Srebrenica, la Serbia nega il genocidio

Trent’anni dopo Srebrenica in Serbia regna un clima tutt’altro che commemorativo. Per la leadership serba tutte le parti coinvolte nel conflitto hanno commesso crimini, e tutti e nessuno sono responsabili. Una posizione vicina a quella di Slobodan Milošević dopo la guerra

11/07/2025, Massimo Moratti Belgrado

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"The only genocide in the Balkans was against the Serbs": graffito apparso nel centro di Belgrade nel gugno 2024, firmato da un'organizzazione di estrema destra ed è stato persino ridipinto di recente: foto © Massimo Moratti

(Originariamente pubblicato da JusticeInfo.com il 10 luglio 2025)

“L’unico genocidio nei Balcani è stato contro i serbi”, recita così il grande murales apparso nel centro storico di Belgrado nel giugno 2024. A firmarlo un gruppo di estrema destra, denominato “Narodna patrola” [pattuglia popolare]. Ad oggi nessuno ha ritenuto opportuno rimuovere il murales, anzi la scritta è stata recentemente rifatta.

Il murales riflette una convinzione diffusa in Serbia e implicitamente sostenuta dai partiti di governo. Per molti, in Serbia, la responsabilità dei crimini di guerra commessi durante le guerre degli anni ‘90 e, in particolare, il riconoscimento del genocidio di Srebrenica del 1995, restano questioni delicate. Allo stesso tempo, la leadership al potere, anziché disinnescarle, spesso alimenta le tensioni.

Alcuni casi recenti, legati a Srebrenica, ben illustrano questo atteggiamento.

“Non siamo un popolo genocida!”

“Ma non vedi cosa ci stanno facendo? Con quella risoluzione! Non siamo un popolo genocida!” Il tono dell’attempata signora, una mia vecchia conoscente di Belgrado, era agitato e preoccupato allo stesso tempo. Discussioni analoghe hanno segnato i giorni precedenti all’adozione della risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite su Srebrenica nel maggio 2024. La bozza di risoluzione – ho replicato – è stata modificata per escludere esplicitamente il concetto di colpa collettiva di un intero popolo. “Già! E tu credi a quello che scrivono in questi documenti…”. Poi si è lanciata in una serie di recriminazioni contro la comunità internazionale, sfoderando argomenti volti a ritrarre il popolo serbo come vittima di una congiura internazionale.

Nel maggio 2024, con l’avvicinarsi del voto, sia in Serbia che in Republika Srpska (una delle due entità costitutive della Bosnia Erzegovina, a maggioranza serba) si è assistito ad un’intensa campagna mediatica contro l’adozione della risoluzione. “Mi nismo genocidan narod” [Non siamo un popolo genocida], recitava il messaggio principale. La leadership serba si è dimostrata instancabile nel condurre la campagna nella regione e all’estero.

Dalle persone comuni ai media e alle istituzioni, il messaggio è stato ripetuto costantemente e rilanciato in continuazione dalle autorità di Serbia e Republika Srpska. Lo stesso presidente serbo sul suo profilo Instagram ha pubblicato un video , a nome della Serbia e della Republika Srpska, dai toni piuttosto inquietanti, ribadendo: “Non siamo un popolo genocida. Ricordiamo…”.

La campagna ha coinvolto anche gli edifici più importanti di Belgrado, come la nuova Torre – una costruzione avveniristica, realizzata nell’ambito del progetto “Belgrado sull’acqua” – sul cui enorme schermo illuminato campeggiava lo stesso messaggio: “Non siamo un popolo genocida”. Parole poi riprese dalla Chiesa ortodossa serba, che ha ordinato a tutti gli edifici di culto ortodosso in Serbia di suonare le campane alle ore 12 del giorno del voto sulla risoluzione. Il patriarca ha invitato i fedeli a mostrare solidarietà e fermezza di fronte alle accuse ingiuste rivolte al popolo serbo.

Graffiti e striscioni sono apparsi in tutta la città in quello che è stato indubbiamente uno sforzo coordinato. I tentativi della diplomazia e dei principali attori politici serbi di contrastare la risoluzione sono stati seguiti da vicino dai media locali, in gran parte controllati dalla leadership al potere. I titoli sulle prime pagine dei tabloid , schierati in prima fila, oscillavano tra “I serbi non sono un popolo genocida” e “La lotta contro i potenti”, fino a “La difficile battaglia per la Serbia e il popolo serbo”.

Ai tabloid si è unito anche lo storico quotidiano serbo Politika, con un articolo intitolato Nemačka osveta Srbima [La vendetta tedesca sui serbi] in cui si sottolineava come il sostegno della Germania alla risoluzione su Srebrenica non fosse altro che l’ennesimo esempio di quel revanscismo tedesco nei confronti dei serbi iniziato negli anni ‘40. Il giorno precedente al voto all’Onu, la Radiotelevisione della Serbia ha mandato in onda, in prima serata, un documentario sui “delitti senza castigo”, cioè sui crimini commessi contro i serbi nell’area di Srebrenica.

