9 maggio, perché serve festeggiare

9 maggio, festa dell’Europa. Un’Europa spaventata davanti alla profonda crisi greca, che rischia di affondare altri paesi dell’area Euro. Oggi più di prima è ormai necessario riscoprire i valori ultimi dello stare insieme, ritrovare un patto politico alla base dell’unione istituzionale. Un editoriale

07/05/2010, Davide Sighele -

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Allargamento, foto di Fabrizio Giraldi

Siamo lontani dal maggio del 2004, quando fecero il loro ingresso nell’Unione europea 10 nuovi paesi, molti dei quali, sino al 1989, erano al di là della cortina di ferro. Dal crollo del muro di Berlino, in 15 anni, l’Europa politica si è ridisegnata, l’allargamento ad est è stata una priorità, non senza titubanze ma con entusiasmo. Il 9 maggio di sei anni fa, festa dell’Europa e anniversario della presentazione della “Proposta Schuman” per un’organizzazione europea (1950), c’era voglia di festeggiare. Il clima era quello giusto: vive le speranze per il futuro.

Da allora molto è cambiato. L’Europa è riuscita solo recentemente, ed a fatica, a cambiare le sue regole di funzionamento. Era quantomai necessario dopo l’allargamento a 27 degli stati membri. Anche i nuovi membri, da cui ci si sarebbe potuto aspettare quella linfa vitale che da un po’ mancava al progetto politico europeo, hanno zoppicato. I loro cittadini hanno spesso disertato le urne europee ed hanno mandato a Strasburgo molti rappresentanti euroscettici.

Intanto c’è stato chi, in tutti questi anni, l’Unione europea l’ha vista sempre e solo da lontano. I Balcani occidentali sono rimasti per anni nelle loro drammatiche contraddizioni. Mai affrontate dalle loro stesse classi dirigenti e appesantiti dall’eredità politica, sociale ed economica, legata alla transizione post muro di Berlino ma anche alla guerra ritornata, dopo cinquant’anni, in Europa.

A parole Bruxelles non ha mai respinto la voglia d’Europa espressa da una parte rilevante dell’opinione pubblica di questi paesi. Nei fatti però si è trovata a mediare con lo scetticismo (se non opposizione) di alcuni paesi membri, le difficoltà istituzionali della famiglia europea e la recalcitranza delle classi dirigenti nei Balcani a scegliere la via delle riforme e prendere atto delle responsabilità nei confronti dell’ancora recente e violento passato.

Poi l’economia mondiale ha iniziato a barcollare, e con essa quella europea. Dopo che anche la Bulgaria e la Romania, nel 2007, sono entrate nell’Unione si sono fatti strada timori per un ulteriore allargamento, è emersa la paura nei confronti del famoso “idraulico polacco”, metafora della manodopera a basso costo in arrivo dall’est. Le prospettive di un rapido “ritorno all’Europa” dei Balcani occidentali si sono incrinate.

Il 9 maggio 2010 è forse uno degli anniversari della “Dichiarazione Schuman” dove c’è meno da festeggiare. I convitati sono tesi e preoccupati: non si tratta più di timori legati ad instabilità pur vicine ma percepite come “altro da sé”. E’ in gioco la sopravvivenza stessa del patto economico e della scommessa dell’Euro, se non di quello politico che ha segnato il Vecchio Continente nei decenni seguiti alla fine della Seconda guerra mondiale.

Osservatorio, sulle sue pagine web, durante i seminari e convegni promossi, nelle centinaia di iniziative culturali di cui si è reso protagonista nei suoi dieci anni di vita, ha spesso parlato di Europa. Forse è meglio dire sempre. L’Europa come prospettiva di pace, non per i soli Balcani, ma per noi tutti. E non è un caso che ora, a quasi un decennio dal primo documento che producemmo sul tema, titolato “L’Europa dal basso”, stiamo dedicando parte del nostro lavoro a riflettere sull’identità europea, su cosa significhi essere europei. Con “Europei”, titolo del nostro dossier annuale e di vari incontri di approfondimento in tutta Italia, ci proponiamo di confrontarci sul tema con studiosi ed intellettuali. Ma anche analizzare i pensieri e gli umori della gente nei paesi che seguiamo.

Avremmo voluto, dopo dieci anni di lavoro, poter parlare di un’Europa in continua costruzione. Ed invece temiamo di dover raccontare un fallimento: un’Europa vittima delle sue paure, un’Europa che guarda indietro invece di andare avanti.

Non vanno nascoste in tutto questo le gravi responsabilità di una classe dirigente greca scellerata. Ma dov’erano quelle istituzioni europee che dovevano monitorare e controllare? Troppo spesso, anche solo rimanendo al caso dei Balcani, abbiamo assistito a un’Unione rigida ed inflessibile nei confronti dei paesi che mirano all’integrazione e invece lassa nei confronti di chi, dell’Unione, fa già parte. Basti vedere alle diatribe di confine tra Slovenia e Croazia o all’ancora irrisolta crisi del nome che vede contrapposte la stessa Grecia e la Macedonia.

Negli ultimi anni, per i Balcani occidentali, nonostante tutto non sono mancate le belle notizie. Seppur con colpevole ritardo si è arrivati, per alcuni stati, all’abolizione dei visti, molti nodi politici che bloccavano il percorso europeo ad esempio di Croazia e Serbia si sono sciolti, le economie, pian piano, iniziavano a riprendersi dopo anni di stallo. Anche dalle pagine web di Osservatorio, emergeva un certo ottimismo.

Ora non è più così. Già si intravvedono i primi chiari segnali che, anche per chi si sentiva ormai alle porte dell’Unione, l’adesione non è più scontata. Ancora più ardue diventano le prospettive europee per altri stati, come la Bosnia, il Kosovo, l’Albania. Per non parlare della Turchia. Mentre le opinioni pubbliche dei paesi sud est europei, persino alcuni caucasici, si sentono storicamente e culturalmente parte della grande famiglia, tra i cittadini di vecchi (e nuovi) membri è evidente il desiderio non solo di tornare alla moneta nazionale ma di abbandonare “chi è fuori” al proprio destino.

La crisi greca, la crisi dell’Europa, porta ora a domande ineludibili. Cosa significa solidarietà in seno all’Unione? Quanto questa poggia su un comune sentire, un comune senso di appartenenza? Quali i legami tra istituzioni ed organi che rappresentano la società europea, singoli stati e cittadini?

E’ dalle risposte che occorre ripartire. Non fomentando paure, ma ritrovando quell’ideale che l’Europa politica – di cui l’Euro è conseguenza, non origine – ha fatto nascere.

È rilanciando sui rapporti tra istituzioni sovranazionali e buone pratiche locali che si può rinascere. È solo sostenendo in modo più convinto di prima il criterio della sussidiarietà e della responsabilità delle classi dirigenti a tutti i livelli che l’Europa può riuscire a non fallire. Non richiudendosi nell’illusione dello stato nazione, tomba del ‘900.

Perché lo stato nazione, in una realtà globalizzata, dove le speculazioni a Wall Street o l’eruzione di un vulcano rischiano di far crollare le economie di mezzo mondo, non funziona più. Esistono le comunità, la cui identità deve e può essere basata sul presente e sul divenire. Ed è per questo che occorre trovare la forza, il 9 maggio, per festeggiare. Non ciò che è, ma ciò che abbiamo il dovere morale di realizzare.

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