Aggressione dell’Ucraina, una guerra senza lieto fine

L’invasione di Putin è anche il risultato del fragile equilibrio che si è venuto a creare in Europa dopo il 1989. Secondo Paul D’Anieri, autore di "Ukraine and Russia: From Civilized Divorce to Uncivil War", si era su una “autostrada verso la guerra”. Nostra intervista

03/05/2022, Francesco Brusa -

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Soldato ucraino nei pressi di Irpin vicino a Kyiv© Kutsenko Volodymyr/Shutterstock

(Intervista raccolta il 22 aprile 2022)

A rileggerle oggi, le ultime pagine di Ukraine and Russia: From Civilized Divorce to Uncivil War (Cambridge University Press, 2019) di Paul D’Anieri rischiano di apparire quasi profetiche. "Senza aver raggiunto alcun accordo sull’architettura dell’ordine geopolitico europeo, siamo rimasti con la mera competizione [fra diverse politiche]", si dice con riferimento al conflitto del Donbass dalla cui analisi nasce il libro. "Vogliamo allo stesso tempo che la Russia sia soddisfatta di quanto ha ottenuto e che l’Ucraina rimanga indipendente nella sua integrità territoriale. Ma non è chiaro se entrambi questi obiettivi possano essere ottenuti".

Sono bastati pochi anni affinché questa contraddizione esplodesse: l’invasione su larga scala dell’Ucraina decisa da Vladimir Putin lo scorso febbraio rompe definitivamente quello che da tre decenni è infatti un equilibrio più precario di quanto possa apparire. Il collasso dell’Unione Sovietica e la conclusione della Guerra Fredda hanno portato, assieme a illusioni naive come quelle della “fine della Storia”, anche nuovi interrogativi rispetto alle relazioni internazionali fra potenze, al ruolo delle alleanze militari sul territorio europeo e al destino degli stati nati dalla fine dei comunismi sovietico e jugoslavo. Tutti interrogativi che oggi ci ritroviamo di fronte con ancora più urgenza di prima e con maggiore incertezza sulla risposte da dare. Con la consapevolezza, purtroppo, che quelle fornite sinora si sono rivelate sbagliate.

Ne abbiamo parlato con l’autore del libro e professore di Scienze Politiche presso l’University of California, Riverside, Paul D’Anieri.

Paul D’Anieri

Paul D’Anieri

Invasione dell’Ucraina da parte della Russia, 2022. Una guerra inevitabile?

Alla fine del mio libro avevo concluso dicendo che una guerra fra Russia e Ucraina non era certo "inevitabile" (e stavo parlando della guerra del 2014). Ma lo stesso può essere ripetuto oggi: la guerra non era inevitabile, fino al momento in cui Putin ha deciso di invadere, ma era da molto tempo che ci trovavamo su una autostrada ben larga che era diretta fino a qui.

Penso davvero che questa metafora sia pregnante: ci trovavamo a marciare su un’autostrada diretta verso la guerra, ma ciò non toglie che ci fossero tante piccole uscite che potevano comunque condurci a "qualcosa di diverso dalla guerra". Il problema è che per prendere una qualsiasi di queste "uscite" sarebbe stato necessario che almeno una delle parti in campo fosse disposta a fare delle concessioni. Ma così non è stato, perché la realtà è che ognuna delle parti in gioco si aspettava sempre che fosse l’altra parte a fare concessioni.

La Russia voleva che l’Ucraina accettasse il proprio dominio, così come voleva che l’Occidente accettasse una sua "possibilità di veto" implicita nelle dinamiche europee. Gli Stati Uniti dal canto loro volevano che la Russia accettasse di non essere più una grande potenza mondiale ma semplicemente una "nazione normale" con i suoi confini prestabiliti. E così via…

Dunque, direi che la guerra non era inevitabile ma certo era uno sviluppo possibile e anzi altamente probabile fin dalla conclusione della Guerra Fredda. Questo punto va sottolineato: ciò a cui stiamo assistendo non ha avuto inizio con l’allargamento a est della Nato – benché l’allargamento a est della Nato sia certamente un fattore- e non ha avuto inizio con l’Euromaidan del 2013/14 che, al contrario, potremmo considerare come una prima scintilla della guerra del Donbass… Si tratta di tutta una serie di passaggi, uno dopo l’altro, che ci hanno condotto fin qui. Ma è chiaro che la decisione ultima e definitiva è di Putin. Dobbiamo riconoscerlo: per quanto possiamo criticare le politiche degli Stati Uniti, della Nato o anche dell’Ucraina, chi ha deciso unilateralmente di invadere un paese vicino è la Russia.

