1968 in Jugoslavia: le barricate di giugno a Belgrado
Era lui quello con il megafono in mano nel cortile della facoltà di Filosofia di Belgrado in rivolta. Dragoljub Mićunović ha ora 88 anni e ritorna a quella turbolenta settimana dal 2 al 9 giugno 1968. La sua testimonianza
(Pubblicato originariamente da Courrier des Balkans l’11 giugno 2018)
Una voce flebile risponde dall’altra parte della cornetta. Dragoljub Mićunović è nato il 14 giugno del 1930 a Merdare nell’allora Banovina del Vardar, all’epoca Regno di Jugoslavia. Professore in pensione della Facoltà di Filosofia di Belgrado è stato tra i tredici fondatori del Partito Democratico (DS) nel dicembre del 1989. Nel marzo del 1949, a 18 anni, questo ex partigiano venne arrestato a Prokuplje, sud della Serbia. Accusato a torto di voler organizzare un colpo di stato a seguito della rottura tra Tito e Stalin venne inviato per due anni a Goli Otok, la sinistra isola-prigione del Mar Adriatico.
Membro della scuola Praxis, un movimento filosofico che mirava alla fondazione di un umanesimo marxista critico, Dragoljub Mićunović è stato anche mentore del primo ministro serbo Zoran Đinđić, assassinato nel marzo 2003, a cui fu anche molto amico. Ci ha ricevuti nel suo ufficio di Belgrado, “via della regina Natalija, al fianco dell’ospedale del Fronte popolare”.
Il racconto
L’inverno del 1968 lo trascorsi a Parigi, alla Sorbona. In marzo rientrai a Belgrado. Avevo 37 anni. La facoltà di Filosofia, dove ero assistente, era in fermento. Gli studenti seguivano da vicino i movimenti sociali nel mondo, in Germania, in Francia, negli Stati Uniti e idee nuove bollivano in testa. Ero anche caporedattore della rivista Student, stampata in 10.000 copie. Il 30 aprile pubblicai un testo su “gli studenti e il proletariato” ispirandomi alle idee del pensatore marxista Herbert Marcuse. Criticavo la “borghesia rossa” invocando un ritorno ai principi originali del comunismo. Il Comitato centrale del partito decise che nuocevo al proletariato. Il numero della rivista venne censurato.
Le prime manifestazioni risalgono al 1966, contro la guerra in Vietnam. La polizia le aveva vietate. Ciononostante ci riunimmo presso la facoltà di Filosofia. Si aggiunse a noi anche Ivo Andrić, premio Nobel per la letteratura, per sostenerci e per protestare contro i bombardamenti americani. La polizia ne fu sorpresa ed iniziò a manganellare. Lo feci uscire in fretta e furia, per proteggerlo e l’anziano scrittore riuscì a nascondersi in un taxi. Poi, alcuni manifestanti, si incamminarono verso l’ambasciata degli Stati Uniti. Tito non voleva noie con Washington. La repressione fu dura, molti studenti vennero malmenati, alcuni furono rinchiusi in prigione. Nel giardini della facoltà la rivolta infuocava contro “le bugie e la violenza di un regime totalitario”.
Nel 1968 è bastata una scintilla per dare fuoco alle polveri. Il 2 giugno una mia amica rientrò da Parigi, la valigia ricolma di materiale di propaganda, tra cui anche un’intervista-fiume a Marcuse. Trascorremmo l’intera notte a tradurla. Pioveva a dirotto ma migliaia di studenti affluivano, scatenando una gran confusione. Arrivò la polizia. Per ristabilire l’ordine entrò nelle aule. Questo fece degenerare le cose. A mezzanotte, la situazione era seria. Lanciammo una petizione, raccogliemmo delle firme. Il giorno dopo una colonna di 4000 studenti si mise in marcia verso l’Assemblea federale per esigere le dimissioni del ministro degli Interni. La polizia li bloccò su di un ponte dell’autostrada a Novi Beograd. Cominciarono i negoziati. Miloš Minić, allora presidente dell’Assemblea nazionale della Serbia, era sul posto assieme ad altri alti funzionari statali. Ma non appena questi girarono le spalle la polizia iniziò a lanciare lacrimogeni ed a sparare. Alcuni professori, tra i quali anche Ljubomir Tadić, il padre dell’ex presidente della Repubblica Boris Tadić, accorsero per aiutare gli studenti. Si contavano a decine i feriti gravi.
