Italia | | Cooperazione
A GLI INIZI DI GIUGNO DEL 1992 COMPARVE SULL’UNITÀ UN EDITORIALE,DAL TITOLO: "MA DOVE STANNO I PACIFISTI?", IN CUI CI SI INTERROGAVA COME
MAI PER SARAJEVO – ALLORA ALL’INIZIO DI UN LUNGO ASSEDIO- NON C’ERANO STATE LESTESSE MANIFESTAZIONI CHE ERANO STATE ORGANIZZATE CONTRO LA GUERRA IN VIETNAM.
Don Tonino Bello aveva così risposto dalle colonne di un altro quotidiano, quelle de
L’Avvenire: "Non stanno nelle piazze: non saprebbero che fare dal momento che nonè identificabile un soggetto preciso contro cui prendersela, stavolta. Non stanno a far
chiasso in corteo: fatica sprecata, visto che certi clamori non si sa bene, in questo caso,chi dovrebbe ascoltarli … Voi lo sapete dove sono andati a finire i pacifisti. Li troverete
negli innumerevoli laboratori d’analisi in cui si smaschera la radice ultima di ogniguerra e quella ultimissima del suo archetipo di sangue: il potere del denaro. Li troverete
nei luoghi dove si formano le nuove generazioni a compitare le letture sovversivedella pace, facendo loro capire che i cannoni non tuonano mai amore di patria, ma sillabano
sempre in lettere di piombo la suprema ragione dell’oro. Li troverete là dovesi coscientizza la gente sulle strategie della nonviolenza attiva e la si educa a vivere
in una comunità senza frontiere e senza eserciti. Li troverete là dove, scoprendo tuttal’impostura dell’antico mito della città che si fonda sul sangue, si mostra che invece
è possibile fondarla sulla solidarietà…".
20.000 VOLONTARI
Molti pacifisti erano – ai tempi dell’editoriale de l’Unità – già in Jugoslavia a fiancodelle vittime della guerra. Nell’ex Jugoslavia le iniziative di volontariato, le esperienze
di diplomazia popolare dal basso, l’azione umanitaria e il sostegno alle forze democratichee non nazionaliste sono state molte diffuse sin dall’inizio, come in nessun altro
conflitto. I numeri lo testimoniano. Diverse fonti (Ics-Consorzio Italiano di Solidarietà,Agesci, Forum del Terzo Settore) concordano nello stimare in almeno 20.000 i volontari,
gli operatori umanitari e in generale i civili che si sono recati nelle aree della exJugoslavia per realizzare interventi umanitari, di interposizione e di cooperazione. E
sono stati, in base a queste stime, almeno oltre 1.200 le associazioni, i gruppi grandie piccoli, le parrocchie, le scuole, i comitati spontanei che si sono mobilitati per la solidarietà con le aree colpite dal conflitto. E per l’accoglienza diretta ai profughi: più di
5.000 in Italia, più di 45.000 nelle aree di conflitto. Analogamente si possono fare stime così significative anche per gli enti locali e, a alla luce dei dati accumulati fino ad oggi,si può realisticamente affermare (si tratta anche in questo caso di una stima prudente)
che in questa esperienza di intervento umanitario e di cooperazione con l’Europacentrale, orientale e balcanica siano stati coinvolti non meno di 1.000 enti locali.
IL PACIFISMO CONCRETO
Si potrebbero citare, a fianco delle mobilitazioni umanitarie, le tante iniziative politiche
e pacifiste promosse con alterni risultati: la "Carovana della pace" da Trieste aSarajevo (settembre 1991), la "marcia dei 500" a Sarajevo (dicembre ’92) e "Time for
peace" in tutti i territori jugoslavi (dicembre ’92), Mir Sada (agosto ’93), "Tre città, unapace" (dicembre ’93) … e tante altre. E poi le manifestazioni in Italia: a Trieste nel giugno
del ’91, il corteo da Ancona a Falconara nell’aprile del ’93 e la marcia Perugia-Assisinel settembre ’93, "mille giorni bastano!" a Roma per i mille giorni di assedio di Sarajevo
nel dicembre del 1994 e poi nel luglio del ’95, manifestazioni e cortei in 50 città italianecontro le stragi di Srbrenica e Zepa. E poi, recentemente: le manifestazioni a Roma,
Aviano, da Perugia ad Assisi nel 1999 contro l’intervento della Nato in Kosovo.
Ma la novità del pacifismo di fronte al dramma jugoslavo si è manifestato "sulcampo". Il lavoro pacifista e di volontariato è stato uno strumento per conquistare la
fiducia delle comunità coinvolte nel conflitto e per ristabilire dei ponti di dialogo, esercitando un ruolo di pacificazione concreto e sul campo. Ha detto Alex Langer: "I pacifisti, anzi, sono più presenti che mai nel conflitto jugoslavo. Con meno tifo e meno bandiere, meno slogan e meno manifestazioni, ma con un’infinita quantità di visite, scambi,aiuti, gemellaggi, carovane di pace e quant’altro. Un pacifismo (finalmente!) meno gridato, ma assai più solido e concreto. Il che vuol dire anche più complicato, perchéla vita è complicata, e la pace non si ottiene per vie semplicistiche: né con il sostegno unilaterale alle parti ritenute ‘buone’, e neanche con l’idea che un massiccio interventoarmato esterno potrebbe pacificare la regione".
