A due passi dalla fortezza Europa
A Cuneo si apre in questi giorni la mostra fotografica Beyond the border realizzata da Luca Prestia e Federico Faloppa. Un loro reportage realizzato nell’agosto scorso in Bosnia Erzegovina, nei campi di accoglienza migranti di Vučjak e Bihać
«Siete migranti? Se siete migranti non vi posso portare». Ci squadra dalla testa ai piedi, Razim, il tassista a cui abbiamo chiesto di portarci al campo di Vučjak, a una manciata di chilometri dal centro di Bihać, ultima città bosniaca prima del confine settentrionale con la Croazia. E quando capisce che non lo siamo, un po’ riluttante, dice «Ok, salite: vi porto». «Non è per voi» ci spiega, «è che la polizia ci ha proibito, a noi tassisti, di portare migranti. Se ci beccano ci fanno una multa salata». Gli chiediamo che cosa pensa della situazione a Bihać, delle migliaia di migranti che vi transitano, ma non è di molte parole. Come tanti, preferisce dire poco o nulla, non sbilanciarsi, farsi la sua vita: sperando che tutto prima o poi torni alla normalità. Cioè al solito pigro tran tran, senza troppe TV e giornali di torno, e soprattutto senza le tante persone che da un paio d’anni, quotidianamente, dalle strade e dai sentieri di montagna che si dipanano da Bihać, cercano di attraversare il confine con la Croazia, per poi mettere un piede nell’Unione Europea: Slovenia e Italia, Austria o Germania, per trovare un lavoro, unirsi a qualche famigliare, semplicemente sopravvivere e mandare quanti più soldi a casa.
Da Bihać, infatti, passa una delle due ‘rotte balcaniche’ aperte, o meglio, attualmente percorribili: quella che dalla Turchia passa per Grecia, Macedonia, Serbia, Bosnia e quindi Croazia (l’altra, più accidentata, attraversa la Bulgaria). E a Bihać sono oggi presenti alcune migliaia di persone (forse 6-7mila, forse 10mila) che attendono l’occasione buona per passare dall’altra parte. E intanto cercano riparo in uno dei campi allestiti intorno alla città. Come quello, discusso, di Bira: un capannone industriale gestito da OIM e Unione Europea di cui i media, anche italiani, si sono occupati spesso. O come quello, meno conosciuto, di Vučjak, allestito dalla municipalità di Bihać e dalla Croce Rossa locale quasi come provocazione. Quasi come per dire: «vedete? Qui la situazione è talmente insostenibile che non sappiamo più dove metterli».
Vučjak, letteralmente «la tana del lupo»: una località sulle colline intorno a Bihać, a 5 chilometri dal centro, circondata – verso le montagne – da zone ancora minate per la guerra degli anni Novanta. Sede di una ex discarica che oggi ospita una cinquantina di tende in mezzo al nulla, tra topi, serpenti, mosche e le mine inesplose della guerra del 1992-95. Dove oggi vivono 500 persone: giovani uomini provenienti in prevalenza da Pakistan e Afghanistan. È qui che arriviamo, dopo la breve corsa in taxi. All’ingresso i controlli sono di routine: un poliziotto ci chiede di identificarci, registrando i passaporti. E il personale – disponibilissimo – della Croce Rossa ci chiede chi siamo, che cosa siamo venuti a fare. Glielo spieghiamo: non siamo stati mandati da una testata giornalistica.
Siamo qui per un progetto a cui stiamo lavorando da oltre un anno, con il quale stiamo cercando di documentare le zone di frontiera fuori da ogni retorica o spettacolarizzazione, nella loro quotidianità, raccogliendo immagini su abitudini, oggetti, segni linguistici, per capire come i migranti vivano il territorio, la precarietà delle loro condizioni, ma anche la pluralità di lingue, le dinamiche quotidiane di vita e di interazione tra loro e con le persone che trovano sul posto. Spieghiamo tutto questo in inglese, e non appena finiamo di raccontare, ci si avvicina Ahmed, uno dei mediatori-interpreti che, vivendo nel campo, cercano di dare una mano come possono, di rendersi utili. «Interessante il vostro punto di vista», ci dice; «pensate che qui usiamo il turco come lingua franca, perché pur provenendo dagli stessi Paesi parliamo lingue diverse, ma con quel poco di turco appreso durante il passaggio in Turchia riusciamo a capirci». In effetti in inglese si fa fatica: alcuni lo parlano molto bene, altri – dicono – avrebbero bisogno di impararlo, soprattutto prima di attraversare il confine. «Nessuno in effetti ci ha mai chiesto nulla sulle lingue che parliamo, su come comunichiamo tra noi. Tutti interessati a far due foto, a far vedere quanto stiamo male e che schifo faccia la situazione, e poi via…». E infatti Dirk, un volontario austriaco di casa a Bihać, non va tanto per il sottile quando ci dice «voi tutti venite a prendere qualcosa qui: foto, immagini, storie. Che poi vendete a qualche giornale. Ma mai che veniate con una cassa di mele, qualche paio di scarpe. Sempre a prendere, mai a dare».
