Albania: sul boulevar senza paura

Venerdì scorso il premier albanese Rama ha – con estrema cordialità – rimandato al mittente la richiesta USA di smaltire nel paese adriatico le armi chimiche provenienti dalla Siria. Una decisione su cui ha pesato, forse per la prima volta in Albania, la società civile. Un reportage

21/11/2013, Nicola Pedrazzi -

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Proteste a Tirana, foto di Nicola Pedrazzi

Camminavo lungo Dëshmorët e Kombit per raggiungere il Palazzo dei Congressi, dove proprio in quei giorni si inaugurava la Fiera del Libro di Tirana. Camminare su quel boulevard equivale a ripercorrere la storia del giovane stato albanese: costruito dagli italiani nel 1930 e inizialmente dedicato a Re Zog, questo fiume d’asfalto difficilmente guadabile dai pedoni attraversa la capitale da nord a sud; lungo il suo corso sorge Piazza Skënderbej, sulle sue sponde nascono e si susseguono i più importanti edifici pubblici del paese, dal Palazzo della Cultura al Museo Nazionale, dalla Galleria delle Arti al Palazzo del Governo, sino alla sede della Presidenza della Repubblica. Come insegna il passato, è quel boulevard, la vera piazza dell’Albania. Ed è su quel boulevard che ho incontrato, forse per la prima volta, i cittadini albanesi: era il 14 novembre 2013.

Armi chimiche

Da due settimane la diplomazia americana stava premendo affinché il governo Rama si rendesse disponibile a smaltire su suolo albanese le armi chimiche sottratte al regime di Assad. La soluzione era e rimane geopoliticamente logica: non solo perché l’alleanza tra Tirana e Washington è, per l’ultimo paese NATO, più forte di qualsiasi altro legame strategico (Unione europea inclusa), ma soprattutto se si considera l’importanza degli incentivi materiali statunitensi, sia sotto forma di aiuti economici che di know-how. In altre parole, rassicuravano gli americani, l’accettazione delle armi chimiche avrebbe rappresentato un’occasione per l’Albania, la quale poteva contestualmente dare avvio ad un più ampio piano internazionale di smaltimento degli agenti inquinanti presenti nel paese (ereditati in buona parte dal regime comunista e trascurati da decenni di pessima politica ambientale).

Ignaro di tutto ciò – vivere in un paese senza padroneggiarne la lingua ritarda la tua percezione della realtà – giungo all’incrocio con Rruga Bajram Curri e mi accorgo del posto di blocco. Sono quasi le 18.00, ora di punta, ma il boulevard è stato chiuso al traffico; i poliziotti, gialli fluorescenti, gesticolano più energicamente del solito. Un coro di voci coordinate fende lo smog dell’incrocio e mentre alzo lo sguardo oltre alla “piramide” ho già capito cosa sta accadendo. A distanza di qualche centinaio di metri, davanti al Palazzo del governo, è in corso una manifestazione.

La mente corre al gennaio 2011 – amici albanesi mi hanno insegnato a pensarci, ogni volta che passo di lì: un esercizio di memoria reso vivido dai filmati tristemente noti su Youtube – ma capisco subito che si tratta di tutt’altro clima. Innanzitutto, così come voluto dal nuovo Primo ministro, i cancelli non ci sono più: a sostituire il movente simbolico di qualsiasi manifestante del mondo (sfidare il tabù della “zona rossa”) è una sparuta fila di poliziotti in cravatta e maglioncino. Sembrano maschere del Teatro dell’Opera, quando con un ampio gesto ti invitano a non proseguire sul marciapiede, ma a camminare in strada – una possibilità resa sempre meno possibile dall’aumentare della calca.

La protesta

Cosa succederebbe se la gente iniziasse a spingere? – mi chiedo ancor prima di sapere il motivo della manifestazione. Mentre le facce di quei ragazzi (molti giovanissimi, minorenni) dissipano ogni dubbio riguardo alla pericolosità della situazione, le maschere anti-gas e i cartelli scritti a mano mi suggeriscono il tema della protesta. Non pago delle mie intuizioni, decido di telefonare a Sokol e a Mira (le mie orecchie e la mia bocca sulla realtà shqiptarë) grazie al cui bilinguismo ogni cosa risulta più chiara: in tutto il paese cittadini liberi stanno protestando pacificamente contro lo smaltimento delle armi chimiche siriane su suolo albanese, un proposta statunitense che in quelle ore è al vaglio dal governo.