E fu nell’ambito del sostegno concreto alle alternative democratiche che fu promosso
dall’Associazione per la pace e dall’Arci nel maggio del 1995 a Perugia un incontrotra Milorad Dodik, presidente del gruppo di 11 parlamentari serbi indipendenti
del Parlamento di Pale che si opponevano a Karadzic e Sejfudin Tokic, leader dei social-democratici bosniaci all’opposizione di Izetbegovic. Fu firmato un documento comunea favore della Bosnia multietnica, ma come ricorda Stefano Bianchini: "l’evento fu ignorato dalla stampa e i partecipanti invitati dal mondo politico ad "adeguarsi" allarealtà". Come al solito i pacifisti sostenevano le forze democratiche e l’occidente trattava con le leadership nazionaliste.
Quella dei volontari è stata la più vasta mobilitazione pacifista e umanitaria internazionale realizzata dal tessuto della società civile e degli enti locali negli ultimi anniche – pur concentrata in gran parte nella fase dell’emergenza bellica con l’invio degli aiuti e l’assistenza ai profughi – ha avuto un significativo prolungamento nella fase dellaricostruzione e ora della cooperazione.
GLI INSEGNAMENTI
Nel corso di questi anni abbiamo imparato che le guerre jugoslave parlano di noi, delle contraddizioni irrisolte della costruzione dell’Europa e del processo di integrazione, della crisi dello Stato nazionale e del nazionalismo come risposta alla modernizzazione, dei valori conclamati (convivenza, multietnicità, solidarietà) da un’Europache li ha sistematicamente traditi a Sarajevo, Belgrado, Pristina. Nel corso di questa esperienza società civile ed enti locali hanno maturato, in condizioni drammatiche di guerra, non solo una approfondita conoscenza dei territori dovehanno iniziato ad operare, ma anche acquisito nuove metodologie e approcci originali
di intervento rispetto ad un’area dalle dinamiche politiche, sociali e culturali complesse.
Da subito – anche nel corso degli interventi di emergenza e di invio di aiuti nellaprima metà degli anni ’90 – l’approccio culturale e le metodologie operative utilizzate hanno teso a sostenere e a valorizzare il tessuto sociale e comunitario, la società civilelacerata dal conflitto, le forze che si opponevano al nazionalismo. Infatti in un conflitto che aveva tra i suoi obiettivi la pulizia etnica, la rottura della convivenza (colpendo adesempio le città simbolo della multietnicità come Mostar e Sarajevo), la distruzione del tessuto comunitario interetnico era necessario difendere le isole di resistenza a questafolle logica bellica e nazionalista: fu questa la ragione del sostegno a situazioni così diverse come la città multietnica di Tuzla in Bosnia, il sistema dei media indipendenti in tutte le aree della ex Jugoslavia, le esperienze di incontro e cooperazione multietnica (forse
l’unica insieme a quella dei giornalisti) delle donne di tutte le repubbliche jugoslave.
Inoltre la "crisi jugoslava", dopo la drammatica fase postbellica, ha evidenziatonell’esperienza della società civile e degli enti locali l’affinamento di metodologie e approcci legati ad una fase dell’intervento che si situa tra l’emergenza e la cooperazione,quello del post conflict o del peace building (cosa diversa dalla ricostruzione in senso stretto) che è particolarmente importante per costruire le condizioni di cooperazionee di sviluppo in territori colpiti da conflitti etnici dove sono state divise le comunità, è stato lacerato il tessuto sociale, sono state ferite le istituzioni democratiche.
