A Novi Pazar il tessile non è più di moda

La scorsa primavera a Novi Pazar, Serbia sud-occidentale, un uomo si è tagliato volontariamente per protesta il mignolo della mano sinistra. E’ un ex dipendente della fabbrica pubblica di tessuti "Raška". Sullo sfondo il crollo di un intero settore e di una città che da esso dipendeva

29/07/2009, Redazione -

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(Tololy Tutunay/Flickr)

Di Vanessa Mermet e Stéphane Surprenant

Da Le Courrier des Balkans , 26 luglio 2009, (tit. orig. "Serbie : à Novi Pazar, le textile n’est plus à la mode")

A Novi Pazar, sud-ovest della Serbia, un operaio in sciopero della fame si è, con un gesto disperato, tagliato un dito il 24 aprile scorso.

Zoran Bulatović, in passato operaio dell’industria Raška, che produceva rotoli di tessuto, si è tagliato l’indice sinistro ed ha minacciato di mangiarlo. Lo ha fatto come gesto estremo di protesta per il mancato pagamento dei salari di 1400 ex impiegati, tra il 1993 e il 1996.

In sciopero della fame dallo scorso 16 aprile, assieme ad altri ex colleghi, Zoran Bulatović è stato portato all’ospedale. Per poi, dopo poco tempo, raggiungere di nuovo i compagni, rinchiusi in un locale del centro di Novi Pazar. Bulatović guida il Sindacato dei lavoratori del tessile della città, ed ha dichiarato che la sua lotta continuerà sino a quando non verrà resa loro giustizia. Ha sottolineato che in molti sono pronti a ripetere il suo gesto disperato se la situazione non si sbloccherà.
Novi Pazar, antica capitale del tessile serbo
Novi Pazar è un comune di 125.000 abitanti, a 270 chilometri a sud-est di Belgrado, circondato da colline verdeggianti. E’ la città più grande del Sangiaccato serbo. Questa regione, abitata per il 60% da bosgnacchi-musulmani e tenuta ai margini dal potere centrale, è un’eredità lasciata dal potere Ottomano. A dire il vero il Sangiaccato vero e proprio si trova ora diviso tra Serbia, Bosnia e Montenegro. In passato si trovava sulle rotte delle carovane – lo testimoniano vestigia del XVI secolo, tra le quali una moschea ed un hammam unici – ora però Novi Pazar è una città ai margini e colpita dalla disoccupazione. L’affondamento dell’industria tessile ha dato un duro colpo alla città.

Negli anni ’90 Novi Pazar era ancora il principale centro di produzione di jeans di tutto il Sud-est Europa. Attualmente il Sangiaccato serbo è una regione in grave crisi economica. Un quarto della forza lavoro è disoccupata, anche se la popolazione è molto giovane: il 45% degli abitanti di Novi Pazar ha meno di 29 anni. In centro città s’intravede qualche 4×4 ultimo modello sfrecciare nella polvere, sintomo di un’economia sotterranea. E l’industria Raška è divenuta il simbolo dell’asfissia economica dell’intera regione.

Era un’azienda pubblica, che è arrivata ad assumere 4000 persone, e che ha posto fine alla sua attività produttiva ufficialmente nel 1996. Di fatto però la produzione era terminata già nel 1993. Tutti i dipendenti sono stati licenziati, salvo qualche dozzina di quadri, che vengono ancora retribuiti nonostante l’assenza di lavoro. Ma 1400 operai – o meglio operaie, perché l’80% della forza lavoro era costituito da donne – non sono mai stati indennizzati per il periodo di lavoro che va dal 1993 al 1996, anche se ancora in quel periodo sotto contratto. Dopo molteplici processi i tribunali hanno stabilito che la Raška doveva versare tra gli 800.000 e i 1.500.000 dinari (8.000€ – 15.000€) a ciascuno di coloro i quali avevano chiamato in causa l’azienda.

Zoran Bulatović oggi ha 50 anni e lavorava alla mensa della fabbrica. Ha sporto denuncia contro lo Stato nel 1996 ed è allora che ha attuato un primo sciopero della fame di 4 giorni. Il sindacato da lui costituito, a cui hanno aderito molti dei suoi ex colleghi, ha ottenuto l’iscrizione della Raška nella lista delle società pubbliche da privatizzare con priorità, lista stabilita dall’Agenzia nazionale delle privatizzazioni. Sono tre o quattro le aziende del Sangiaccato inserite in questa lista.

