Albania: arte, storia e fantasia a settant’anni dalla Liberazione

Sabato 22 novembre, alla vigilia delle consuete celebrazioni per l’Indipendenza e la Liberazione, Edi Rama ha inaugurato la sua ultima invenzione: Bunk’Art, una mostra-museo allestita in un suggestivo rifugio sotterraneo che Enver Hoxha fece costruire nei primi anni Settanta

01/12/2014, Nicola Pedrazzi -

Albania-arte-storia-e-fantasia-a-settant-anni-dalla-Liberazione

Bunk'Art, foto di Olsi Qazimi

Che gli art-attak fossero il suo pane lo sapevamo già. Ma questa volta il Primo ministro albanese Edi Rama ha superato se stesso: se non altro in estro, furbizia e tempismo. Alla vigilia delle duplici ricorrenze nazionali – in Albania Indipendenza e Liberazione sono una dietro l’altra: il 28 e il 29 novembre – e in occasione dei Settant’anni della Liberazione di Tirana (17 novembre 1944), Rama ha deciso di aprire al pubblico il rifugio militare che il dittatore Enver Hoxha fece costruire tra il 1970 e il 1972.

Dopo una preparazione durata mesi e portata avanti in gran segreto dall’azione coordinata dei ministeri della Cultura e della Difesa – a quanto pare coadiuvati nella direzione artistica dall’agenzia Spazio Eventi e dal giornalista italiano Carlo Bollino – finalmente, il 22 novembre scorso, alla presenza dei giornalisti e delle autorità, il premier ha potuto scoprire il poker: Bunk’Art, un museo storico/galleria d’arte letteralmente e metaforicamente underground.

Nelle viscere della storia, con un pizzico di fantasia

Alle pendici del monte Dajti, sotto l’attacco della nuovissima funicolare, si estende una zona militare ancora attiva. Risalendo la collina, passati i campi da esercitazione, si trova l’ingresso del vecchio rifugio comunista. Una struttura sotterranea perfettamente conservata, composta da 160 camere distribuite su 5 piani, incluso un incredibile teatro-auditorium in grado di ospitare più di 200 persone.

In una location ideale per qualsiasi cosa ambisca definirsi "contemporanea", questo museo a dir poco suggestivo è stato intelligentemente concepito per piacere a grandi e piccini, a esperti e profani. Ad accoglierti all’ingresso è la lussuosa Zim-12 made in URSS che Hoxha ricevette in regalo da Stalin nel 1950. Notevole la didascalia: "In passato tutta l’Albania si è fermata per lasciare passare questa macchina. Ora che i tempi sono cambiati, anche questa limousine deve rispettare il codice stradale".

Una volta entrati, il percorso è in ordine cronologico: dall’Albania del Regno all’Albania socialista, passando per la Resistenza. Mentre foto, suoni e video d’epoca ci guidano dal fascismo italiano al comunismo albanese, pregevoli installazioni artistiche realizzate da giovani artisti locali sbucano con notevole tempismo ad alleggerirci il viaggio nelle viscere del tempo.

Va detto che la qualità e il distacco storico dei pannelli – come sempre opinabili, trattandosi di sintetiche didascalie esplicative – sono senza precedenti in Albania. Non solo c’è molto da leggere, non solo a fianco delle spiegazioni sono riportate le copie degli originali d’archivio – suggerendo così il legame tra racconto e fonte – ma l’equidistanza dei testi (in albanese e inglese) segna un decisivo cambio di passo rispetto ai sensazionalistici allestimenti del Museo Nazionale, che ancora oggi ospita un’agghiacciante sezione sugli "orrori del comunismo", zero Storia e tutta emozione.

Anche dal punto di vista del marketing turistico, alcune trovate sono ottime: nella "stanza di Mehmet Shehu" è ad esempio possibile seguire in diretta i funerali di Stato di Enver Hoxha. Vecchi e giovanissimi si fermano a lungo di fronte a quella TV d’epoca: i primi si chiudono in un silenzio indimenticabile, i secondi ascoltano il silenzio dei nonni, e capiscono di appartenere ad un’altro tempo.