SVILUPPO UMANO E SOCIALE
È per questi motivi che la cooperazione della società civile e degli enti locali può avere un ruolo importante e strategico, se adeguatamente sostenuta e valorizzata dalle istituzioni nazionali ed internazionali. Così finora non è stato. Nell’elaborazione delleorganizzazioni della società civile e degli enti locali è stata in questi ultimi mesi ripetutamente criticata l’impostazione di una strategia sulla ricostruzione fondata preva-lentementesugli interventi di natura invasiva rivolti agli aspetti materiali infrastrutturali, lasciando sullo sfondo la priorità della ricostruzione sociale, civile e democratica delle aree interessate. Nonostante gli organismi comunitari ed internazionali, ed anche istituzioni come Banca Mondiale e FMI abbiano sostenuto a parole l’importanza di investire sullo "sviluppo umano" e sociale, nella pratica ben pochi soldi sono stati spesi per questo proposito: l’ingente massa delle risorse è stata indirizzata alle infrastrutture, alsostegno del mercato, allo sviluppo delle vie di comunicazione. La cornice dei programmi del Patto di Stabilità evidenzia un assoluto ritardo nel sostenere progetti e interventi nella direzione dello sviluppo umano e sociale. Lo stessovale per l’Italia che ha destinato solo il 25% (nominale, perché in realtà le somme
effettivamente stanziate sono la metà di quelle dichiarate e promesse) dell’intera sommaper i progetti del Patto (304 miliardi a marzo del 2001) ai progetti del Tavolo 1 (sulla democratizzazione e i diritti umani), mentre tutto il resto è andato a sostenereprogetti su vie di comunicazione, infrastrutture e – in minima parte – alla ripresa delle attività produttive. È evidente che in questo contesto istituzionale di investimento marginale a favoredell’intervento per lo sviluppo umano e sociale, le organizzazioni della società civile si sono mosse con scarsità di mezzi, affidandosi a strategie di progettualità, in parteautosostenute, fondate sulle relazioni e cooperazione tra comunità. Il tema è proprio questo: come sostenere una strategia -che pacifisti, volontari e comunità locali hannocercato di promuovere- della ricostruzione fondata sullo sviluppo umano e sociale e non sugli interessi degli interventi economici privati o sulla miopia dei grandi donatori inter-nazionali e delle politiche neoliberiste delle istituzioni finanziarie internazionali.
SOCIETÀ CIVILE ED ENTI LOCALI AL LAVORO
Organizzazioni della società civile ed enti locali hanno individuato nel corso diquesta esperienza di cooperazione e di intervento umanitario con i paesi colpiti dai conflitti e dalle tensioni interetniche nell’Europa centrale, orientale e balcanica, alcunedirettrici fondamentali del proprio impegno che hanno ispirato gli interventi concreti realizzati e quelli in via di progettazione.
Tra questi vanno ricordati il sostegno alle democrazie locali e alle società civilicon programmi specifici di gemellaggio, cooperazione decentrata, formazione degli amministratori locali, sviluppo di reti di protezione e di rafforzamento del tessuto civile e democratico, attraverso il sostegno alle associazioni e ai media. In secondo luogova evidenziato l’impatto strategico dell’investimento sulla formazione, gli scambi culturali e la cooperazione universitaria, come antidoto a ogni tentazione di chiusurae nazionalista, come costruzione di opportunità di lavoro. In questo senso la sperimentazione di forme originali di economia locale e sociale che aiutino la coesione diun tessuto comunitario lacerato, il potenziamento dei servizi alla comunità e il welfare distrutto dalle politiche degli anni ’90, uno sviluppo economico "labour intensive" inpaesi di crescente disoccupazione, diventa un obiettivo di fondo: aiuto al terzo settore, alle imprese sociali e di tipo cooperativo e al microcredito sono i programmi già avviatie da potenziare. Nel sostegno di un intervento a forte tasso sociale e comunitario, centrale è l’intervento a favore della tutela dell’ambiente. Infatti questo da una parterisponde all’esigenza di sanare le gravi ferite prodotte dalle guerre con la devastazione
del territorio, dall’altra può avere un impatto di tipo integrativo e di sviluppointegrato con alcune attività economiche. Va infine ricordato che gli obiettivi dell’intervento delle organizzazioni della
società civile e degli enti locali non sono dissimili da quelli prevalentemente solo dichiarati dalle istituzioni della comunità internazionale: sviluppo e cooperazione economicaintegrazione europea e transbalcanica, sostegno alla democratizzazione e promozione dei diritti umani, la pace e la sicurezza e – questione ancora irrisolta – una stabilizzazionedell’area che riconosca il principio della convivenza multietnica con il ritorno dei profughi alle loro case: problema che interessa ancora 2.000.000 di persone di tuttala ex Jugoslavia. Come ricorda il Dossier sulla ricostruzione dei Balcani elaborato dall’ICS "… Ci sono tanti progetti che potrebbero essere approvati e sviluppati e che sarebbero simbolicamenteimportanti: un progetto sul modello Erasmus per far circolare 50.000 giovani "da e per" i Balcani; un programma generalizzato di microcredito per sostenere l’economiasociale e le nuove micro-imprese in campo agricolo e ambientale; un pro-gramma
di institutional building per 500 municipi di tutte le aree per gemellaggi e formazioneamministrativa; un piano straordinario che faccia del Danubio un’arteria di commerci, di trasmissione di culture e di incontro per i sette paesi di quest’area, un pianoper far rientrare già nel 2001-2002, 20.000 profughi serbi in Krajina, sviluppando in questo modo un’area depressa a ridosso dell’Adriatico…" .
Esempi e idee non mancano. Naturalmente istituzioni internazionali, comunitarie e nazionali devono essere convinte della giustezza di una strategia unitaria – nonseparando mai ricostruzione economica, democratizzazione, pacificazione e sviluppo sociale – per sradicare il nazionalismo e ricostruire la pace nella regione, evitando glierrori fatti in questi anni.
© ICS – Osservatorio sui Balcani