Come mai le condizioni del post-guerra fredda erano così problematiche?

Torniamo dunque indietro al 1991: in Europa collassano l’Unione Sovietica e il comunismo, che sono due cose da tenere distinte. Le élite russe sembravano esprimere la tendenza a voler trasformare la Russia in un’entità che assomigliasse a una democrazia liberale; allo stesso tempo, però, la Russia (intesa come ex-Unione Sovietica) aveva perso una parte considerevole del territorio sotto il suo controllo. Non parlo solo delle 14 ex-repubbliche sovietiche, ma anche dell’intero "blocco est" sotto il patto di Varsavia.

Fin dal primo momento, all’interno della stessa Russia, c’era chi accettava questi cambiamenti e chi no. Durante il periodo degli anni ’90 la "fazione" che non accettava tali cambiamenti divenne sempre più asservita e dominante negli equilibri interni della nazione. Per come la vedo io, considerando a ritroso la storia, potremmo anzi dire che c’è stato solo un piccolo spiraglio di tempo in cui una piccola porzione delle élite russe ha veramente accettato l’indipendenza dell’Ucraina. Anche i membri dell’esecutivo di Eltsin – che generalmente vengono considerati "filo-occidentali" – affermavano sostanzialmente che Ucraina, Russia e Bielorussia avrebbero dovuto formare un unico blocco.

Guardiamo al quadro più ampio, ora. La Guerra Fredda era finita e la grande questione che si poneva era relativa a quale struttura geopolitica bisognasse costruire in Europa. In teoria, si sarebbero potute lasciare le cose nel modo in cui si trovavano. C’è infatti chi sosteneva che la Nato andasse smantellata e che non avesse più ragione d’esistere. Ma, prima che questo dibattito potesse andare molto lontano, ci furono due importanti accadimenti: la crisi della Jugoslavia, che mostrava la necessità di un’alleanza militare interstatale e che ha "rivitalizzato" il ruolo della Nato, e contestualmente il supporto della Russia alla Serbia di Milošević che io reputo il più grande []e strategico e morale della Russia. Tutto questo ha limitato il potenziale consenso per uno smantellamento della Nato, o comunque ha spinto tanti a credere che servisse un organismo di contenimento della Russia.

Al contempo, come accennavo, altre dinamiche si muovevano all’interno della Russia: non dimentichiamoci che nel 1993 ci fu un tentativo di colpo di stato e questo, agli occhi occidentali, dava l’impressione che la Russia non potesse diventare una democrazia compiuta. Ed ecco dunque la questione per l’Europa: se in Russia non ci fosse stata una democrazia, in che punto si sarebbe dovuto tracciare la "linea di separazione" fra democrazie e non-democrazie? Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca chiesero dunque di entrare a far parte della Nato e di entrare a far parte dell’Europa. A quel punto Nato e Unione Europa si sono affermate come unica credibile “strategia di mantenimento” della democrazia sul territorio europeo, postulando di fatto un’espansione graduale delle istituzioni democratiche di stampo europeo verso est.

Solo che la Nato si è allargata molto più in fretta, perché è molto più semplice entrare a far parte della Nato che mettere in atto riforme di stabilizzazione democratica che richiedono anni di lavoro. Ed è quello che è accaduto, con anche un certo grado di successo: dobbiamo dirci che l’ingresso degli stati dell’est nella Nato e poi magari successivamente nell’Ue ha certamente aiutato a consolidare dei regimi di democrazia liberale sul territorio europeo, con vari esempi problematici, chiaramente, fra cui Polonia e Ungheria.

Non c’erano altre vie percorribili verso la democrazia?