Come in tutti i musei che si rispettino, anche Bunk’Art esibisce volentieri della paccottiglia: buona parte delle uniformi esposte sono costumi provenienti dal Kinostudio e dall’Accademica di Cinema. Va poi detto che se certe stanze sono state trovate meglio allestite (con la moquette, il bagno o il legno alle pareti) è scorretto chiamare quegli spazi "stanza di Hoxha" o "stanza di Shehu", per il semplice fatto che non lo erano: il dittatore visitò certamente il posto, prima e dopo l’inaugurazione (24 giungo 1978), ma come le stesse didascalie ammettono né lui né i suoi generali vi passarono mai una notte. Per quanto riguarda Shehu invece, cadde in disgrazia e morì qualche anno dopo la realizzazione del rifugio. Stando a quanto ho potuto leggere, il nascondiglio venne progettato per ospitare tutta la linea di comando in caso di attacco atomico: questo spiegherebbe la presenza di un grande numero di camere, alcune delle quali vennero disegnate come veri e propri appartamenti.

Per completare il quadro delle imprecisioni, anche il nome, Bunk’Art, ha fatto storcere qualche naso. Da più parti è stato osservato che il tunnel aperto al pubblico non è un bunker, o almeno non lo è in senso albanese: i 700.000 bunker costruiti in tutto il paese erano fortificazioni finalizzate al combattimento, mentre questo è un rifugio di sicurezza per gli alti gradi dell’esercito. In secondo luogo, il richiamo all’arte, utile al non proprio eccezionale gioco di parole, è eccessivo, poiché per quanto il mix museo-arte possa dirsi riuscito, la ricostruzione storica sovrasta le installazioni artistiche.

Una buona idea, ma con quale futuro?

Al netto delle polemiche (che tanto in Italia quanto in Albania sono il miglior indice di successo) Bunk’Art è senza dubbio una buona idea. Un’idea europea: se Berlino è riuscita a sorpassare Roma per numero di visitatori l’anno, ciò non è avvenuto certo per il clima più mite. Partendo dalle macerie dei conflitti caldi e freddi passati sulla loro pelle, i tedeschi non hanno solamente saputo rielaborare la loro storia, sono stati capaci di costruire la loro poesia: nella capitale tedesca è da anni che vecchie stazioni radio dei Soviet ospitano spazi autogestiti da sofisticatissime direzioni artistiche, è da anni che i variopinti brandelli del Muro vengono trattati come una vera e propria galleria d’arte: East Side Gallery, appunto.

Purtroppo, a differenza delle omologhe invenzioni berlinesi, Bunk’Art è una buona idea che rischia di morire di solitudine. Dopo un lavoro e un investimento che per l’Albania non è irrilevante (la cifra uscita sui giornali si aggira attorno agli 80.000 euro), chiuderlo tra un mese sarebbe demenziale, ma la cruda verità è che al momento nessuno sa come tenerlo aperto: si tratta di un punto di interesse isolato e scollegato, e per giunta all’interno di un’area militare di difficile accesso – per entrare è necessario esibire un documento a un posto di blocco.

Una soluzione "alla tedesca" sarebbe quella di inserire Bunk’Art all’interno di un circuito turistico sul comunismo di cui esso possa rappresentare il vertice. Al momento, però, gli altri potenziali snodi del percorso giacciono nell’abbandono: Villa Enver, nel bllok, viene aperta solo episodicamente e lo stesso si può dire della Piramide, di cui per fortuna non è più stata ipotizzata la (folle) distruzione, ma che è lungi dall’essere valorizzata.

