Addio alle armi
L’Arsenale Sava Kovacevic, un tempo una delle più grandi basi della flotta jugoslava, chiude. E’ stato acquistato da una società registrata alle Barbados che ne farà una baia per yacht di lusso. Il futuro della marina nel nuovo Montenegro: nostro reportage
All’ingresso della base il busto di pietra di Sava Kovacevic ha un’aria smarrita. Contadino del Montenegro, il 13 giugno del ’43 morì nella gola della Sutjeska, portando alla vittoria i partigiani contro forze naziste dieci volte superiori. L’Arsenale di Tivat, una delle più grandi basi della marina jugoslava, nelle bocche di Cattaro, è dedicato a lui. Dal 3 giugno scorso però, proclamazione dell’indipendenza del Montenegro, molte cose stanno cambiando. La Serbia è rimasta senza il mare e la piccola repubblica adriatica, che ha ereditato l’intera flotta jugoslava rimasta con Belgrado negli anni ’90, ha deciso di mettere tutto in vendita. Compreso l’Arsenale Sava Kovacevic.
"A noi questa flotta non serve a niente", mi confida in un perfetto italiano l’ambasciatore Ljubisa Perovic, vice ministro della Difesa del Montenegro. "La nostra intenzione strategica è il turismo. Ormai abbiamo ottimi rapporti con i nostri vicini. Sia noi che Croazia, Albania e Bosnia Erzegovina abbiamo un futuro comune nella Nato."
"Al momento dell’indipendenza avevamo oltre 60 navi" – continua il colonnello Cedomir Marinovic, dello Stato Maggiore delle Forze Armate. "Ci terremo solo un fregata, due cannoniere e le navi per la ricerca e il soccorso in mare. Una fregata l’abbiamo già venduta all’Egitto, ci sono negoziati con lo Sri Lanka… Ma i battelli più vecchi li distruggiamo, oppure li vendiamo ai privati, nelle aste pubbliche.".
Il gioiello di famiglia, l’Arsenale di Tivat, costruito dagli Asburgo nel 1889, se ne è già andato. L’ha comprato una società offshore registrata alle Barbados, la P.M. Securities, presieduta dal miliardario canadese Peter Munk. L’idea di Munk, sostenuta dall’ex premier Milo Djukanovic, che ha firmato il contratto con il miliardario, è quella di trasformare i 24 ettari della base in una marina per yacht di lusso. Insieme agli approdi per gli yacht nasceranno alberghi, campi da golf e infrastrutture per i super ricchi. La cifra totale degli investimenti previsti nell’area di Tivat dovrebbe raggiungere i 500 milioni nei prossimi 3 anni. Praticamente la metà del prodotto interno lordo del Montenegro.
Per i lavoratori dell’Arsenale è iniziato il conto alla rovescia. Entro il mese di maggio saranno tutti licenziati. Sono rimasti in poco più di 400, degli oltre 2.000 che lavoravano qui negli anni ’80. Ma non sembrano stracciarsi le vesti. Un alto ufficiale della Marina ci chiarisce informalmente i termini della questione: "Qui lavorano 476 persone. Dopo che la base passerà a Peter Munk, i lavoratori accederanno ad un programma sociale e avranno una liquidazione in denaro. 500 euro per ogni anno lavorato più 24 o 36 mensilità, e fondi per acquistare un appartamento".
Le liquidazioni non sono niente male per un paese il cui salario medio si aggira intorno ai 300 euro mensili. Quelli che sembrano meno entusiasti sono i militari. Anche loro, entro la fine di aprile, dovranno sgomberare il campo per gli yacht privati, e trasferire armi e bagagli nel porto di Bar. I tagli, per esercito e marina, sono consistenti: "Al momento dell’indipendenza avevamo 6.600 soldati, tra Brigata di Podgorica e Marina da Guerra", ricorda ancora il colonnello Marinovic. "Dobbiamo ancora completare la nostra nuova strategia di difesa, ma in ogni caso contiamo di ridurre il numero delle truppe a circa 2.400 unità. La marina non avrà più di 400 uomini".
