Addio fabbrica: storie di vecchie fabbriche a Lubiana

La storia di dieci fabbriche slovene dalla prosperità al declino. Operai ed impiegati le raccontano nella suggestiva mostra "Addio fabbrica" inaugurata a fine giugno a Lubiana

01/08/2014, Luciano Panella -

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Una vecchia fabbrica slovena (Wikimedia Commons )

La storia di dieci importanti fabbriche slovene (come Rog, Dekorativna Ljubljana, Agrostroj) che dopo decenni di prosperità hanno imboccato la strada del declino, finendo con la chiusura. Dieci fabbriche raccontate dagli operai e dagli impiegati che ci hanno lavorato. E’ questo il tema della suggestiva mostra intitolata “Adijo tovarna” (addio fabbrica) inaugurata alla fine di giugno al "Mestni Muzej" di Lubiana, in collaborazione con il quotidiano Delo e l’Archivio Storico di Lubiana.

E’ una serie di “success stories” al contrario, fabbriche grandi e importanti che, a partire dai primi anni ’90, con l’indipendenza politica della Slovenia, si sono trovate a vivere tra difficoltà sempre maggiori, per finire con la chiusura, dopo un’agonia più o meno lunga. La mostra è all’aperto e i vari tabelloni dedicati alle singole realtà industriali si susseguono lungo una discesa, a ricordare, anche visivamente, un declino progressivo e inesorabile.

Ogni fabbrica è raccontata da chi ci ha lavorato. Minka, Tomaž, Radmila, Maria, Majda raccontano con passione i loro anni di lavoro in quelle che erano le grandi firme nell’economia slovena del dopoguerra, realtà che nei momenti d’oro arrivavano ad impiegare centinaia, a volte migliaia, di persone. Alcune di esse, come Rog, che produceva biciclette, vendevano molto anche all’estero dove erano conosciute e stimate, altre, come la tipografia Tiskarna Ljudske Pravice, conferivano a chi ci lavorava un prestigio notevole dovuto ad una lunga tradizione. Le paghe erano buone e i benefit numerosi, dall’assistenza medica alle vacanze.

Tomaž, Radmila e gli altri parlano con rimpianto di quello che è stato il “loro” lavoro, la “loro” fabbrica, con un senso di appartenenza ormai lontano dal mondo del lavoro contemporaneo fatto di precarietà, esternalizzazioni e contratti a termine, e dove anche i manager sono “a tempo”. Tutte queste realtà industriali davano infatti, a chi ci lavorava, un senso di identità e di appartenenza. Certo, i capi venivano scelti dal partito, ma erano in genere competenti, come ricordano gli ex dipendenti, e non si tiravano indietro se c’era da dare una mano in produzione, ben diversi dagli anonimi manager piazzati dall’esterno negli ultimi anni.

Ma questi ormai ex lavoratori condividono anche l’incapacità a darsi una spiegazione per quello che è successo alla “loro” fabbrica: spesso hanno l’impressione che si sarebbe potuto fare molto di più per limitare i danni o addirittura per salvarne alcune. A partire dai primi anni ’90 le storie si assomigliano tutte: prima gli stipendi pagati in ritardo, poi le riorganizzazioni interne, i cambi continui nel management, per finire con la chiusura, la delocalizzazione, il fallimento.

Nei vari racconti a volte aleggia un sospetto: che a un certo punto ci sia stata quasi la volontà precisa di chiudere queste realtà, in nome di interessi economici “superiori” o di calcoli speculativi. Qua e là emergono anche storie di avidità personale unite all’indifferenza delle istituzioni.

Il lavoro, purtroppo, non viene considerato cultura e al dissesto economico in tanti di questi casi si è anche accompagnata l’incuria: mobili e arredi buttati nelle discariche, attrezzature rubate, archivi storici distrutti. Ecco allora l’importanza della memoria e dei ricordi personali che il quotidiano Delo (che significa proprio “lavoro”) ha cominciato a raccogliere, raggruppando le storie personali per formare una storia collettiva.

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