Gli studenti occuparono il rettorato e la facoltà di Filosofia. Ci barricammo all’interno della facoltà, circondati dalla polizia e venni eletto come presidente del comitato di azione. Quella sera, più di 10.000 studenti e cittadini manifestarono fianco a fianco davanti alla Facoltà, nel parco dell’università. Erano gli inizi della televisione e poco prima i giornalisti avevano diffuso senza filtri le immagini sanguinose della repressione della polizia. Per la prima volta la gente sentiva parlare di elezioni libere. Fu uno choc per il governo. Dalle cantine recuperammo vecchie presse che avevamo utilizzato per stampare dei volantini. Poi mi resi conto che non avevamo nulla da mangiare. Mi girai verso una delle mie studentesse, Sonja Liht, futura presidente dell’Assemblea europea dei cittadini (HCA) e della Fondazione Open Society della Serbia, che aveva sempre un buon appetito. Mi condusse verso una stanza piena di panini, regalo di un panificio di Belgrado.
Improvvisamente, verso le 2 del mattino, venne tagliata la corrente. Non vi erano più luci, non si poteva più utilizzare il telefono. La polizia allora condusse l’assalto. Poco prima avevo detto che gli studenti che erano stanchi potevano rientrare a casa propria. Presto la facoltà si svuotò. Non eravamo rimasti che in 200-300, rintanati nelle cantine oscurate dell’università. Rispondemmo con le prime cose che ci capitarono in mano agli attacchi della polizia. In quel momento il telefono ritornò a squillare. Era Miloš Minić. Gli dissi che eravamo armati, riferendomi alle sbarre e catene che avevamo recuperato nelle cantine. Dall’altra parte del telefono percepì del panico. Il Comitato centrale del partito voleva a tutti i costi evitare il bagno di sangue, mi spiegò. Il mattino la polizia si ritirò dalla facoltà ma continuò a controllarne le entrate, dove si andava ammassando una folla di studenti. Anni dopo un professore di Scienze militari mi disse che la soffitta del rettorato era piena di armi: 200 fucili con casse di munizioni… un vero e proprio arsenale a disposizione delle lezioni di difesa popolare. Noi non lo sapevamo, al contrario della polizia.
Non fu solo una manifestazione di studenti. Presto, la mobilitazione si propagò in tutto il paese. Le istituzioni culturali entrarono in gioco. A teatro gli attori lanciavano messaggi: “Hanno derubato il popolo”, “Sì, lo hanno derubato” rispondevano dal pubblico. La morte di Danton, del drammaturgo tedesco Georg Büchner, ricevette gradi ovazioni. Anche la poetessa Desanka Maksimović ci sostenne dicendo che eravamo giovani, belli e forti, ma che non sarebbe durato a lungo e che in futuro saremmo stati fieri del nostro coraggio…
È allora che Tito si pronunciò. Il 10 giugno era prevista una visita ufficiale a Belgrado di Zakir Hussain, che era allora presidente dell’India, uno dei paesi del movimento dei non-allineati. La resistenza degli studenti aveva molto contrariato il maresciallo Tito. Si rilassava nell’arcipelago di Brioni, proclamava l’armonia dei popoli e sognava di ricevere il premio Nobel per la pace. L’8 giugno il Consiglio delle università aveva proclamato lo sciopero generale. Più di 50.000 studenti erano in fermento. Poi fu anche il turno dei liceali. Il 9 giugno Tito apparve in televisione. “Gli studenti hanno ragione”, dichiarò. Silenzio tombale. Nessun applauso. Alla facoltà di Filosofia ripresero i dibattiti durati sino alla fine del mese di giugno. Tutti parlavano liberamente, si votava per alzata di mano. Una scuola di democrazia. Poi arrivarono le vacanze estive. A fine agosto le truppe sovietiche schiacciarono la Primavera di Praga e Tito dichiarò lo stato di emergenza.
“Nei piccoli paesi, la repressione è dosata e selettiva”. Cito spesso questa frase della filosofa Hannah Arendt. Dopo le manifestazioni venni convocato dall’UDBA, i servizi segreti jugoslavi. Uno degli ispettori mi chiese come mai, dopo essere stato internato a Goli Otok, osassi mettermi alla testa della fronda degli studenti. Gli risposi che in prigione ne avevo ricevuti di colpi e sapevo cosa minacciasse, in realtà, la dignità umana. Le autorità mi confiscarono il passaporto. Poi, nel dicembre del 1974, a seguito di una lex specialis, furono finalmente in grado di cacciarmi dall’università assieme ad altri sette colleghi. E’ a Londra, ascoltando la BBC, che appresi la notizia. Quando ho rimesso piede alla Facoltà di Filosofia, quindi anni dopo, molti anni dopo la morte di Tito, c’erano le telecamere a filmare l’evento. Ed ho pronunciato un discorso sul diritto all’insurrezione.