Agricoltura biologica in Turchia

L’agricoltura biologica in Turchia costituisce solo l’1,6% della coltivazione complessiva del Paese ed è indirizzata prevalentemente all’esportazione. Molto però sta cambiando e sempre di più sono quelli che si attivano per conservare la biodiversità del Paese

07/03/2012, Fazıla Mat - Istanbul

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(flickr - melancholy rose)

L’agricoltura è sempre stata una risorsa economica fondamentale per la Turchia, composta da sette regioni con climi, condizioni naturali diversi e una ricca varietà biologica. Sebbene da diversi decenni l’economia del Paese si sia orientata principalmente verso il settore industriale e quello dei servizi, la Turchia è tutt’ora collocata al settimo posto nella produzione agricola mondiale. Il settore primario, che conta per l’8,3% del PIL, impiega il 24% della popolazione attiva del Paese, mentre il 30% degli oltre 74 milioni di abitanti vive nelle campagne (TÜİK 2010 ).

Un’agricoltura frammentata

Tuttavia, il settore primario turco non è riuscito a beneficiare della generale crescita economica del Paese registrata nell’ultimo decennio. L’agricoltura è essenzialmente caratterizzata da attività a gestione familiare di sostentamento o semi-sostentamento in terreni che risultano particolarmente frammentati, anche a causa della legge sulla divisione ereditaria degli immobili. Basti pensare che su una superficie agricola complessiva di 26 milioni di ettari, solo una piccola percentuale di appezzamenti coltivati risulta superiore ai 5 ettari. Inoltre, fattori come la mancanza di una forte politica e strategia nazionale di sviluppo per il settore primario, il basso livello di istruzione delle popolazioni rurali, l’isolamento e le difficoltà per i piccoli agricoltori ad accedere alle risorse finanziarie per sopravvivere alla competizione delle grandi aziende agricole, hanno causato negli anni l’abbandono dell’attività da parte di numerosi coltivatori.

La sfida bio

Un’inversione di tendenza all’interno del quadro agricolo del Paese deriva però dal settore biologico, ancora marginale ma che negli ultimi anni sta attirando un gruppo sempre più vasto di coltivatori. L’agricoltura biologica costituisce solo l’1,6% della coltivazione complessiva del Paese, ma negli ultimi venti anni ha visto moltiplicare notevolmente il numero degli agricoltori impegnati in questo campo, diventati dai 313 del 1990 ai 42.097 attuali. Le varietà coltivate sono salite da 8 a 216 e le aree utilizzate per la coltura, estese da 1.037 a 383.782 ettari (TÜGEM 2011).

Le politiche agricole del governo a favore della coltivazione biologica (con sovvenzioni o riduzioni del tasso di interesse dei crediti), l’attivismo di alcune ONG, e l’introduzione di corsi specifici nelle università, operano a sostegno di questa tendenza. E se la regione leader in questo campo è sempre stata la zona dell’Egeo, nuove iniziative stanno nascendo dalle aree orientali della Turchia, più povere e arretrate, ma anche più incontaminate e maggiormente adatte ad una coltivazione “ecologica”.

La qualità biologica è destinata all’estero

Avviata a metà degli anni ottanta per rispondere ad una domanda dei mercati europei e orientata sin dall’inizio all’esportazione, la coltivazione biologica in Turchia è ancora oggi destinata per l’85% ai mercati esteri. Il modello normalmente adottato in questo ambito è una produzione a contratto, realizzata su ordinazione di società (soprattutto estere), che viene successivamente controllata e certificata da organizzazioni indipendenti (turche e straniere) accreditate dal ministero turco dell’Agricoltura e degli Affari Rurali (autorità locale competente in materia) e dall’Unione Europea. Negli anni ’90 le coltivazioni venivano effettuate sulla base delle normative dei Paesi committenti. In seguito, con la legge del 2004 e il suo regolamento di attuazione del 2005 la normativa turca è stata sostanzialmente uniformata a quella dell’UE, e anche l’ultimo regolamento del 2010 è stato aggiornato in considerazione delle modifiche apportate alla legislazione europea.

Uva passa, noci, nocciole, albicocche e fichi secchi, sono stati per lungo tempo gli unici prodotti biologici destinati all’esportazione. L’aumento negli anni del commercio dei prodotti bio ha portato a diversificare anche le specie biologiche coltivate, includendo i cereali, la vite, le coltivazioni orticole, il cotone, l’olio di oliva. Oggi il portafoglio dei prodotti biologici turchi conta anche alcuni prodotti trasformati (succhi e concentrati di frutta, marmellate, prodotti da forno, ecc.), ma la quota principale della produzione resta ancora legata alle coltivazioni tradizionali.