Grazie a Sabina, volontaria ventenne della Croce Rossa che ci accompagna nel campo, riusciamo a spiegare a Dirk qual è il nostro scopo, che cosa vorremmo fare. E io aggiungo: «vorrei mandarvi qualche mio studente di lingue, qui, come volontario, per costruire una piccola scuola di lingue. È su questo che lavoriamo a Reading, e a sentire le persone qui sarebbe utile, chissà…». Sì, spiega Sabina, sarebbe molto utile, perché – ci racconta – «le risorse sono quelle che sono: le tende, l’acqua per lavarsi, controlli medici di base, un po’ di cibo, qualche attività ricreativa per non farli impazzire. Ma avremmo bisogno anche di altro: di psicologi, insegnanti, gente che ci aiuti a offrire loro di più». «Giochiamo a carte per ingannare il tempo – ci racconta Aasim, pakistano, 22 anni, col sogno di fare il giardiniere in Europa – cuciniamo, cerchiamo di tener pulito e di gestire il campo al meglio, e tutti i giorni andiamo a Bihać a cercare farina, olio per friggere, verdura. E aspettiamo. Aspettiamo di riprovarci, a passare quel confine». Già, perché per molti di loro non sarebbe la prima volta. Alcuni ci hanno provato anche 7, 8 volte ad arrivare in Slovenia attraverso la Croazia.
Ma proprio quando pensavano di avercela fatta, sono stati presi dalla polizia croata, che li ha rimandati indietro. Senza fare troppi complimenti. «Li vedi i miei piedi?» ci dice Fareed, sorriso largo su un volto stanco, provato, «sono ancora tutti feriti, tagliati, dall’ultimo tentativo. Mi hanno preso, mi hanno rotto il cellulare, mi hanno rubato tutto e mi hanno tagliato le suole delle scarpe. Così, tra i boschi, camminando mi sono ferito. E ora aspetto di stare meglio per riprovarci. Ce la farò, inshallah». Le scarpe sono un problema: calzature buone significano maggiori chance di farcela, a scappare e a rimanere in piedi. Sandali infradito, o peggio piedi nudi, sono quasi sempre sinonimo di lentezza, fragilità, rischio. Senza contare che con l’inverno senza buone scarpe si rischia di rimanere assiderati.
La fatica, e la speranza, si legge anche negli oggetti, d’altronde. Gli zaini piccoli ma stracolmi di provviste per mettersi in viaggio, giacche a vento nel caso di piogge o temperature rigide, pantaloni lunghi contro rovi e insetti. E poi acqua, incalcolabili bottiglie d’acqua perché con l’umidità e il sole il rischio di disidratarsi è alto. Cibo e bevande non sembrano mancare, qui a Vučjak. Qualcosa lo passa la Croce Rossa locale, ogni giorno. Ma sono le persone che vivono qui a provvedere alla maggior parte dei consumi. Ci sono piccoli mercatini interni dove si può acquistare qualcosa, qualche genere di prima necessità. E poi si cucina ovunque, con fuochi improvvisati, per ore. E ciò che si cucina lo si divide con i compagni di tenda (fino a 10 persone per tenda, su materassi tanto sottili quanto impregnati di umidità), e con chi passa da qui. Come noi, a cui costantemente viene offerto qualcosa da mangiare e da bere.
È la dinamica del campo: apparentemente anarchica, autogestita, ma perfettamente funzionale, anche grazie all’attenta, ma rilassata, supervisione della Croce Rossa di Bihać e dei suoi infaticabili volontari. Ci sono una moschea (una tenda più grande delle altre, all’ingresso del campo), un piccolo ambulatorio, bagni chimici, cisterne per l’acqua per le docce, un paio di costruzioni in muratura, e tende disposte senza ordine ma anche senza tensioni, senza conflitti, gestite con regole non scritte ma rispettate da tutti. E tanta immondizia, ovunque. Ma questa era già quasi tutta qui: un regalo della città di Bihać. «Ci sono 500 uomini robusti, per gran parte ex soldati nei loro Paesi, giovani, intelligenti e capaci di sopravvivere in qualsiasi situazione. Ma da quando esiste il campo io non ho mai avuto nessun problema, né come donna, né come volontaria, né come bosniaca», ci racconta Sabina. «E sai qual è la cosa paradossale? Che questo posto, allestito in modo un po’ fortunoso su una discarica e che vive di poco, è molto più ambito di altri campi, più organizzati, più puliti, ma gestiti quasi militarmente dalle organizzazioni internazionali. Almeno qui non ci sono violenze, tutti si danno una mano e capita anche di farsi qualche partita a pallone, ridere, sdrammatizzare». «Dicono che sia un inferno, qui – ci racconta Fareed – e forse per molti di noi lo è. Ma il vero inferno in tanti l’abbiamo vissuto prima. E lo vivremo dopo, se finiremo nelle mani della polizia croata».
È un pugno nello stomaco, pensiamo io e Luca al ritorno, dopo un giorno passato a parlare, osservare, raccontare, cercare di capire. Vedi le ferite sui corpi, le facce stravolte, gli occhi di chi ne ha viste tante, troppe, ma non ha nulla da perdere, e non si arrende. Vedi i vestiti logori, ma lavati e messi ad asciugare sulle tende. Vedi i materassi consunti, ma ordinati nelle tende. Vedi i topi e l’immondizia, e a due passi i fuochi per cuocere il cibo, e pensi che – certo – nessuno dovrebbe vivere così, seppur per poco, seppur di passaggio. Nessuno. Ma vedi anche dignità e umanità come non ne vedi più in tante città italiane, spaventate ormai persino dalle loro ombre. Qui, nella «tana del lupo», 44° 47’ 07 0” Nord, 15° 49’ 53 0” Est sulla rotta balcanica, a due passi dalla fortezza Europa.