Il capitano di fregata Dragan Vujadinovic ci accompagna nell’Arsenale. Nato a Vukovar, è figlio di ufficiali. Il destino dei marinai in esubero ce lo spiega senza troppo entusiasmo: "Alcuni di noi hanno optato per entrare nell’esercito serbo. Altri, circa 800 persone, hanno perso il lavoro. Seguiranno un programma di riqualificazione per essere inseriti nel settore civile".
Saliamo sulla RF 33 "Kotor". Delle 4 fregate lanciarazzi, questa è l’unica che resterà al Montenegro. "Però dobbiamo disarmare, sia i razzi antinave che quelli antisommergibile, è una decisione del governo. Dalle cannoniere invece rimuoviamo i grossi calibri. Continuiamo a diminuire e ridurre, non so cosa resterà della nostra Marina. Per il momento non c’è nulla di chiaro, siamo come sospesi a mezz’aria."
Accanto alla fregata c’è un vecchio yacht anni ’70, di 35 metri. "Era lo yacht di Tito", mi dice Dejan, il vicecomandante. "La Jadranka ha esattamente trent’anni, e Tito c’è salito 24 volte. Senza Jovanka la moglie, ndr, nell’ultimo periodo non andavano molto d’accordo – ammicca. No, questo ce lo teniamo. E’ per la ricerca e il soccorso in mare. E poi non c’è prezzo, era lo yacht del compagno Tito, capisci?"
Sotto un grosso hangar c’è una delle motovedette lanciamissili che aspettano di essere consegnate alla marina egiziana. Ci lavorano operai e militari. "Dobbiamo finirla entro la fine di aprile", mi spiega un lavoratore, "perché poi qui chiude tutto". Al lavoro ci sono anche alcuni operai bosniaci. Erano lavoratori della Kosmos, di Banja Luka, una delle tante fabbriche d’armi della Bosnia Erzegovina. In Bosnia le cose non vanno molto bene, specie dopo che nel 2002 è emerso lo scandalo della vendita di armi all’Iraq in violazione dell’embargo, e la comunità internazionale ha bloccato tutte le fabbriche del settore. In attesa di tempi migliori, i lavoratori hanno ripreso a viaggiare nell'(ex) Paese, la loro competenza è sempre apprezzata.
Vicino alla motovedetta c’è un sottomarino mezzo smontato: "Quelli li facciamo a pezzi e li rivendiamo come ferro vecchio", mi dice Desimir, un marinaio croato.
La Jugoslavia era uno dei pochi paesi al mondo a costruire sottomarini. Alla fonda ci sono due minisommergibili d’assalto e il gigantesco Sava 831, realizzato nei cantieri di Spalato alla fine degli anni ’70. 830 tonnellate in superficie, 964 in immersione, è lungo più di 50 metri e scende a 300 metri di profondità. Il suo armamento comprende sei rampe lanciasiluri. Il portellone, sulla torretta, è chiuso con una catenella. In Italia non mi fiderei ad usarla per legarci la bici. Arriva un marinaio con la chiave, sale sullo scafo. Approfittando di un attimo di distrazione della nostra guida, mi avvicino timidamente: "Si può?". Il militare mi squadra diffidente, poi fa segno di seguirlo: "Se ci tieni entra pure, tanto è in vendita pure questo. Occhio solo a dove metti i piedi".
Sasa si muove velocemente giù per la torretta del periscopio e nei corridoi del battello. Mentre accende e spegne i motori, racconta la vita di bordo mostrando le cuccette che accoglievano un turno di marinai mentre gli altri due erano al lavoro. Ciclo continuo. Lo spazio non è molto, e le brande sono dappertutto. Una proprio in mezzo ai lanciasiluri. C’è anche lo spazio per la pausa tabacco: "Quando eravamo sotto, questo era l’unico modo per fumare", e mi fa il gesto della sigaretta accanto ai due polmoni che filtrano l’aria del diesel. Mi vien la claustrofobia solo a pensarci. Istriano, ha 45 anni. E’ uno dei marinai croati che nel ’91 avevano scelto di restare con la Jugoslavia. Per lui le prospettive non sono rosee. Une delle poche cose certe, infatti, è che la marina del Montenegro non avrà sommergibili. "Tra un mese e mezzo sono senza lavoro. Qui privatizzano tutto, questo diventa uno Stato privato. Ma di noi cosa ne sarà?"