La diffusione del biologico nel Paese

Per quanto riguarda il mercato locale, invece, la strada da percorrere appare ancora lunga. E’ solo nel 1999 che il ministero dell’Agricoltura, le ONG e gli operatori del mercato si sono riuniti per la prima volta per valutare il modo di promuovere la domanda interna, che allo stato attuale sembra coinvolgere solo una ristretta fascia sociale con un potere d’acquisto medio-alto, più attenta ai temi dell’ambiente e della salute. L’ONG “Buğday” fondata da Victor Ananias, un pioniere dell’agricoltura biologica in Turchia scomparso prematuramente nel 2011, è particolarmente attiva nella diffusione di “mercati biologici popolari al 100%”, nella promozione di stili di vita ecologici e progetti di agriturismo come TUTUTA .

Un altro importante pioniere del settore biologico in Turchia è Nazmi Ilıcalı, un ex insegnante liceale e coltivatore di Erzurum, provincia orientale del Paese con un alto tasso di disoccupazione, un clima gelido ma un suolo fertile. Ilıcalı si è accostato per caso a questo tipo di agricoltura. Ne ha però appreso tutte le tecniche e le ha diffuse (non senza fatica) tra i coltivatori della provincia. E’ riuscito ad ottenere delle sovvenzioni dalle Nazioni Unite con cui ha coperto le spese per la certificazione dei prodotti degli agricoltori della sua provincia. I coltivatori, vedendo la differenza di guadagno ottenuto da un prodotto biologico, hanno iniziato a organizzarsi. Nel 2003 sotto la guida di Ilıcalı hanno fondato l’”Unione degli agricoltori e degli allevatori dell’Anatolia orientale” formato da 633 membri. Nel tempo l’Unione ha coinvolto 2000 associati, estendendo le proprie attività in 12 province orientali e sudorientali dove la produzione biologica è arrivata a coprire 200mila ettari di terreno. I principali acquirenti dei prodotti dell’Unione sono i mercatini del biologico, con la città di Istanbul in testa. Per diversi anni l’Unione ha prodotto per la Municipalità metropolitana di Istanbul il “pane popolare biologico” (un tipo di pane più economico) coltivando il grano e lavorandolo in una fabbrica costruita appositamente.

Lo scorso dicembre, sempre sotto la guida di Ilıcalı, è stata fondata la Federazione dei produttori di alimenti biologici sicuri (OGUF – Organik Güvenilir Gıda Üreticileri Federasyonu ) per fornire un supporto ai piccoli coltivatori biologici dall’acquisto degli input agricoli alla commercializzazione del prodotto finale perché, come si legge nella dichiarazione d’intenti della federazione “per risolvere i problemi dei singoli coltivatori è obbligatorio essere organizzati”.

Semi e brevetti

Lo sviluppo dell’agricoltura biologica in Turchia risulta però legato a un altro fattore che ad un livello superiore interessa tutti i coltivatori del Paese: la sopravvivenza dei semi “autoctoni”, la cui vendita è stata vietata a meno che non siano brevettate con la legge sull’agricoltura del 2006. 

Per il ministero dell’Agricoltura tale legge oltre a diminuire la dipendenza estera della Turchia nel rifornimento di semi, servirebbe a ristrutturare il settore aumentando la produzione locale. Sono di tutt’altro avviso i coltivatori e le associazioni agricole che vedono nella legge un invito rivolto alle società turche e straniere a monopolizzare i brevetti dei semi. Diversi studiosi denunciano infatti l’influenza esercitata da queste società sull’Unione turca dei coltivatori di semi (un ente pubblico) cui spetta gestire tutto il processo che riguarda il seme, dalla produzione all’ottenimento del brevetto fino alla commercializzazione.

Lo scambio di sementi per mantenere la biodiversità

Vietata la vendita dei semi non brevettati, gli agricoltori, le ONG, alcuni comuni e la OGUF hanno pensato di costituire delle reti di scambio di semi mirate a proteggere la varietà dei sapori tradizionali del Paese. E da qualche anno alcuni comuni organizzano delle sagre in cui gli agricoltori si scambiano semi conservati anche da decenni nelle loro cassapanche. In questo modo i produttori riescono ad avere semi diversi dai propri, ma anche a confrontare le proprie esperienze e discutere sui problemi comuni.

Organizzarsi e unirsi per riuscire a conservare la ricca biodiversità del Paese appare nel prossimo futuro come il traguardo più importante da raggiungere. Come scrisse Ananias, fondatore della ONG “Buğday”, “i semi buoni crescono sani solo quando vengono seminati con buone intenzioni”.

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