosovo non ci sono più tornato, mentre in Albania sì, ma tempo fa. Sono invece tornato da semplice turista in Bosnia Erzegovina, due anni fa. Posso dire che qui ho avuto la netta sensazione del congelamento. Hanno impedito al conflitto di trovare una sua soluzione e questo l’ha congelato senza risolverlo… Non si è fatto in modo che le posizioni assunte dal conflitto diventassero utili anche per la gestione della pace: chi ha gestito la pace, dopo, è colui che ha saputo generare il conflitto.