Al mercato di Markale
Le dichiarazioni di Karadžić ai giudici dell’Aja sulla strage di Markale, il ruolo di giornalisti e caschi blu durante la guerra in Bosnia Erzegovina. Un commento
Primavera è tempo di commemorazioni in Bosnia Erzegovina (BiH). Da 15 anni si ricordano le più grandi stragi compiute durante la guerra: il massacro alla fila per il pane (26 morti, 108 feriti), le stragi al mercato di Markale (Markale 1 e 2), l’uccisione dei ragazzi di Dobrinja mentre giocavano a calcio (16 morti), i morti nella fila per l’acqua, il massacro dei giovani di Tuzla (71 vittime), e così via.
La guerra in Bosnia fu seguita dai media come nessuna prima e nessuna dopo. Per due motivi. Negli anni novanta la tecnologia permetteva ai giornalisti di trasmettere gli eventi in tempo reale; i giornalisti poi, quindici anni fa, non erano ancora “embedded” come lo sono oggi.
Embedded è una parola inglese che descrive l’incorporamento dei giornalisti nell’esercito, il che vuole dire che gli inviati di guerra, oggi, per lo più sono controllati; si concede loro di vedere, sentire, filmare e trasmettere solo quello che conviene.
Quella bosniaca fu una guerra trasmessa in diretta, ben documentata con mezzi moderni e tradizionali. Il fatto ha ispirato Stjepan Meštrović e Thomas Cushman a intitolare il loro libro “This Time We Knew: Western Responses to Genocide in Bosnia” (Questa volta lo sapevamo: risposte occidentali al genocidio in Bosnia). Il messaggio principale del libro è che, mentre la guerra in BiH era in corso, esistevano moltissime prove di quello che stava accadendo e che – al contrario della Seconda guerra mondiale – non si poteva dire che “non sapevamo”.
In centinaia sono andati in Bosnia Erzegovina come inviati di guerra. Giravano ovunque pareva loro, guardavano, toccavano, filmavano, registravano, vivevano con gli accerchiati, soccorrevano le vittime, entravano nelle città assediate, brindavano con i criminali, dibattevano con presidenti, ministri, generali, osservavano i bombardamenti dalle posizioni di tiro. A Sarajevo alcuni giornalisti si appostavano nei luoghi dove, solitamente, i cecchini uccidevano i passanti, o dove si faceva la fila per qualcosa. Sapevano che prima o poi potevano filmare la morte in diretta.
A volte addirittura veniva offerto “un assaggino”, come è successo al mio collega e amico che lavorava per l’agenzia AP a Belgrado. Mi raccontava che, quando visitava le posizioni dei serbi sopra Sarajevo, gli offrivano grappa e anche, se gli faceva piacere, di “sparare un po’ sulla città”.
Malgrado tutte le testimonianze, le migliaia di libri, le fosse comuni esaminate, le storie dei sopravvissuti, i milioni di documenti sui quali si basano le sentenze del Tribunale dell’Aja, le menzogne sopravvivono, si nega la verità documentata, si ricostruisce la storia, si modificano i fatti, persistono i miti.
Tra i più conosciuti, e che maggiormente resistono, c’è quello secondo cui i bosniaci si uccidevano da soli. Questo “argomento” viene utilizzato spesso parlando delle stragi più note e orribili. Come ad esempio il massacro al mercato di Markale.
Si tratta di uno dei casi più evidenti di "delitto perfetto". Secondo il filosofo francese J. F. Lyotard (Theater of Atrocities: Toward a Disreality Principle), questo consiste infatti "non solo nella uccisione delle vittime, ma anche nel far tacere i testimoni, rendere sordi i giudici e assurde le testimonianze.”
In quello stesso mercato, situato nel cuore antico di Sarajevo, ci sono state due stragi: Markale 1 (nel 1994, 67 morti e 142 feriti) e Markale 2.
Markale 2 avvenne nell’agosto 1995. L’ultimo di cinque colpi di mortaio causò la morte di 37 civili e il ferimento di 90.
La manipolazione politica del crimine di Markale è cominciata lo stesso giorno del massacro e, a quanto pare, dura ancora oggi.
Il governo bosniaco, dopo la strage, ha richiesto un intervento militare della NATO. Le autorità serbe hanno negato la responsabilità, accusando il governo bosniaco di aver bombardato la propria gente per suscitare lo sdegno internazionale e il possibile intervento NATO.
Il comandante delle Nazioni Unite d’allora, Rupert Smith, aveva dichiarato che “non si sapeva chi avesse causato il massacro di Markale 2.”
L’ex presidente della Republika Srpska, Radovan Karadžić, ha affermato che a Markale "è stato tutto una messa in scena e una frode."
Il giorno dopo il massacro, Karadžić ha inviato una lettera ai presidenti di Russia e Stati Uniti, Eltsin e Clinton, affermando: "Dalle immagini TV si vede chiaramente che i cadaveri sono stati manipolati, e che tra i ‘cadaveri’ ci sono anche pupazzi di stoffa e plastica.”
Lo spettacolo del giornalista serbo bosniaco Risto Džiogo rappresentò un ulteriore scempio. Nello studio della televisione di Pale, Džiogo aveva messo per terra dei pupazzi di plastica e di stoffa sdraiandovisi accanto e fingendo di essere uno dei serbi morti che sarebbero stati utilizzati nella messa in scena a Markale.
Nei giorni successivi alla strage, il regime di Slobodan Milošević e i media serbi hanno cominciato a produrre “spiegazioni” e “retroscena” del massacro, a promuovere teorie del complotto per spiegare il crimine.
Il ministero degli Affari Esteri della Repubblica federale di Jugoslavia, in data 8 febbraio ’95, ha rilasciato una dichiarazione che esprimeva indignazione per questo crimine, facendo appello agli "attori internazionali per impedire a tutti la manipolazione politica di questo tragico evento".