Nel 1989, c’erano a proposito dell’Europa due diverse ma in qualche modo convergenti visioni. Da una parte, il presidente Usa George Bush che parlava di una «Europa unita e libera» (whole and free, ndr); dall’altra, il leader russo Gorbachev concepiva l’Europa come «casa comune». Due visioni appunto simili, ma che certamente da parte statunitense associavano in modo implicito la parola "democrazia" al termine "liberale". Non necessariamente una concezione americana, ma anche sfumata verso il concetto di socialdemocrazia europea. Ma la nozione di Gorbachev era sicuramente più pluralistica, poiché includeva appunto anche una democrazia di stampo sovietico con il partito comunista che guidava la nazione.

Nel corso degli anni ’90, la Russia si è avviata a diventare un tipo di regime molto peculiare, di certo distante dalla concezione europea di democrazia: c’è chi parla di "democratura", di "democrazia sorvegliata", ecc.. Nel momento in cui Putin è arrivato al potere e ha iniziato a mettere in campo tutta una serie di forzature, l’idea di poter contare su una "casa comune" o in unico spazio geopolitico e di collaborazione democratica – nell’89 si parlava addirittura di una "casa comune" che andasse da Vancouver a Vladivostok – è diventata altamente problematica e nessuno di fatto ci credeva più.

Dal canto suo, Putin percepiva una grossa contraddizione nella politica occidentale non del tutto campata per aria, bisogna ammettere: l’Occidente, e gli Stati Uniti in particolare, insistono sul pluralismo a livello domestico mentre a livello internazionale si fanno promotori di valori universali. Putin e Xi Jinping sono invece all’opposto: insistono sul pluralismo a livello internazionale, ma a livello domestico ne tollerano davvero poco. Insomma, questa è una tensione radicale che alimenta le divisioni.

Le politiche degli Stati Uniti nei confronti della Russia sono cambiate molto nel corso del tempo…

Dai rapporti fra Clinton e Eltsin, all’"alleanza" fra George W. Bush e Putin nella "guerra al t[]e" fino ai tentativi del reset di Obama, è vero che le politiche statunitensi si sono differenziate nel tempo. Ma c’è stata sempre una certa coerenza di fondo: tutti questi leader – incluso Trump – sono arrivati al potere con la convinzione di dover mettere in campo una relazione positiva con la Russia e, nello specifico, con la figura che in quel momento si trovava a capo della Russia. C’è un famoso discorso di George W. Bush in cui racconta di aver guardato Putin negli occhi e di aver capito che il leader russo volesse "ciò che era buono per il proprio paese", sto parafrasando.

Insomma, che si trattasse di Gorbachev, di Eltsin o di Putin, aleggiava sempre la convinzione che a capo della Russia ci fosse qualcuno con cui potevamo fare affari. Ciononostante, le nostre politiche verso la Russia sono sempre state improntate in un modo per cui – nei momenti di innalzamento della tensione – i leader statunitensi tendono a prendere decisioni che sanno non essere decisioni gradite a Mosca: l’allargamento della Nato, la guerra in Iraq… Tutte scelte che hanno portato a un deterioramento nei rapporti con la Russia. Oppure lo scioglimento del trattato anti-missili balistici da parte di George W. Bush, che ha certamente irritato Putin.

Similmente durante l’amministrazione dello stesso Obama, che era convintamente devoto all’idea di implementare un "reset" dei rapporti con Mosca, ci fu la scelta di appoggiare la deposizione di Mu’ammar Gheddafi e io credo che non ci rendiamo conto di quanto la guerra in Libia fosse fonte di timore per Putin. O meglio, alcuni lo riconobbero fin troppo: John McCain a un certo punto scrisse un tweet dicendo: "Mr. Putin, le primavere arabe stanno venendo a prenderti". Insomma tutte queste scelte, lasciando perdere il giudizio su quanto potessero essere eticamente fondate, hanno certamente contribuito a una situazione in cui Putin avesse la percezione che, in ogni caso di disaccordo, gli Stati Uniti avrebbero deciso per conto loro. E questo accresceva il suo risentimento e la sua frustrazione.

E per quanto riguarda Biden?

