12 settembre 1980. La Turchia allo specchio
Il colpo di Stato militare del 12 settembre 1980 è uno dei periodi più tragici della Turchia contemporanea. Oggi i due generali golpisti superstiti Kenan Evren e Tahsin Şahinkaya sono alla sbarra, dopo che il referendum del 2010 li ha privati dell’immunità. Per il giornalista di Radikal İsmail Saymaz, però, le ferite aperte da quegli eventi sono lontane dall’essere rimarginate. Nostra intervista
Il colpo di Stato militare del 12 settembre 1980 e gli anni che lo hanno seguito rappresentano un periodo di atroci delitti della storia recente della Turchia. Si contano 650mila arresti, 230mila persone processate nelle corti marziali, 220 morti per tortura, 462 “spariti” sotto custodia cautelare, 259 richieste di pene capitali, 50 giustiziati, oltre 1 milione e mezzo di persone schedate, migliaia di esiliati politici e di insegnanti licenziati, decine di migliaia di associazioni soppresse. I gruppi più colpiti furono quelli della sinistra. Il 12 settembre 2010 i cittadini della Turchia hanno approvato col 58% un pacchetto di riforme costituzionali proposto dal governo del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP). Tra i 26 emendamenti previsti, l’abolizione dell’articolo della costituzione (esito del colpo di Stato del 1980) che sottraeva i militari golpisti alla giustizia per le decisioni e gli atti commessi durante il loro periodo di governo. A due anni dal referendum, l’aprile scorso è cominciato il processo a carico dei generali Kenan Evren e Tahsin Şahinkaya, di 94 e 86 anni, unici superstiti dei cinque generali golpisti. Dall’inizio di aprile si sono tenute cinque udienze. Il primo giorno, a centinaia, persone e istituzioni che hanno subito dei danni per via del golpe hanno presentato domanda per costituirsi parte civile. I due generali, ricoverati in un ospedale militare, finora non si sono presentati alle udienze adducendo motivi di salute.
Che significato ha questo processo?
E’ del tutto simbolico. Credo che i due generali probabilmente moriranno prima di comparire davanti ai giudici. Non va dimenticato che il referendum del 2010 è stato lanciato dopo che il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) non è riuscito a riformare il sistema giudiziario, retaggio del vecchio ordine kemalista, nazionalista, laico e di posizioni opposte alle proprie. Quel sistema giudiziario che, nel 2008, ha tentato di sopprimere il partito. Ma la riforma alla giustizia, priorità del referendum, da sola non sarebbe mai bastata a ottenere la maggioranza dei consensi. Una questione su cui invece c’è stata approvazione unanime della popolazione è la condanna del golpe del 1980. In considerazione di ciò, e solo in un secondo momento, è stato aggiunto l’emendamento che permetteva di portare i generali golpisti in tribunale. Scelto il 12 settembre per effettuare la consultazione, tutta la campagna referendaria è stata condotta come se quello fosse l’unico emendamento da sottoporre al voto, quando invece i cittadini hanno dovuto accettare o respingere in blocco 26 articoli del tutto diversi l’uno dall’altro. Dopo l’approvazione del pacchetto, il primo elemento a essere modificato è stato il sistema giudiziario. Il processo ai generali è stato avviato con molta calma, solo dopo due anni e grazie ad una notevole pressione dell’opinione pubblica. Nel frattempo è morto anche uno dei tre generali golpisti che erano ancora in vita.
Di quali crimini sono accusati Evren e Şahinkaya?
Sono accusati di aver compiuto il golpe del 1980, considerato un delitto commesso contro lo Stato. Il problema è che il golpe non è l’unico crimine in questione. Ci sono tutti i crimini contro l’umanità perpetuati successivamente dal governo militare. Questi ultimi sono però stati esclusi dal processo. La procura che ha condotto l’inchiesta ha chiesto che i ricorsi su quei crimini venissero giudicati nei tribunali locali, in base alla città di appartenenza dei ricorrenti. A parte un caso, su 350 ricorsi presentati in 48 città, finora non c’è stata una sola procura che abbia chiamato a deporre i responsabili delle torture o i loro protettori. I reati sono stati prescritti, oppure, riferendosi alle inchieste o ai processi già avviati dopo gli anni ’80, è stato affermato che le cause erano già state portate in tribunale. Non si è voluto indagare oltre. A distanza di 30 anni i responsabili delle torture sono di nuovo protetti. Non si vogliono affrontare quei crimini.
Perché no? Cosa lega lo Stato di 30 anni fa a quello attuale?
C’è continuità nel sistema dello Stato. Cemil Çiçek, oggi presidente del Parlamento, nel 2003, quando era ministro della Giustizia del governo AKP, ha chiesto che due militari che avevano torturato e ucciso un insegnante nel periodo successivo al 12 settembre non venissero mandati in prigione. Ahmet İyimaya, altro rappresentante del governo, oggi membro della commissione costituzionale, è stato l’avvocato volontario di Evren negli anni ’80. Volontario, non prendeva nemmeno soldi. Come si può pensare che i rappresentanti di un governo che in passato hanno protetto apertamente dei torturatori possano oggi appoggiare una resa dei conti con il 12 settembre?