Un mese dopo, marzo 1995, il ministero dell’Informazione della Repubblica di Serbia ha emesso un documento chiamato "Dossier Markale Market“ con il quale faceva esattamente ciò che il primo documento condannava. Gli autori dell’opuscolo spiegavano che la "auto-vittimizzazione" dei musulmani proveniva dalla stessa "mentalità islamica" e che faceva parte dell’assioma per cui “è un onore morire per l’Islam”.
Queste affermazioni razziste sono seguite da una serie di speculazioni sui possibili autori del delitto. Si citano documenti segreti, si pubblicano “prove storiche”, si fa riferimento ad un testimone anonimo che diceva che "la notte prima del massacro sul mercato sono stati portati i cadaveri, e che la maggior parte dei feriti musulmani proveniva dai campi di battaglia di Mostar e Vitez”.
Come a cerchi concentrici queste affermazioni, ripetute varie volte, aumentavano e si diffondevano nel tempo e nello spazio.
Negli anni novanta il quotidiano di Belgrado “Politika” ha pubblicato il testo di un certo Dragan Džamić (poi pubblicato nel libro sul generale Mladić della giornalista belgradese Ljiljana Bulatović), in cui Džamić sostiene che "la maggior parte delle vittime nel mercato Markale erano serbi”.
Un altro quotidiano di Belgrado, “Kurir”, nel 2009 scriveva che “i servizi segreti albanesi del Kosovo possiedono una copia del piano dei bosniaci che prova la teoria secondo cui la strage di Markale fu tutta una messa in scena del governo di Sarajevo”.
Il Primo ministro della Republika Srpska, Milorad Dodik, ogni tanto riattizza il mito e ripete (l’ultima volta circa un mese fa) che “la strage di Markale è stata una messa in scena, come anche la strage dei giovani a Tuzla”.
In questi giorni, nel suo processo davanti al Tribunale dell’Aja, l’ex presidente dei serbo bosniaci Radovan Karadžić ripete quello che diceva 15 anni fa: “Il massacro al mercato di Markale 2 è stato organizzato dalle forze governative bosniache, e la maggior parte dei corpi ritrovati erano vecchi cadaveri e manichini".
Cosa è stato accertato sulle stragi di Markale e sui “bosniaci che si sparavano da soli”?
In un rapporto fatto subito dopo Markale 2, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite conclude che “tutti e cinque i proiettili erano stati sparati dall’esercito della Republika Srpska”.
Davanti al Tribunale dell’Aja è stato documentato che “il colpo di mortaio, senza alcun ragionevole dubbio, è arrivato dalle posizioni dell’esercito dei serbi bosniaci”.
Il responsabile del mito secondo cui “non si sa chi abbia causato il massacro di Markale 2” è l’ex capo degli affari civili delle Nazioni Unite in Bosnia, David Harland. Ha testimoniato davanti all’Aja che lui personalmente aveva suggerito all’allora comandante delle Nazioni Unite, Rupert Smith, "di fare una dichiarazione neutra” per non allarmare i serbo bosniaci, che sarebbero stati in questo modo avvisati degli imminenti attacchi aerei della NATO contro le loro posizioni.
“Se avessimo puntato il dito contro i serbi, le truppe dell’UNPROFOR, stazionate nel territorio sotto il controllo dell’esercito serbo bosniaco, potevano essere esposte ad attacchi di rappresaglia”, ha spiegato Harland.
Questa versione venne confermata dal generale Rupert Smith davanti al Tribunale dell’Aia e in un suo libro. Smith ha sostenuto che già allora (1995) aveva una relazione tecnica secondo cui “al di là di ogni ragionevole dubbio il proiettile era arrivato dalle posizioni dell’esercito serbo bosniaco”.
Confermava anche di aver sentito le voci secondo cui i musulmani si sparavano da soli, ma che “nessuno mai mi ha dato una prova di ciò”.
Due generali serbi, Dragomir Milošević e Stanislav Galić, sono stati processati e condannati, rispettivamente a 33 anni di carcere e all’ergastolo, per l’assedio e il bombardamento di Sarajevo, comprese le stragi di Markale.
Per quelli che sostenevano che “i bosniaci si sparavano da soli” il testimone chiave, a lungo, fu il colonnello russo Andrei Demurenko, all’epoca dei fatti capo del personale UNPROFOR a Sarajevo. Il colonnello aveva dichiarato che la ricerca dell’UNPROFOR su Markale 2 era viziata, e sosteneva l’esistenza di una relazione segreta che scagionava i serbi dalla colpa. Per dieci anni Demurenko ha rilasciato interviste e accuse, finché non è comparso di fronte al Tribunale dell’Aja, come testimone della difesa del generale Dragomir Milošević.
Invitato a presentare le prove su Markale 2, il colonnello Demurenko ha detto che “non le aveva con sé”, e che “la relazione segreta sulle stragi di Markale 2 ce l’aveva a casa, a Mosca”. Infine ha ammesso che “il rapporto non esiste”.
Ancora oggi mi capita, parlando con persone non coinvolte, di sentire che ”sì, però i musulmani si uccidevano da soli”.
La gente comune ripete quello che ha sentito o letto e – se non particolarmente interessata – non va a cercare la verità o a controllare. I politici, i fautori delle guerre, i capi nazionalisti, che insistono e ripetono falsità, si fidano della nostra ignoranza e pigrizia. Loro non lo fanno per ignoranza, ma per scopi ben precisi, descritti in passato da George Orwell: “Il linguaggio politico è progettato per rendere la bugia veritiera, l’omicidio rispettabile, e per dare al vento un aspetto solido”.