Da un punto di vista strategico, per quanto ovviamente si possa dibattere su vari punti, credo che gli Stati Uniti e l’Europa si stiano muovendo tutto sommato bene. In primo luogo, la scelta di rendere pubbliche le informazioni dell’intelligence a gennaio e febbraio si è rivelata astuta, perché ha depotenziato il ruolo della propaganda e della disinformazione russe su quanto stava accadendo e ha dato all’Ucraina la possibilità di prepararsi in una certa misura.

Dopodiché, penso che si sia riusciti a trovare un buon equilibrio fra la necessità di non farsi coinvolgere direttamente nel conflitto e, allo stesso tempo, tener presente l’importanza della posta in gioco. Se la Russia dovesse vincere in maniera decisiva questa guerra, è chiaro che il futuro per l’Europa e per l’Occidente in generale sarebbe molto incerto e all’insegna di una permanente insicurezza. Insomma, non credo che non fare nulla fosse davvero un’opzione: pensiamo all’invasione giapponese della Manciuria, le guerre italiane in Africa, l’Anschluss da parte dei nazisti…

Ovviamente i paralleli storici sono da prendere con le pinze. Ma penso ci siano delle buone ragioni di credere che se la Russia dovesse vincere, questa guerra non sarebbe l’ultima (che sia da parte della Russia che da parte di altre nazioni). Per quanto riguarda gli Stati Uniti, al momento al Congresso c’è una sostanziale omogeneità di visioni sulla guerra. C’è una parte della destra, rappresentata nei media principalmente da Fox News, che è pro-Putin così come c’è una parte della sinistra radicale che magari non appoggia apertamente il leader russo ma è abbastanza accondiscendente con lui.

Si tratta però di posizioni davvero poco rappresentative. In questo momento, il dibattito non è se stiamo facendo troppo, ma se stiamo facendo troppo poco. Penso che, soprattutto dopo Bucha, ci sia un generale consenso sul fatto che non si possa permettere a Putin di vincere questa guerra anche se, allo stesso tempo, c’è la convinzione altrettanto forte che non si voglia scatenare la Terza Guerra Mondiale. Insomma, un bel dilemma.

Pensa non ci sia nessuna possibilità per un negoziato?

Prima o poi, dovrà esserci un negoziato. Credo che in questo momento non ci siamo vicini, perché le possibilità affinché si apra un negoziato e l’andamento di quest’ultimo dipendono soprattutto da cosa succede sul campo di battaglia. Più una parte prevale sull’altra, meno questa parte sarà disposta a negoziare e più alte saranno le sue richieste. Storicamente, tagliando un po’ con l’accetta, i negoziati si riescono a portare a termine o quando uno dei due eserciti è in netto vantaggio o quando il conflitto arriva a un punto di stallo talmente lungo che da entrambe le parti si fa strada la percezione che portare avanti la guerra non valga più la pena.

Ma queste situazioni possono durare davvero tanto tempo: pensiamo alla guerra in Donbass, o alla stessa Prima Guerra Mondiale. Tuttavia, per azzardare delle previsioni: se l’offensiva russa nell’est non dovesse avere successo, e magari le linee dell’avanzata si dovessero semplicemente muovere di pochi chilometri, si potrebbe immaginare che a quel punto entrambe le parti dovrebbero negoziare. In tal caso, credo che le questioni più difficili con cui avremmo a che fare sarebbero la neutralità dell’Ucraina (su cui però Zelensky ha già fatto delle concessioni) ma soprattutto sui territori che la Russia sta conquistando nel corso di questa guerra. In particolare, potrebbe rivelarsi molto problematica la questione della Crimea: dal punto di vista strategico la Crimea, assieme al corridoio che la connette al Donbass, è molto importante per la Russia. Ma allo stesso tempo può essere che l’Ucraina voglia rivendicarla. Quando parlo con le mie conoscenze in Ucraina mi segnalano che, dopo Bucha, c’è sempre una minore propensione a negoziare ed essere accomodanti.

Un ultimo elemento: parte dei negoziati riguarderà probabilmente la sospensione delle sanzioni occidentali e questo fa sì che l’Occidente debba giocare un ruolo negli accordi. Non dobbiamo dimenticarcelo. Anche per quanto riguarda il sostegno militare e l’invio di armi all’Ucraina: è difficile capire se azioni di questo tipo rappresentino o meno un ostacolo ai negoziati, è proprio difficile dire in questo momenti quali gesti possano favorire l’azione diplomatica. Certo, possiamo dire cosa non la favorisce: alcune sconsiderate uscite pubbliche di Biden.

