Albania: diplomazia della censura
A seguito di un editoriale al vetriolo sull’ambasciatore USA in Albania l’ambasciata statunitense interrompe tutti i contatti con il quotidiano Shekulli, il principale del Paese. Il caporedattore Adrian Thano parla di decisione "che ricorda altri tempi". Un nostro approfondimento
La mattina del 15 aprile scorso gli albanesi hanno trovato in edicola il giornale più diffuso del Paese con un’insolita prima pagina. Il titolo d’apertura recitava: “L’Ambasciata Americana interrompe i rapporti con il quotidiano Shekulli”. Sotto un “WTF ?!?” in maiuscolo, acronimo di “What The Fuck”, un modo di dire poco raffinato dell’inglese parlato che esprime massimo stupore. Ma cosa è successo?!
In un articolo del 9 aprile dal titolo “Il piccolo ambasciatore di un grande Paese” l’opinionista Ilir Yzeiri critica l’ambasciatore Usa a Tirana, Alexander Arvizu, per le sue posizioni filo governative e cita alcune interviste del diplomatico dove difende il Premier Berisha sui disordini dello scorso 21 gennaio dove persero la vita 4 manifestanti dell’opposizione. In seguito, facendo riferimento ad alcune immagini televisive che riprendono l’ambasciatore impegnato in un tour per il Paese mentre accarezza alcuni bambini, Yzeiri definisce questa attività con la parola “kinezerira” (cinesaggine) e per trovare il giusto significato del termine invita l’ambasciatore a contestualizzarlo all’interno “della psicologia di Mao che lei conosce bene”.
L’embargo
“Vi scriviamo per informavi che l’Ambasciata degli Stati Uniti ha deciso di interrompere i suoi rapporti professionali con il quotidiano Shekulli fino ad altra comunicazione. A partire da subito, l’Ambasciata annullerà tutti i suoi abbonamenti con il giornale e il suo staff non sarà più invitato a partecipare ad attività sponsorizzate dall’Ambasciata. Inoltre, l’Ambasciata non invierà più alcun comunicato stampa o dichiarazione”.
Dopo aver chiarito qual è l’articolo fonte di malumore, nella sua lettera inviata al giornale, la rappresentanza diplomatica precisa che “non contesta il fatto che Yzeiri non sia d’accordo con le idee dell’ambasciatore Arvizu, o con la politica degli Stati Uniti”, ma lo accusa di aver violato l’etica del giornalismo professionale sfociando “in un inopportuno attacco personale verso l’ambasciatore Arvizu e gli Stati Uniti. I riferimenti a razza ed etnia, in particolare, non erano adatti ad un giornale che pretende di rappresentare l’opinione dominante”.
L’ambasciatore Alexander Arvizu, come si legge sul sito della sede diplomatica Usa a Tirana, è un americano di prima generazione. “E’ nato in una base militare americana in Giappone, sua madre era di Kyoto, mentre il padre è nativo di Dolores Hidalgo, Messico”.
Le reazioni
Durissima la replica del Shekulli che tramite il caporedattore Adrian Thano precisa da subito che risponde per “dovere verso i lettori, non verso di voi”. Thano parla di decisione senza precedenti “che ricorda altri tempi” e che “non ha nessun senso giuridico ma che è molto importante per il pubblico albanese, il quale ha bisogno di sapere qual è il suo punto di vista sulla democrazia e il ruolo dei media”.
Il giornalista ricorda all’ambasciatore che poteva scegliere altre forme di protesta, come la replica, “che sicuramente sarebbe stata pubblicata. Ma lei ha optato per la via più estrema che ha consigliato con forza anche ad altri: il boicottaggio”. Secondo il giornalista, il senso che l’ambasciatore ha dato ad una frase dell’articolo “riconferma il fatto che lei non conosce né l’Albania né gli albanesi”.
Quanto al blocco dei rapporti, “le ricordiamo che in ogni circostanza siamo noi che decidiamo se pubblicare un comunicato stampa e non viceversa”. La replica del quotidiano si conclude con un invito all’ambasciatore: “Come tutto il popolo albanese, nutriamo i più amichevoli sentimenti verso il popolo americano. Non sopravvaluti se stesso e non approfitti di questo sentimento”.
A rispondere all’ambasciata americana è stato anche l’autore dell’articolo incriminato, Ilir Yzeiri, che rifiuta categoricamente le accuse di razzismo che gli sono state mosse e aggiunge che “in altre circostanze mi sarei rivolto ad un tribunale”. Inoltre, precisa che “cinesaggine” in albanese non ha nessuna carica offensiva e nasce dai tempi delle relazioni tra i comunisti albanesi e la Cina.
“Da noi venivano stampati come tascabili le citazioni di Mao che erano dei testi propagandistici senza nessun valore e spesso ridicoli. […] La mia generazione è cresciuta sia con il lato drammatico della cinesaggine che con quello comico. Così, nella lingua albanese ‘cinesaggine’ è entrato come identificativo di un comportamento populista, propagandistico e senza nessun valore di notizia o evento”. “Mi sarei aspettato una reazione dell’ambasciata cinese, non di quella degli Stati Uniti”, afferma l’autore.
Il silenzio intorno
La vicenda ricorda da vicino un altro caso simile. Già nel 2004 il Partito democratico del Premier Berisha (allora all’opposizione) aveva tolto l’accredito all’emittente News24 perché non aveva accettato di togliere una notizia. In seguito, i suoi giornalisti non potevano più seguire le conferenze stampa dei democratici anche se riuscivano comunque ad ottenere il necessario materiale video sotto banco, grazie alla solidarietà di altre emittenti che le passavano di nascosto le immagini per la paura di subire la stessa censura.
Già allora poche voci di protesta si levarono contro la decisione di Berisha. Oggi, invece, si registra un generico silenzio. Il forte potere che l’ambasciata degli Stati Uniti esercita sulla vita pubblica in Albania impone a tutti grande cautela. Lo si nota anche in una reazione dell’Unione dei giornalisti albanesi, famosa per proteste ben più forti.
In una dichiarazione pubblica l’Unione dei giornalisti si è detta scossa da un gesto così estremo. Nel riconoscere una violazione dell’etica professionale, invita le parti al buon senso e l’ambasciata Usa a rivedere la sua posizione che “riflette conseguenze visibili e invisibili sulla libertà d’espressione nella stampa albanese, compreso l’aumento di effetti di censura nei nostri media”.