Anche nella stampa, nomi come Nazlı Ilıcak o Mehmet Barlas che oggi sostengono incondizionatamente il governo, avevano appoggiato l’operato del 12 settembre. Il modello su cui si è rifatto l’attuale esecutivo è quello di Turgut Özal, che mentre era viceministro durante il governo nato dopo il golpe del 1980, ha permesso che si giustiziassero due persone. Quindi non si può parlare di una reale rottura con lo Stato di 30 anni fa. Oggi si vogliono fare i conti anche con gli altri golpe che ha vissuto la Turchia. Per quello bianco del 28 febbraio 1997 finora sono state condotte sei operazioni e arrestate almeno 20 persone, ma per il 12 settembre non si trova alcun responsabile. Il 12 settembre ha prodotto centinaia di morti, migliaia di arresti; migliaia di persone sono dovute fuggire all’estero e non riescono ancora a far ritorno in Turchia. Una parte della società è stata tagliata fuori dalla vita politica e sociale, ma non è stata fatta alcuna operazione per trovare i responsabili di questa situazione. Tuttavia, per quanto l’AKP non lo voglia sostenere, questo processo rappresenta una crepa nel muro, e d’ora in avanti sarà più facile andare avanti.
In che modo?
Con la spinta della società. Siamo di fronte ad un processo politico, ed è solamente scendendo in piazza che si possono affrontare i processi politici. Il 12 settembre ha alle spalle una storia di lotta lunga 30 anni, legittimata dalle persone che dai quattro angoli della Turchia sono venute alle udienze per chiamare Evren “assassino”. C’è stata una madre di oltre cento anni, portata in aula in ambulanza, che chiede giustizia per il figlio ucciso sotto tortura. I due generali potrebbero morire prima che si concluda il processo, ma noi nel frattempo, grazie ad esso, siamo venuti a conoscenza degli archivi dello Stato sul 12 settembre. Anche solo questo è uno sviluppo importante.
Lei ha però ha parlato del rischio di veder sparire le pratiche dei processi riguardanti i crimini di quegli anni…
Sì il rischio c’è. Ho raccolto dei documenti, ma sono solo un giornalista. Dovrebbero essere le organizzazioni per i diritti umani, le fondazioni delle organizzazioni della sinistra a raccoglierere i fascicoli e a conservarli. Avrebbero già dovuto mettere in piedi degli archivi riguardanti i casi delle persone appartenenti ai propri movimenti, ma tranne rari casi non ci sono riusciti.
Anche le famiglie non ce l’hanno fatta. Hanno avuto paura o non avevano i mezzi per riuscirci. Una buona parte dei fascicoli dei processi sono andati persi. Noi abbiamo avuto accesso solo a quelli che si sono potuti salvare. Se ciò che è rimasto non verrà salvato, in futuro non potremo avere un archivio sul 12 settembre e, di conseguenza, non sarà possibile chiedere giustizia. Intanto però, per lo meno, abbiamo scoperto i documenti conservati dallo Stato. Ma anche in questo caso devono essere le organizzazioni per i diritti umani a occuparsi di garantire che vengano protetti.
Oggi tutti i rapporti della Commissione sui diritti umani si trovano sul sito del Parlamento e vi si può accedere attraverso un motore di ricerca. Si potrebbe fare la stessa cosa per i documenti sui golpe, visto che una Commissione di indagine sui colpi di Stato già esiste. Sarebbe un ottimo inizio per aprire i documenti al pubblico.
A partire dalla seconda udienza c’è stato un calo di interesse del pubblico verso il processo. Come lo spiega?
E’ per via della posizione assunta dalla sinistra nei confronti del procedimento. La sinistra turca, per quanto debole, è sempre un motore di mobilitazione importante del Paese. Riesce a creare un moto popolare che ha reso possibile, ad esempio, il rilascio dal carcere dei giornalisti Ahmet Şık e Nedim Şener, oppure la riapertura di piazza Taksim ai festeggiamenti del Primo Maggio.
La sinistra è la principale danneggiata del golpe ed ha condotto per trent’anni una campagna contro quel periodo. Ma in sede referendaria, siccome era contraria ad altri emendamenti proposti dal governo, ha votato contro il pacchetto di riforme o l’ha addirittura boicottato. Tuttavia, dopo la sua approvazione ha appoggiato il processo contro i generali, ma ha continuato a mantenere le distanze, perchè non vuole che si trasformi in uno spettacolo a favore del’attuale esecutivo.
Sono le singole persone di sinistra, più che le organizzazioni politiche, a seguire da vicino il processo. E se c’è stato un calo di interesse, questo è interamente legato alla mancanza di fiducia nei confronti dell’AKP, non ad un disinteresse verso il processo in sè.
Lei è nato l’anno del golpe. Perchè ha voluto scrivere un libro che tratta delle atrocità vissute trent’anni fa nel Paese?
Io sono nato a Rize. Venti giorni dopo la mia nascita gli ultranazionalisti hano ucciso Bayram Ali Tatoğlu, uno dei giovani più amati della mia città, un operaio della fabbrica di tè locale, sindacalista, insegnante e promotore di una squadra di calcio per i ragazzi. Una persona che sognava e lavorava per una società equa, e che per questo è stato ucciso. Mentre crescevo era un’icona nella mia città, e io l’ ho sempre associato a molti altri giovani come lui, uccisi allo stesso modo. Sono cresciuto pensando che dopo il 12 settembre lo Stato si fosse dato il compito sistematico di eliminare tutti i Bayram Ali di questo Paese, bloccando ogni tentativo della popolazione di chiedere i propri diritti organizzandosi nei sindacati e nelle associazioni.
Adesso penso che qualsiasi forma antidemocratica oggi esistente sia direttamente legata al 12 settembre. Occuparsi di quel periodo, in questo senso, non significa parlare di un passato remoto, ma confrontarsi con l’attualità. Perchè per i problemi con cui la società turca deve confrontarsi con urgenza oggi, dalla povertà alla disoccupazione, dalla questione curda a quella dei diritti delle donne, sono responsabili le persone e le istituzioni che hanno dato origine al 12 settembre.