La protesta, iniziata spontaneamente una settimana prima, si è coagulata attorno all’attivismo dell’Aleanca Kunder Importit te Plehrave (Alleanza contro l’importazione dei rifiuti) e a Tirana è culminata, a seguito di svariate iniziative dislocate in diversi punti strategici (dal Parlamento all’Ambasciata americana) nella presa del boulevard, proprio in prossimità del Palazzo del Governo.

Incuriosito sono tornato “in piazza”, cioè sul boulevard, per due giorni consecutivi, a orari diversi. Seppur a intensità variabile, il numero dei manifestanti cresceva costantemente. Allo zoccolo duro che ha mantenuto il sit-in per tutta la notte del 14 novembre, si aggiungevano, sporadici, i passanti. Uomini e donne di ritorno dal lavoro, mamme con passeggini al seguito, ragazzi dei licei e delle università. L’affluenza cresceva in prossimità della decisione di Edi Rama, annunciata per il pomeriggio di venerdì 15.

Manifestazione civica

Dalla Tv ho poi appreso un fatto interessante: a modo loro e senza comprenderne la natura, nel pomeriggio di giovedì anche Sali Berisha e Lulzim Basha avevano cercato di partecipare alla novità, di unirsi ai manifestanti. Subissata dai fischi dei manifestanti, la tentata passerella dell’ex premier e del suo delfino è stata mediaticamente fallimentare. Nonostante il Partito Democratico abbia contribuito, come forza d’opposizione, a ingrossare le fila del dissenso, l’alterità di questa manifestazione civica e apartitica alle ragioni di una parte sola è risultata evidente a tutta l’opinione pubblica albanese.

Un fatto, questo, che crea un precedente virtuoso rispetto alla percezione che i giovani albanesi avranno d’ora in poi della loro funzione nella vita pubblica del paese: indipendentemente dalla questione “armi chimiche”, quanto è avvenuto è infatti la dimostrazione della diversità delle nuove generazioni, del loro disinteresse per una politica vecchia e strumentalizzatrice e del loro attaccamento ad un paese del quale vogliono immaginare il futuro.

Verosimilmente consapevole di tutto ciò, Edi Rama ha annunciato, appena ventiquattro ore dopo, la marcia indietro del suo governo. Se si considera il peso degli Stati Uniti in questo piccolo paese europeo, dal punto di vista politico questa decisione è ancor più rilevante della qualità della mobilitazione espressa da quei ragazzi. Pochi minuti dopo al discorso del Primo ministro, il boulevard veniva restituito al traffico e Skënderbej riceveva ai piedi del suo cavallo questi giovani vincitori senza guerra.

Tanto verrà scritto, e di segno opposto, sulla vicenda delle armi chimiche siriane in Albania. Quando la geopolitica incontra un paese così piccolo, quando la ragion di stato incontra le ragioni del cittadino in strada, la realtà diviene plurima e complessa: da diverse altezze si capiscono diversi mondi, su ognuno dei quali sarà bene riflettere – restando possibilmente immuni sia all’entusiasmo naive di chi crede di poter cambiare il mondo con un buono slogan, sia al dietrologismo disincantato di chi nega l’esistenza stessa delle novità: nel dibattito albanese seguito al discorso di Rama si intravedono purtroppo entrambe le semplificazioni.

In attesa che il tempo chiarisca le implicazioni politiche di quanto accaduto tra Albania e Stati Uniti e le proporzioni storiche di questo salutare precedente di dissenso democratico, chi, come me, camminava straniero ad altezza d’uomo, è convinto di aver assistito a qualcosa di grande per il giovane paese in cui si trova ospite.

 

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Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell’Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l’Europa all’Europa

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