Al Ministero della Difesa, a Podgorica, mi confermano che i sommergibili sono tutti in vendita: "Li vendiamo per farli rottamare", spiega il colonnello Marinovic. "Tre li abbiamo venduti alcune settimane fa, e in questo momento vengono smontati. Quelli che restano li mettiamo all’asta allo stesso modo. Il più caro è andato per 130.000 euro".
I sottomarini, in effetti, possono essere acquistati da chiunque. Anche da privati. Alla base mi dicono che uno dei tre, classe Sava, è stato portato via così com’era, con un rimorchiatore. L’acquirente sarebbe un cittadino turco. Il colonnello Marinovic ci tranquillizza: i tecnici dell’esercito provvederanno alla rottamazione in loco. Certo non deve essere stato facile per i marinai vederselo portare via così. Provo a chiedere al capitano Vujadinovic, ma non vuole commentare. Di fronte alle insistenze del giornalista ficcanaso ("Ma cosa se ne fa uno di un sommergibile?") cede solo un attimo: "Quando l’abbiamo visto uscire ci siamo fatti il segno della croce", mi dice tra i denti. E si segna.
Nel nuovo Montenegro, che ha abolito la naja il 30 agosto scorso, ci sono solo militari professionisti. Dinanzi alla chiusura della base i sentimenti sono contrastanti. "Nostalgia, certo, per questo Arsenale – ci dice un alto ufficiale che preferisce restare anonimo. Qui c’è la tradizione, ma il nostro è un piccolo Stato, penso anch’io che il nostro futuro sia il turismo. Io ero un ufficiale dell’esercito della Jugoslavia, e ho un buon ricordo di quel paese. I miei amici e colleghi sono in Croazia, Slovenia, Bosnia, è chiaro che abbiamo nostalgia per quei tempi. Ma non posso cambiare niente, non posso cambiare la storia. Vorrei che quel grande paese esistesse ancora, ma non è andata così. Forse l’Europa ci aiuterà a fare in modo che di nuovo non ci siano confini tra di noi. Ma solo l’Europa può farlo, noi da soli non possiamo. Sono successe troppe cose".
Una delle cose è successa qui vicino. Il 6 dicembre del 1991 Dubrovnik, solo pochi chilometri a nord di Cattaro, è stata bombardata da navi che provenivano proprio dai porti montenegrini. Per quei fatti il Tribunale dell’Aja ha condannato a 7 anni di reclusione il generale serbo Miodrag Jokic. Ma il Montenegro ha sempre cercato di distanziarsi dalle responsabilità per la guerra con la Croazia, perché la piccola repubblica non aveva potere decisionale all’interno dell’Unione con la Serbia di Milosevic. Questa posizione sembra ormai essere stata definitivamente accettata dai politici di Zagabria, specie dopo la vittoria degli indipendentisti a Podgorica. Il presidente del parlamento croato, Vladimir Seks, si è appena recato in Montenegro con una nutrita schiera di imprenditori interessati a far decollare le relazioni commerciali tra i due paesi. Potrebbe essere proprio il mercato la chiave di volta per superare i dissapori degli anni passati. Meglio concentrarsi da subito sulle relazioni amichevoli. E sul business. Il futuro, da queste parti, assomiglia a Peter Munk. O all’oligarca russo del Chelsea, Roman Abramovic, che ha già comprato una specie di castello poco lontano dall’Arsenale. Chissà cosa sta pensando l’eroe di Sutjeska.