Una contorta vicenda di traffici internazionali, collaborazione tra autorità e gruppi criminali e parentele scomode sta facendo tremare in questi giorni il governo del Premier socialista Edi Rama, insediatosi per il secondo mandato nel mese di settembre. Quattro anni di indagini delle autorità italiane sono state finalizzate il 17 ottobre scorso con un mandato di cattura nei confronti di undici persone, tra cui anche i fratelli Moisi e Florian Habilaj, noti alla cronaca albanese dal 2015, cioè da quando un ex agente dell’antidroga di Fier, Dritan Zagani, ha denunciato il legame – di sangue e di affari – con l’allora ministro degli Interni, Saimir Tahiri.
Secondo l’ex ufficiale di polizia, i fratelli Habilaj erano coinvolti da tempo in un giro di traffico di narcotici con l’Italia e si muovevano a bordo di un’auto di proprietà del ministro, che in Albania gli garantiva l’intoccabilità. Tahiri aveva ammesso in quell’occasione di aver venduto il veicolo ai cugini, senza mai fare il passaggio di proprietà, nonché di averlo utilizzato anche successivamente per un viaggio privato all’estero.
L’agente Zagani, all’epoca già sotto inchiesta per abuso d’ufficio, ha chiesto e ottenuto asilo politico in Svizzera. Mentre Saimir Tahiri, oggi deputato e coordinatore del Partito Socialista, è rimasto a capo del ministero degli Interni fino al marzo 2017, prima di essere improvvisamente destituito con un maldestro rimpasto di governo in cui a farne le spese finirono anche altri tre ministri socialisti. Alla luce delle recenti rivelazioni ottenute dalle autorità italiane, la procura albanese ne chiede ora l’arresto con l’accusa di traffico di narcotici e corruzione.
Il coinvolgimento di Tahiri
Nell’ambito delle indagini della Guardia di Finanza su un’organizzazione internazionale che negli anni è riuscita a trasportare oltre 3.500 kg di marijuana dall’Albania all’Italia, con un giro d’affari che supera i 20 milioni di euro, la procura albanese ha ottenuto anche un voluminoso fascicolo con le intercettazioni di incontri e conversazioni telefoniche tra i membri della banda, da cui è emersa l’ombra del coinvolgimento di Saimir Tahiri, nel periodo delle intercettazioni a capo del ministero degli Interni.
In una conversazione del dicembre 2013, qualche mese dopo le elezioni politiche albanesi, gli indagati Moisi Habilaj e Sabaudin Çelaj si chiedono cosa abbia più di loro il neo nominato ministro. Per Çelaj ci sarebbe stato “giusto il nome”, intendendo la reputazione e l’incarico governativo, non certo il denaro, condizione evidentemente ritenuta imprescindibile per la carriera politica. Secondo Habilaj però, il cugino di Tirana "ha fatto almeno 5 milioni di euro in un mese", ma il compagno ridimensiona l’importanza della cifra per le tasche del ministro sottolineando che per una campagna elettorale all’albanese "non sono sufficienti neanche 20 milioni".
In un’altra occasione, gli indagati parlano di una somma di 30 mila euro, parte del ricavato di una delle tratte di narcotici, che spetterebbe a Saimir, e successivamente di due bracciali, dal valore di qualche migliaio di euro, per la moglie e la madre di Saimir.
In alcuni casi il riferimento è evidente mentre in altre occasioni si fa solo il nome, ma secondo gli inquirenti italiani il Saimir citato dagli indagati sarebbe proprio l’ex ministro.
Le conseguenze politiche
"Due criminali, miei cugini di decimo grado, non hanno esitato a fare il mio nome. Di criminali che fanno il nome di un politico per vantarsi, e comunque per i propri interessi, ce ne sono tanti. Ma intendo chiedere alla procura di indagare, senza avvalermi dell’immunità di deputato", ha dichiarato Tahiri in conferenza stampa a poche ore dalla pubblicazione delle intercettazioni. "Finirò nella cella più remota del carcere e ci rimarrò finché sarà fatta chiarezza", affermava accorato la sera stessa in televisione, certo che il giorno dopo la procura avrebbe avuto il via libera per l’arresto.
Nel generale e imbarazzato silenzio dei socialisti l’unico a prendere la parola è stato il Primo Ministro Edi Rama che ha subito preso le distanze e definito "rivoltanti e scioccanti" le conversazioni degli indagati. "Vogliamo la verità, quanto prima", ha brevemente commentato il Premier sui social, mentre l’uomo di punta del suo precedente governo era improvvisamente diventato un "ramoscello storto" all’interno della grande famiglia socialista.
