Adriatico: Venezia a tavola
Venezia è un fulcro imprescindibile nella storia adriatica, a partire dalla cucina. Ce lo racconta il nuovo libro di Luigi Divari, gran pescatore e conoscitore della laguna veneta, oltre che studioso e pittore: “Quattro risi. Piatti e storie di vecchia cucina veneziana”
Venezia è stata per secoli la capitale economica e culturale adriatica, perciò del suo potere e della sua aura tutto l’Adriatico riflette ancora oggi le vestigia. A oriente, da Muggia a Corfù s’incontrano decine di Leoni, con il libro chiuso o aperto, a seconda delle circostanze spaziali e temporali. Ma anche a occidente, da Ravenna a Bari, non mancano tracce della presenza veneziana, che siano colonne celebrative o chiese dedicate a San Marco.
Alle testimonianze artistiche e architettoniche esplicite s’associano quelle culturali immateriali meno appariscenti, per certi aspetti ancor più interessanti. Richiedono attenzione ed esperienza, perché meritano d’essere tutelate. A riguardo, quasi vent’anni fa l’Unesco ha redatto la “Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale”, sottoscritta dall’Italia nel 2007. Un patrimonio immateriale a cui ascrivere le tradizioni alimentari, di cui Venezia è un fulcro imprescindibile nella storia adriatica e più in generale del Mediterraneo orientale.
Diventa perciò doppiamente interessante il nuovo libro di Luigi Divari, gran pescatore e conoscitore della laguna veneta, oltre che studioso e pittore: “Quattro risi. Piatti e storie di vecchia cucina veneziana”, (Il Leggio , pp. 110, 22 €). Innanzitutto il titolo, che rimanda al detto popolare “Andemo a magnar quattro risi”, un invito rivolto a parenti o amici per andare a mangiare a casa propria, offrendo quel poco che c’è. In secondo luogo il duplice linguaggio, scritto e dipinto che è una cifra di tutti i libri di Divari. Le immagini degli ingredienti di terra e di mare, locali castraùre (cioè carciofi) o boreali bacalà, impreziosiscono ogni pagina del libro. Ma ancor più originali sono i frammenti di cocci di vecchie maioliche veneziane d’uso quotidiano. Sono frammenti di scodelle e piatti che un tempo si trovavano in abbondanza sui margini insulari della laguna, raccolti da collezionisti e appassionati, di cui si può ammirare un ampio campionario alla Ca’ d’Oro. Oggetti rustici, vecchi di quattro secoli, che Divari ha dipinto e utilizza come tracce inequivocabili della cultura alimentare veneziana, a partire proprio da ciò che si legge sul fondo di questi piatti: rosto, sope, brodo, risi, ma anche tripe, rane, rafioi, panada, pimvoli.
Attenzione, sono pietanze che risalgono alla prima metà del Novecento, ai tempi delle “Osterie veneziane”, raccontate da Elio Zorzi nella sua guida pubblicata per la prima volta nel 1928. A questo lavoro si rifanno anche le pagine dedicate a Venezia della prima Guida Gastronomica d’Italia del Touring, pubblicata nel 1931. In quegli anni, si legge sulla Guida, “Le conquiste della cucina francese si sono limitate però alle mense di lusso, più facilmente permeabili allo snobismo; la cucina veneziana genuina, quella schiettamente locale, ha invece conservate le sue caratteristiche essenziali, anche se molte della pietanze, che facevano la delizia del buon Goldoni, sono cadute in disuso”.
Anche Divari nella premessa riflette sui cambiamenti, anzi sugli stravolgimenti che hanno riguardato Venezia nell’ultimo secolo e lo fa a partire dalla citazione di Valerij Briusov, poeta russo che nel 1902 dà conto dei “prezzi esorbitanti per ogni sciocchezza” e al contempo della miseria in cui vivono gli operai, in una città che produce solo cose inutili, ad uso e consumo turistico. Una trasformazione rapida anche a tavola, tanto che alla presentazione della seconda edizione di “Osterie veneziane”, fatta nel 1967 da Alvise figlio dell’autore, si lamentava già la scomparsa delle usanze culinarie e dei locali storici, presenti quarant’anni prima.
Malgrado ciò non mancano documenti per ricostruire abitudini alimentari, anche in relazione allo storica consuetudine di stampare libri, compresi quelli di argomento culinario. Nei primi del Novecento nelle famiglie povere al centro della tavola, e poi della pancia, c’era la polenta, principalmente bianca; alta e dura per contadini e pescatori, bassa e morbida per i cittadini. Polenta da insaporire con pesci e carni povere o con cacciagioni altrettanto a buon mercato. Pésse quindi, fresco o salato, dato che di sale se ne produceva molto in laguna, utile anche per conservare a lungo cefali, anguille, menole, sgombri, tonno e sardine, cioè l’abbondante pescato locale. Ma dal nord per tre secoli in autunno e inverno arrivavano anche golette e brigantini, carichi di aringhe, salmone, bacalà e bertagnin. Va precisato che il primo, e più apprezzato, è in italiano lo stoccafisso, mentre il secondo è il baccalà. “El baccalà, in ogni maniera fatto, zé el megio pesce che se possi magnar, a mio gusto, massime in tempo de quaresima. El costa poco, massime per chi ga famegia numerosa”, scriveva Francesco Zorzi Muazzo nel Settecento.
Se del baccalà e dello stoccafisso in tanti hanno scritto, pochissimo si sa sulla cucina del “pesce” dei frati le gagiandre (tartarughe di mare) e su quello dei signori lo sturion, la cui carne “fu sin dalla remota antichità, e sin’ora pur anche conosciuta per la più preggiata, e buonissima fra qualunque altra di qualsiasi specie dei migliori pesci”. Ma Divari racconta anche di pesci e piatti poveri: sardèle in saor, molàme (cioè moscardini, polpi e seppie), galùme (cioè gasteropodi e bivalvi). Quasi dimenticata è pure la caccia in laguna e la cucina signorile e popolare di pennuti di decine di specie diverse, un tempo comunissimi nelle acque e sui banchi, che Divari dipinge e racconta. E poi storie di risi e bisi (riso e piselli), pomi di terra (patate), pomidori e peveroni “una gianda … che becca estremamente e bisogna aver un stomego forte per pararli zò”, scrivevano nel Settecento.
Non mancano pagine dedicate ai vini, nell’Ottocento principalmente trevisani e veronesi, ma anche foresti che da sempre arrivavano via mare. “Con i trabaccoli dei vini, dalla costa salentina erano saliti da tempo anche alcuni aspiranti osti, che, in qualche sestiere apersero la loro nuova attività scrivendo, sull’insegna dell’osteria, “Vini da Trani””. Commerci e consuetudini adriatiche che si rinnovano se, come qualcuno sostiene, bàcaro (nome generico dell’osteria veneziana), deriverebbe da “vin da bàcaro”, cioè un vino da far baldoria, a buon mercato, importato da Trani, dopo l’unità d’Italia, con il ridisegnarsi delle barriere doganali.
Venezia Serenissima! Venezia sapidissima!
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