Sforzi vani. Delusi dall’assenza di impegno dei responsabili, gli operai hanno manifestato a Belgrado nel 2006. Nel 2008 Zoran Bulatović avvia un nuovo sciopero della fame, durato 19 giorni prima di attirare l’attenzione dei media. Lui e i suoi compagni in quest’occasione prepararono anche 50 bottiglie molotov per dimostrare la loro disperazione. Hanno poi assicurato in un secondo momento di non avere mai intenzione di farne uso. Gli operai chiedevano il reinserimento della Raška nella lista delle imprese pubbliche da privatizzare e la vendita di alcuni terreni di proprietà dell’azienda. Risultato: 700 ex dipendenti ottennero un risarcimento, ma altri 1400 non ricevettero che una somma simbolica.
Nuovo movimento di protesta
Agli inizi dell’aprile 2009 Zoran Bulatović e i suoi compagni hanno pianificato nuove azioni. Questa volta vogliono che la questione della loro fabbrica figuri nell’ordine del giorno del successivo consiglio dei ministri. Il 16 aprile, un numero imprecisato di operai, avviano un nuovo sciopero della fame e il 24, disperato, Zoran Bulatović si taglia il mignolo della mano sinistra.

I giornali serbi gli hanno dato alternativamente dell’eroe e del pazzo, a lui però è bastato spiegare che un’altra ex operaia, Senada Rebranja, s’apprestava a fare lo stesso. Ed ha quindi deciso di auto mutilarsi per evitare che lo facesse la sua compagna di lotta. Ha inoltre considerato il fatto che l’impatto sarebbe stato maggiore dato che lui appartiene alla comunità serba, mentre lei è bosgnacca. "Se fossi stato bosgnacco, e avessi fatto un gesto simile, mi si sarebbe trattato come un t[]ista ed un nemico dello Stato!", ha affermato.

Il piccolo locale all’interno del quale gli scioperanti si sono rinchiusi è pieno di manifesti con slogan quali «Belgrado è corrotto con i soldi dei cittadini serbi, e noi non siamo in grado neppure di comperarci il pane!». Una saracinesca impedisce l’ingresso al locale anche se la porta è aperta. All’interno sono appese delle coperte, impossibile vedere gli scioperanti o contarli. Appoggiato allo stipite della porta, visibilmente indebolito, Zoran Bulatović rilancia: "Senza soldi si muore. E quando si è morti, non si ha bisogno di mangiare! E allora perché dovrebbero pagarci?".


Il sostegno della popolazione e dei politici
Poco fiduciosi, Zoran Bulatović e Senada Rebranja assicurano di essere pronti ad andare fino in fondo e "tagliarsi una ad una tutte le dita". Il loro movimento gode di molti appoggi. Sconosciuti hanno inviato loro molti messaggi di sostegno. Una ragazzina di 12 anni viene a far loro vista ogni giorno, per gli scioperanti incarna il sostegno della gioventù serba alla loro causa.

Zoran Bulatović ha inoltre ricevuto la visita di numerose personalità politiche. Rasim Ljaljić, ministro del Lavoro e degli Affari sociali, anche lui musulmano e originario di Novi Pazar, si è recato da lui per informarsi direttamente sulle sue condizioni di salute, affermando di essere là "come uomo inquieto". "Per la prima volta nella mia vita ho incontrato un uomo politico che ha del cuore", ha affermato Bulatović. Gli hanno fatto visita anche Tomislav Nikolić e Aleksandar Vučić, rispettivamente presidente e vice-presidente del Partito progressista serbo.

Queste visite individuali sono rimaste senza conseguenze pratiche. Ma questo poco importa: è da tempo che il movimento degli ex dipendenti della Raška non conta più sui partiti politici o sui sindacati. Ciascuno di loro ha infatti già provato esclusivamente di capitalizzare la loro protesta sul piano politico. Di conseguenza gli ex operai se ne tengono il più lontano possibile.