Torniamo al 2014, una data che ha cambiato tante cose nei rapporti fra Europa, Ucraina e Russia. In che modo dal suo punto di vista?

È come se in quel momento l’Unione Europea fosse stata travolta dal suo stesso impeto per il proprio allargamento. Una volta che sono entrate nell’Ue Romania, le repubbliche baltiche e la Polonia, si è fatta pressante la questione di cosa fare con il proprio "vicinato", non solo l’Ucraina ma anche i Balcani. Si è sviluppata una politica molto "sensibile" ed equilibrista: da un parte l’ingresso dell’Ucraina non era certamente in programma, ma dall’altra non si poneva neanche un divieto netto. Il problema era che con l’Ucraina ci si metteva in frizione con le ambizioni russe.

Perciò, in maniera a mio modo di vedere "delicata" si decise per offrire un accordo di cooperazione commerciale. Questa rivalità da natura geo-economica divenne più tardi una rivalità di natura geopolitica. Mentre l’Unione Europea si mostrava molto conciliante nel tenere in considerazione le richieste e le preoccupazioni russe, d’altra parte è stata risolutamente inflessibile nel tener saldo il principio per cui nessun paese poteva porre un veto sulle decisioni di politica estera di qualche altra nazione, in questo caso, dunque, la Russia con l’Ucraina. D’altronde, si tratta di una delle premesse fondanti dell’Unione Europea.

Ovviamente una tale "rivalità" esisteva anche prima del 2014, ma in quel momento Putin si sentiva tranquillo perché vedeva nel presidente ucraino Janukovich un alleato. Le elezioni del 2010 in cui venne eletto tra l’altro furono del tutto libere e regolari ma in breve tempo Janukovich iniziò a mettere in atto politiche di forte accentramento del potere, un po’ sul modello dell’autoritarismo di Putin. Ora, la mancata sottoscrizione dell’accordo di associazione all’Ue ha dato il via alle proteste dell’Euromaidan che furono viste da parte di Putin, in sostanza, come un "tradimento" dell’Occidente e da lì ha colto l’occasione per l’invasione della Crimea e per la destabilizzazione del Donbass.

Insomma, nel 2014 sono arrivate a scontarsi in modo feroce, da una parte, la percezione di Putin per cui la Russia è una potenza imperiale che ha tutto il diritto di esercitare una pressione sulle propria sfera d’influenza e, dall’altra, il principio europeo per cui invece nessun paese può porre un veto alle decisioni di un paese terzo.

Quale fu la reazione dell’Europa in quel contesto?

In quel momento, la priorità assoluta dell’Europa fu raggiungere un cessate il fuoco per poi vedere cosa sarebbe accaduto in seguito. Una risposta, devo dire, in pieno stile europeo tesa a smorzare il conflitto e a scongiurare un’escalation, per quanto questo lasciasse le controversie più grosse tutte da risolvere dopo. Credo anzi che fosse la strategia migliore da perseguire. Forse aver messo in campo delle maggiori sanzioni avrebbe potuto prevenire questa ultima guerra, ma la linea adottata all’epoca fu appunto quella di coinvolgere la Russia in un dialogo e nei tentativi di negoziato.

L’idea di base era: congeliamo il conflitto – che non si è mai realmente congelato, ma ci è andato vicino – e speriamo che qualcosa di buono accada, magari che Putin non sia più al potere, cosa che chiaramente non garantisce che ci sarebbero state delle condizioni di maggiore cooperazione. Dall’altra parte, però, pure Putin stava mettendo in campo una strategia simile: mantenendo attivo il conflitto, aspettava che le sanzioni si allentassero magari anche grazie all’elezione di leader a lui vicini in Europa. Me per lui la situazione non era per nulla negativa: riusciva ad avere sotto il suo controllo Crimea e Donbass, attraverso cui poteva esercitare pressione sul governo di Kyiv ma allo stesso tempo c’era un dialogo aperto con l’Ue e si portavano avanti i lavori per il North Stream 2.

