Alla ricerca dei morti del Donbass

Una giornata trascorsa nell’est dell’Ucraina assieme ai Tulipani neri, volontari che rischiano la vita per dare una degna sepoltura ai caduti in conflitto

03/03/2015, Danilo Elia -

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Donbass, foto di Cosimo Attanasio

L’appuntamento con i Tulipani neri è nella cittadina di Starobeševe, una quarantina di chilometri a sud di Donetsk. Siamo in territorio controllato dai separatisti della Dnr, la Donetskaja narodnaja respublika. Miliziani a spasso, carri armati nelle caserme, posti di blocco sulle strade. Andrej Bižko è il capo della missione. “Oggi andremo nei campi intorno Červonosilske”, dice. “Proveremo a cercare lì intorno. Si è combattuto molto ferocemente da quelle parti”.

Non dice cosa cercheranno, non ce n’è bisogno. Il loro furgoncino bianco porta la scritta “Cargo200”. È la tristemente famosa sigla che in russo contraddistingue il trasporto dei caduti in guerra. Il loro compito è fare quello che il governo ucraino non può o non vuole fare, perlustrare i campi di battaglia, cercare i corpi dei caduti, farne merce di scambio con quelli dei miliziani filorussi caduti in territorio sotto controllo governativo e riportarli a casa. La missione è gestita dall’associazione Narodnaja Pamjat’ di Kiev. Andrej e i suoi uomini sono infatti ucraini. Di Kiev, insomma. Qui, in sostanza, sono nemici. Per questo il loro lavoro si svolge sotto la scorta di due miliziani del battaglione Oplot.

Alla ricerca

La zona che perlustreranno oggi è nelle campagne intorno a Ilovaisk, Mnohopillya, Metalist, teatro della più sanguinosa battaglia di tutta la guerra in Ucraina, ricordata appunto come la battaglia di Ilovaisk. Tre settimane che sono costate a Kiev le più ingenti perdite dall’inizio del conflitto. I separatisti hanno avuto la meglio e hanno ripreso il totale controllo del territorio.

Il “Cargo 200” passa in mezzo ai relitti della guerra, abbandonati sul ciglio della strada. Non proprio abbandonati, perché spesso intorno alle carcasse dei carri armati distrutti c’è un lavorio di fiamme ossidriche e flessibili. Perché del carro armato non si butta via niente.

Il furgone dei Tulipani neri si ferma davanti a un cratere largo almeno cinque metri. È qui che inizia la ricerca, in un posto apparentemente come tanti altri. Ma non appena gli uomini di Andrej si addentrano nei campi con le loro vanghe e le loro sonde, il terreno comincia a restituire i resti della battaglia. Munizioni inesplose, brandelli di uniformi, bossoli a migliaia, segni delle esplosioni, elmetti bucati. Si cerca metro per metro, sotto lo sguardo allo stesso tempo severo e indifferente dei due miliziani dell’Oplot. Sono entrambi due ex minatori, “ma adesso il nostro lavoro è questo”, dice il più giovane dei due brandendo il kalashnikov. Il battaglione Oplot è una delle divisioni che hanno preso parte alla battaglia di Ilovaisk. I due conoscono bene il terreno.

In alcuni punti le tracce dell’addiaccio indicano che la postazione qui è stata tenuta per alcuni giorni dai filorussi. Le scatole vuote delle razioni alimentari hanno il marchio dell’esercito regolare russo. Così come le confezioni abbandonate delle medicine e dei prodotti per l’igiene. I due miliziani si mostrano un po’ nervosi, confabulano tra loro. Non sono certo felici di avere dei giornalisti tra i piedi, oggi. Improvvisamente arriva l’ordine di tornare al “Cargo 200”. Si va a cercare in un altro posto.

L’imboscata

Andrej siede nel suo furgone, sballottolato dalla strada dissestata. Non è un uomo di molte parole. Nella sua vita normale è un esperto di armi antiche, uno storico. È abituato a perlustrare campi di battaglia, ma in cerca di reperti vecchi di decenni, o secoli. Non in cerca di cadaveri. Guarda scorrere attraverso il finestrino le case distrutte dall’artiglieria. Piccole e povere case col tetto spiovente di eternit e l’orto di fianco. Le galline razzolano per strada. Il furgone bianco si ferma sul ciglio di una piccola gola. Mezza squarciata, la carcassa di un carro armato ucraino indica il posto dell’imboscata. “Le nostre posizioni erano lì”, dice il più anziano dei due miliziani, indicando un’altura a nord. Le colonne di ucraini in ritirata si sono trovate sotto il fuoco diretto dell’artiglieria filorussa. Chi è sopravvissuto, ha raccontato di una carneficina.

Il lavoro dei Tulipani neri è un lavoro ingrato. Un lavoro che spetterebbe alle parti in guerra, ma che sembra non interessare nessuno. Un lavoro reso ancora più duro perché, per loro ucraini, svolto sotto il controllo freddo e severo del “nemico”.

In un mucchio che sembra immondizia ci sono Rpg scarichi, elmetti aperti in due come fossero di cartone, una bandiera ucraina insanguinata e una granata inesplosa. Mentre uno degli uomini di Andrej segnala la bomba a mano con un palo di legno, lui si occupa della bandiera. La piega poggiandosi sulle ginocchia fino a farla diventare grande come un fazzoletto e la conserva con cura.

Il più anziano dei due miliziani, che si era spinto un po’ più in là sulla collina, torna con una manciata di bande fluorescenti, un rosario di plastica e due cellulari rotti. Le bande fluorescenti sono quelle che i militari ucraini avvolgono attorno alle braccia per riconoscersi, perché le divise in questa guerra sono le stesse da una parte e dall’altra.

La sensazione di non essere più i benvenuti diventa tangibile. I due miliziani prendono sottobraccio Andrej e lo portano in disparte. Quando torna, dice che la missione è abortita e si deve tornare a Donetsk. Il “Cargo 200” per quest’oggi deve rientrare vuoto, ma i campi di grano intorno a Ilovaisk sono ancora intrisi di sangue.

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