Gli scioperanti chiedono la privatizzazione parziale o totale della Raška o, perlomeno, la vendita di parte dei suoi terreni e installazioni. A spese del rilancio dell’azienda, quest’ultima opzione permetterebbe almeno di reperire le somme necessarie all’indennizzo degli ex dipendenti. Il problema è che semplicemente non vi è nessuno interessato all’acquisto.
Quali soluzioni per pagare gli arretrati?
In una conferenza stampa tenutasi presso il municipio di Novi Pazar, Mirsad Jusufović, coordinatore dei fondi per lo sviluppo economico della città ha riassunto così la situazione: "A Novi Pazar nessuna azienda è stata privatizzata in modo adeguato. Non esistono investitori stranieri interessati. La sopravvivenza della città è stata assicurata negli anni ’90 dalle industrie tessili private che producevano copie degli indumenti di grandi firme. Si potevano trovare dei Levi’s per 10 euro. Queste aziende hanno cessato da tempo di fare contraffazione; si sono registrate presso le autorità ed hanno iniziato a produrre con loro marchi. Purtroppo, dopo alcuni anni positivi, sono arrivati i cinesi … ". Alcune di queste aziende stanno tentando di riconvertirsi nella produzione di mobili. Ma l’attuale crisi economica ha messo in ginocchio l’intero paese.

"Occorre fare pressione sui politici, affinché temano di perdere le loro poltrone. E’ il solo modo per far muovere le cose", martella l’uomo che si è tagliato un dito a sangue freddo. Ciononostante è difficile che la soluzione al problema arrivi dal governo. Perché le casse, a Belgrado, sono vuote a tal punto che è stata decretata una diminuzione del 40% dei salari di tutti i dipendenti pubblici. Questa misura draconiana, per far fronte alla crisi economica, è entrata in vigore il primo maggio 2009. Un buon numero di analisti ritiene ciononostante che se il Sangiaccato non figura tra le priorità di Belgrado, è soprattutto perché la maggior parte di chi vi abita è di religione musulmana. A Novi Pazar rappresentano l’85% della popolazione.

Radoljub Tomović, anche lui un ex dipendente della Raška, ha 58 anni. Ferito ad una mano, non ha praticamente alcun mezzo di sussistenza, perché non esiste alcun indennizzo per i portatori d’handicap. Sopravvive grazie a piccoli lavori nell’edilizia. Come molti disoccupati di Novi Pazar vive un po’ di economia informale, e molto dei soldi inviati dall’estero da parte di chi è riuscito ad emigrare. Perché, e non è certo una sorpresa, la maggior parte dei giovani del Sangiaccato sogna di andarsene.

Con nostalgia Radoljub Tomović evoca i suoi ricordi davanti alla grande fabbrica in abbandono. All’interno alcuni macchinari arrugginiscono nell’immondizia. Dipinte sulle mura sono leggibili ancora vecchie scritte d’epoca jugoslava. L’azienda Brug, che produce jeans, occupa da più anni una parte dei locali ella Raška. "Se qualche azienda tessile vivacchia ancora è perché i salari sono ben più modesti di tempo fa", sospira Radoljub Tomović.

Al municipio di Novi Pazar – dove è installato il pannello con la scritta « Stop ala corruzione », proprio al fianco dell’entrata – Esko Nicević, coordinatore comunale per la cooperazione con i sindacati spiega che è in piena legalità che la Brug utilizza parte dei locali della Raška. Quest’ultima, a fronte dei forti debiti nei confronti della Brug, non ha esitato ad ipotecare i propri locali. Si tratta quindi di diritti di un creditore, e questo non fa che complicare un’eventuale privatizzazione.

Cosa fare? Secondo Esko Nicević esistono più scenari possibili. Il nuovo gruppo di persone incaricato dal comune di analizzare la situazione sta studiando la possibilità di utilizzare le caldaie della Raška per la rete municipale, visto che molti edifici residenziali stanno sorgendo non molto lontani dall’azienda. Ma nessun finanziamento del progetto si profila all’orizzonte. Per quanto riguarda la privatizzazione della Raška, quest’ultima implicherebbe un ricollocamento della Brug, che esigerebbe in cambio sicuramente degli indennizzi. Sembra non resti che suddividere i terreni dell’azienda per rivenderli loto a lotto. Ma a chi?

In attesa Zoran Bulatović ribadisce che lui e i suoi compagni non stanno facendo politica. Ciò che vogliono è solo ottenere giustizia, il rispetto dei loro diritti e i mezzi per sostenere i loro bisogni. E soprattutto, dignità.

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