La verità è che nonostante gli exploit del Primo ministro Rama, in Albania il processo di rielaborazione della storia recente è ancora acerbo: plasticamente lo dimostrano le celebri statue di Lenin e Stalin, nascoste e incappucciate dietro alla Galleria Nazionale, la quale dedica un intero piano al realismo comunista, ma preferisce lasciare il Baffo e i suoi compagni ad arrugginire sotto la pioggia.

Ogni autunno, la fatica della verità della storia

La buona politica conosce la storia, ma la buona storia non conosce la politica. Lo ha ricordato lo stesso Rama inaugurando il Bunk’Art: "La scrittura della storia va lasciata agli storici. I tentativi di ricostruzione fatti dai politici sono risultati tanto tragici in passato quanto risultano ridicoli oggi". Affermazione ineccepibile.

Per vivere con serenità il proprio passato collettivo non bisogna cercare ogni volta di riattualizzarlo a proprio uso e consumo. E invece ogni autunno la politica albanese offre lo stesso teatrino: mentre i socialisti – accampando dati storici che non si hanno – si sforzano di tenere distinti due avvenimenti, i democratici festeggiano il 28 novembre sia l’Indipendenza del 1912 che la Liberazione del 1944.

La verità, come spesso accade, sta in mezzo, e dà torto a entrambe le parti. Con buona pace dei socialisti, è molto difficile ricostruire con esattezza il giorno e l’ora in cui l’ultimo tedesco lasciò l’Albania: il 28? il 29? il 30 novembre? E quali erano i confini dell’Albania nel 1944? Quelli del 1913 o quelli ridisegnati in grande da Mussolini? In assenza di questi dati, il 29 novembre è, come tutte le feste di stato, una data scelta a tavolino dalla politica del tempo: non so cosa vi sia scritto nei sussidiari albanesi, ma che nell’immediato dopoguerra Hoxha non avesse ancora abbandonato la possibilità di confederarsi alla Jugoslavia è una verità acclarata. Per dare sostanza simbolica a questa eventualità politica, come giorno della Liberazione della nascente Albania socialista venne non a caso scelto il 29 novembre, anniversario (a sua volta arbitrario) della fondazione della Repubblica jugoslava.

Se avesse saputo che già nel 1948 avrebbe dovuto sganciarsi da Tito per seguire Stalin, lo stesso Hoxha avrebbe forse fatto quello che oggi suggerisce Berisha: retrodatato la Liberazione al 28 novembre, ponendosi al vertice del trittico nazionalista albanese: il 28 novembre 1443 Skanderbeg proclama il Principato libero d’Albania, il 28 novembre 1912 Qemali dichiara l’indipendenza dell’Albania, il 28 novembre 1944 Hoxha la libera dai nazifascisti.

Ma qualcuno lo dica: non è poi così importante stabilire il giorno e l’ora in cui l’ultimo tedesco lasciò l’Albania. Il dato storico rilevante, il motivo del ricordo di questi giorni, risiede nel fatto che settanta anni fa l’Albania fu liberata dai nazifascisti: poco importa se la data fu scelta da Enver Hoxha, poiché tutte le ricorrenze di tutti i paesi del mondo sono date politiche, scelte appositamente dai governanti per legittimare le loro visioni agli occhi dei governati.

Conoscere la propria storia significa anche saper guardare alle sue ricorrenze nella loro complessità, cogliere le motivazioni politiche ad esse sottese, senza negarle per il semplice fatto che quelle motivazioni possono non piacere. Il fatto che il 29 novembre custodisca in sé anche il fossile di un progetto politico abbandonato (e filojugoslavo!) non ne svilisce il significato, anzi lo rende vero, fornisce a questa data lo spessore, la complessità e la controversia che sono proprie della verità storica: uno spessore che andrebbe totalmente perduto appiattendo Skanderbeg, Qemali e la Resistenza su un mitologico e onnicomprensivo 28 novembre dell’albanesità.

Commenta e condividi

La newsletter di OBCT

Ogni venerdì nella tua casella di posta