Per inciso, queste erano le ragioni per cui ero convinto che ora non avrebbe attaccato. Sul lungo periodo, la situazione che si era venuta a creare in Ucraina sarebbe andata a favorire la Russia.

In generale, lasciando da parte la decisione finale di Putin, quali sono per lei le maggiori responsabilità da parte di ciascun "attore" in campo nell’aver favorito l’inizio di questa guerra?

L’Ucraina ha sicuramente la responsabilità di non essere riuscita a mettere in campo riforme necessarie per la propria sicurezza. Non sto parlando solo dell’aspetto militare,
ma anche di quello economico: non ha mai sviluppato la stabilità necessaria per essere meno vulnerabile alla pressione russa. Fino al 2014, inoltre, la sua capacità militare era ridottissima, il che è anche uno dei motivi per cui ha fatto ricorso ai paramilitari.

La Germania, dal canto suo, ha adottato una strategia che si è rivelata fallimentare: l’idea che comprare il gas russo potesse ridurre l’instabilità in Europa credo fosse un grosso []e. Anche l’ingenuità, per non dire l’aperto filo-putinismo, di alcune forze politiche in alcuni stati non ha aiutato. Questo vale anche per parte della sinistra, che ha spesso opposto alla condanna dell’imperialismo statunitense una parallela accondiscendenza con quello russo.

Dalla parte degli Stati Uniti, credo che il più grande []e sia stata la guerra in Iraq. Quella decisione, oltre alla sua ingiustizia e ai problemi interni che ha creato, ha prodotto anche grandissimi danni alla reputazione degli Usa nel mondo e ha indebolito il rispetto nel diritto internazionale. Questo ha minato anche la nostra credibilità nei confronti dell’Unione Europea.

La Russia, semplicemente, non è mai riuscita ad accettare il fatto che l’Ucraina non vuole far parte della Russia. E farebbe meglio ad accettarlo, perché altrimenti non solo ci potrebbero essere guerre come quella in corso ma addirittura un genocidio. Al tempo degli zar, la lingua ucraina fu vietata. Poi ci fu l’Holodomor sotto Stalin, che ha ucciso milioni di ucraini, eppure l’Ucraina esiste ancora e vuole essere indipendente. Insomma, in tal senso, la Russia rischia di consacrarsi a una causa la cui unica conclusione logica è lo sterminio del popolo ucraino.

Questa guerra ci svela anche l’impotenza di istituzioni internazionali come l’Onu. Che cosa si dovrebbe riformare su quel piano?

Penso che, sfortunatamente, siamo ora molto lontani dalla possibilità di riequilibrare i rapporti internazionali e riformare le istituzioni che le regolano. Il punto è che per mettere in campo dei cambiamenti occorre che ci sia un accordo di fondo, o almeno un’idea comune, riguardo al tipo di mondo che vorremmo creare. E purtroppo non vedo nessuno spiraglio in questo senso.

L’Occidente continua a credere in alcuni dei suoi valori – democrazia, libertà d’espressione, ecc – come qualcosa di universale, mentre ci sono almeno due grandi potenze mondiali assieme ad altre più piccole che non la vedono allo stesso modo. Come riconciliare queste due prospettive? Da un punto di vista della realpolitik, possiamo accontentarci del fatto che ci sarà una battaglia di natura geopolitica per trovare un equilibrio fra Occidente, Russia e Cina. Forse questo porterà a una nuova spartizione in sfere d’influenza, ma non sono sicuro che qualcuno voglia questo.

Insomma, è difficile capire quali possano essere la basi per ridisegnare collettivamente gli equilibri mondiali. Per inciso, è precisamente quello che intende esprimere Putin con la decisione di avviare questa guerra: in pratica ci dice che le regole attuali non funzionano, sicuramente per lui non funzionano e quindi ha deciso di prendersi ciò che può con la forza. E questa potrebbe essere semplicemente la piega che prenderà il corso degli eventi ed è inutile dire che ci riserverà brutte sorprese.

Ho paura che non ci siano dei lieto fine possibili in questa storia. Forse, uno piccolo è rappresentato dalla capacità dell’Ucraina di resistere all’invasione. Ma questo ci lascerà in un mondo sempre più incentrato sul conflitto e sulla politica di potenza.

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