Allargamento UE, riforme interne per non rischiare la paralisi
Procedere con l’adesione di nuovi membri senza attuare specifiche riforme dei Trattati fondanti dell’UE rischierebbe di esporre l’Unione a "ricatti interni, come abbiamo già visto con Orbán". Intervista a Sandro Gozi (Renew), relatore per il Parlamento europeo

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Sandro Gozi (foto PE)
Quando si parla di allargamento dell’Unione europea e di adesione di nuovi membri, si rischia sempre di dimenticare un tema cruciale. La necessità di riforme interne all’Unione, per prepararla ad accogliere nuovi Paesi, è tanto urgente quanto lo sono i rischi di procedere in modo gattopardiano per non affrontare i problemi strutturali già evidenti nell’UE a 27 membri.
"Fare tutto senza cambiare formalmente nulla, ma adattando quello che abbiamo, è molto pericoloso. Ci scontreremmo con dei limiti e ci esporremmo a dei ricatti interni che abbiamo già vissuto in questi anni con Orbán, di cui altri potrebbero essere protagonisti".
Così l’eurodeputato Sandro Gozi (Renew Europe), relatore sulle conseguenze istituzionali dei negoziati di allargamento dell’UE, in un’intervista per OBCT spiega l’importanza dell’altra faccia della medaglia della politica di allargamento, troppo spesso trascurata.
Dopo la presentazione formale, il suo rapporto è atteso al voto in commissione per gli Affari costituzionali (AFCO) del Parlamento europeo il 23 settembre e, se riceverà il semaforo verde dei colleghi, il testo approderà alla sessione plenaria in ottobre. L’ultimo passo per mettere sul tavolo di tutte le istituzioni di Bruxelles una serie di proposte "concrete e pragmatiche" per non farsi trovare impreparati a un futuro sempre più incerto, all’esterno come all’interno dell’Unione.
Cosa potrebbe succedere all’Unione europea se si allargasse, anche a soli pochi nuovi membri, senza riformarsi internamente?
Rischierebbe la paralisi e certamente aumenterebbero ancora di più i problemi di efficacia, di democrazia, di potenza e di funzionamento che vediamo già oggi a 27.
È chiaro che l’Unione debba riformarsi. È praticamente impensabile aumentare il carico finanziario, di numero di Paesi e di impegni senza una riforma.
Quanto tempo c’è a disposizione?
Io punto a prima del 2029.
Qual è il miglior scenario di riforma e quale il minimo accettabile?
Nella mia relazione cerco di proporre qualcosa che possa ottenere un’ampia maggioranza in Parlamento.
La mia preferenza personale sarebbe più ambiziosa. Il massimo che potremmo e dovremmo fare è una riforma importante dei Trattati. Questa Europa, 75 anni dopo essere stata concepita e di fronte all’impegno che vuole assumere di diventare un’Unione continentale, avrebbe bisogno di una profonda riforma di politiche e Trattati.
L’approccio che però ho scelto è pragmatico ed equilibrato. Bisogna rendere più efficace l’Unione, sfruttando tutto ciò che abbiamo nei Trattati per oltrepassare l’unanimità e il veto, ma prendendo atto anche che occorre qualche riforma specifica per introdurre una maggioranza qualificata nelle grandi questioni.
Diciamo sempre che l’Europa è debole, che è insufficiente, che non c’è. Serve costruire l’Europa della difesa. Ma la potenza deve essere sotto il controllo democratico.
Per un’Europa democratica ritengo che si debba porre il tema di come sarà composto il Parlamento europeo in un’Unione allargata. Oggi abbiamo 27 elezioni nazionali, ma per costruire quella dimensione europea della democrazia che va di pari passo con la potenza bisogna europeizzare le elezioni. Per esempio eleggendo una parte degli eurodeputati attraverso il voto diretto dei partiti politici europei.
Secondo lei in Parlamento c’è una maggioranza a supporto di questo obiettivo?
Credo che sia molto importante vedere cosa farà il Partito popolare europeo con questo rapporto. I primi contatti e incontri informali sono stati abbastanza positivi e costruttivi.
Molto positiva è stata anche la reazione dei rappresentanti dei Parlamenti nazionali dei Paesi candidati e di quelli membri dell’UE, continueremo il dialogo con loro.
Per me è una cartina tornasole e un grande test. Perché non si tratta di una posizione massimale o federalista, ma di una posizione pragmatica.
Per cambiare i Trattati serve però l’unanimità dei 27 governi. Pensa che gli Stati membri siano disposti a rinunciare a una delle maggiori leve per gli interessi nazionali?
In Consiglio non c’è mai stato appetito per le riforme istituzionali. Se dovessimo basarci unicamente sul Consiglio, saremmo ancora ai Trattati di Roma.
Ecco perché questo approccio può aiutare il presidente del Consiglio europeo, António Costa, ad avviare un dibattito e può riunire attorno a queste proposte un gruppo di Paesi per cominciare le discussioni.
La decisione del presidente Costa di richiedere il parere dei servizi giuridici per superare l’unanimità per le fasi intermedie dei negoziati di adesione può essere un passo avanti nella direzione che auspica di passaggio alla maggioranza qualificata?
La decisione di Costa va esattamente nella direzione del mio rapporto. Dobbiamo sfruttare al massimo tutte le clausole di flessibilità che ci sono nei Trattati: le clausole passerella, la cooperazione rafforzata nelle politiche comunitarie, la cooperazione strutturata e permanente nella politica di difesa.
Si potrebbe considerare la partecipazione dei Paesi candidati nei lavori del Parlamento sul modello di quanto fatto dal Comitato economico e sociale europeo?
Il mio gruppo è aperto a questa ipotesi. Credo però che sarebbe credibile solo se andasse di pari passo con un impegno a preparare le riforme interne.
La presenza dei Paesi candidati come osservatori potrebbe essere utilizzata come uno strumento per spingere ancora di più sulle riforme non solo nei Paesi candidati, ma anche su quelle interne dell’Unione Europea.
Credo che se i parlamentari dei Paesi candidati vivessero di più l’UE dall’interno, sarebbero i primi a rendersi conto che questa Unione non può funzionare a livello continentale.