In meno di ventiquattro ore però il vento è cambiato. Sotto casa e davanti al Parlamento Tahiri non ha trovato gli agenti di polizia ma una schiera di sostenitori accorsi ad incoraggiarlo a fare giustizia e ad insultare e zittire la giornalista "cretina" che osava fargli una domanda sul suo coinvolgimento nella vicenda . Nel frattempo nel dibattito sul concedere o meno l’immunità parlamentare i deputati socialisti si sono stretti intorno al collega, hanno preso un giorno di tempo per valutare la documentazione e poi preteso dai magistrati – simulando una improbabile seduta giudiziaria – prove incontestabili della colpevolezza del collega. Il giorno dopo, il Consiglio dei mandati – ente preposto all’analisi della concessione dell’immunità – se ne è uscito con due rapporti: uno dell’opposizione che convalidava l’arresto e uno della maggioranza che consentiva solo indagini, ma con il deputato a piede libero. Facile prevedere quale otterrà la maggioranza in aula nei prossimi giorni.
I guai giudiziari di Tahiri hanno riunito intorno allo stesso tavolo tutti i partiti di opposizione che, aderendo all’appello del Partito Democratico di Lulzim Basha, principale formazione del centrodestra albanese, hanno accettato di coordinare i propri interventi e di trovarsi uniti nella lotta al potere criminale rappresentato in primis dal premier Edi Rama. Questo nuovo fronte comune dell’opposizione ha subito chiesto le dimissioni di Rama in quanto "principale responsabile dei legami della criminalità con la cupola governativa e rappresentante degli interessi di un sistema oligarchico e corrotto".
Che l’opposizione avrebbe trasformato la vicenda in una battaglia politica era prevedibile, ma tutti i presenti a quel tavolo, da Basha a Mediu, da Kryemadhi a Kokedhima, così come i grandi assenti, Berisha e Meta, i propri problemi con la giustizia li hanno sempre schivati o archiviati grazie alle protezioni politiche, a cavilli burocratici e termini di prescrizione. Sono anche loro, al pari di Tahiri e Rama che oggi denunciano, emblema del fallimento di un sistema giudiziario e politico che non ha mai rotto il suo "codice del silenzio", quella inscalfibile complicità tra chi sale e scende dal potere.
Nell’assoluta impunità che ha accompagnato per oltre 25 anni tanto l’Albania degli sbarchi, della crisi e dei conflitti di ieri, quanto quella del miracolo, del boom e delle opportunità della narrazione di oggi, Saimir Tahiri ha solo rischiato, anche se per sole ventiquattro ore, di essere la prima eccezione.
La capitolazione di uno stato
Oltre al “capitolo" politico, nelle intercettazioni delle autorità italiane, pubblicate integralmente in questi giorni sulla stampa , c’è la quotidianità delle vite dei membri di un’organizzazione criminale, per la parte albanese capitanata dai fratelli Habilaj. C’è il denaro facilmente guadagnato e subito sperperato, lo scoramento per i carichi intercettati dalle autorità italiane e il sollievo di scampare ogni volta all’arresto, il disappunto per i calzini Hugo Boss pagati 320 euro e la soddisfazione per i bracciali tempestati di diamanti da regalare alla mamma, con tanto di garanzia in caso di furto.
Da quelle carte emergono però anche due paesi agli antipodi dello stesso mare dove, a Porto Palermo, luogo prediletto per la partenza degli scafi carichi di cannabis, gli 80 km che li separano diventano improvvisamente un abisso. Da un lato del mare – quello italiano – c’è l’ossessione di essere sotto osservazione, la povertà, c’è la polizia che i suoi indagati li segue, li controlla, ne registra le conversazioni e intercetta le spedizioni. Dall’altro c’è la libertà, il lusso, la polizia che “guarda e passa”, innocua e inoffensiva.
In Albania, la banda degli Habilaj ha dalla sua la polizia dell’intera area di Valona, "hai visto il furgone che è passato, sono tutti dei nostri, ma qualche traditore può capitare, vai a sapere chi viene e chi va"; ha un "grande capo" a Tirana con cui avvengono incontri a tu per tu, e che non è escluso sia lo stesso cugino socialista; ma anche un “uccellino” nella sala radar di Durazzo, "da lì vedono tutto, anche i pesci", che dà loro indicazioni sulla rotta e li riprende se, come capitato una volta, l’imbarcazione entra per errore nelle acque territoriali greche dove invece la protezione viene a mancare.
Nelle intercettazioni delle autorità italiane potrebbero non esserci elementi sufficienti a dimostrare l’effettivo coinvolgimento di Saimir Tahiri nella vicenda, anche se certamente basterebbero per troncarne la corsa politica, ma c’è la parabola dell’attività di un’organizzazione criminale attiva dal 1998 e legata evidentemente a tutti i governi di Tirana che da allora si sono susseguiti. C’è, soprattutto, la parabola di un paese in cui ancora oggi regnano l’illegalità, la corruzione e la collusione della politica con la criminalità organizzata. In quelle 400 pagine di intercettazioni c’è, tra le righe, la capitolazione dello stato albanese.