Una “vittoria morale”

Alla vigilia del voto, il presidente Aleksandar Vučić si è recato a New York lanciando una vera e propria offensiva diplomatica per bloccare la risoluzione. In un messaggio carico di emozioni, pubblicato su Instagram, Vučić ha promesso di fare del proprio meglio per difendere il popolo serbo. Marko Đurić, ministro degli Esteri serbo, in un commento uscito su Politico, ha spiegato che la risoluzione finirà per aumentare le divisioni nei Balcani anziché promuovere la riconciliazione.

Vučić ha assistito al voto all’Assemblea generale avvolto in una bandiera serba . La risoluzione è stata approvata con 84 voti a favore, 19 contrari e 68 astenuti.

A sorprendere maggiormente è stato l’elevato numero di astensioni, evidente frutto dell’offensiva diplomatica della leadership serba che, rientrata in patria, ha presentato la missione come un successo paradossale, dato che i serbi non sono stati etichettati come “popolo genocida” (etichetta peraltro inesistente).

Nessuna sorpresa quindi se il giorno dopo il voto, 24 maggio, i tabloid e il quotidiano Politika esultassero, parlando in prima pagina di una "vittoria morale" seppur nella sconfitta. La sera del 23 maggio, a Belgrado un corteo di auto con bandiere serbe, organizzato “spontaneamente”, ha sfilato per le strade del centro città. Non era chiaro se stessero festeggiando una sconfitta legale o una vittoria morale.

L’ammissione di colpevolezza

Il clamore creato attorno alla risoluzione su Srebrenica era in netto contrasto con il silenzio che ha accompagnato una lettera inviata da Radislav Krstić al Meccanismo residuale per i tribunali penali internazionali (MICT).

Nel novembre 2024, è stata diffusa una lettera manoscritta di Krstić, ex generale dell’esercito serbo-bosniaco, in cui ammetteva di essere uno degli autori del genocidio di Srebrenica e di pensare ogni giorno alle vittime e alle loro famiglie. La lettera è stata presentata a supporto di una richiesta di scarcerazione anticipata.

Radislav Krstić, arrestato nel 1998, è stato il primo imputato ad essere condannato in via definitiva per il favoreggiamento del genocidio di Srebrenica . Al momento, Krstić, 76 anni, sta scontando una pena detentiva di 35 anni. La lettera , datata 18 giugno 2024, seppur scritta pochi giorni dopo l’adozione della risoluzione dell’Onu sul genocidio di Srebrenica, è stata resa pubblica solo a novembre, quando Krstić si è rivolto a Graciela Gatti Santana, presidente del MICT.

Nella lettera, scritta con una calligrafia tremolante, Krstić fa riferimento alla risoluzione dell’Onu, affermando che, pur non avendone il diritto, avrebbe votato a favore della risoluzione. “Il mio nome viene menzionato perché ho facilitato il genocidio, il mio nome viene menzionato perché ho commesso un crimine inimmaginabile e imperdonabile”.

Il messaggio di Krstić sembra essere rivolto anche alla leadership di Belgrado e di Banja Luka. “Vorrei che tutti capissero che un genocidio non può essere commesso da un popolo, non ci sono popoli che commettono genocidi, il genocidio di Srebrenica è stato commesso da individui e questi sono gli unici da incolpare […] purtroppo io sono uno di loro”.

Krstić auspica che le generazioni future leggano e comprendano le sue parole affinché quanto accaduto a Srebrenica non si ripeta mai più. Infine, come scrive nella sua lettera, se dovesse essere rilasciato e se le vittime lo permettessero, Krstić vorrebbe visitare il Memoriale di Potočari per inchinarsi alle vittime e chiedere perdono.

La lettera di Krstić è stata quasi completamente ignorata dai media di Belgrado, che però in passato avevano parlato ampiamente di un’aggressione contro Krstić da parte di altri detenuti nel carcere britannico in cui era rinchiuso. I (pochi) media non allineati hanno riportato la notizia , pubblicando il testo integrale della lettera, che contraddice la posizione ufficiale del governo serbo definendo esplicitamente quanto accaduto a Srebrenica come “genocidio”.

Nataša Kandić, nota attivista per i diritti umani, si aspettava che la lettera provocasse una reazione da parte delle autorità, dell’opinione pubblica e dell’élite intellettuale. “Una grande occasione mancata […] La lettera è passata sotto silenzio, suscitando solo disprezzo. L’aspetto più sconfortante è che, a quanto pare, anche l’opposizione accetta di rimanere in silenzio”, ha affermato l’attivista.

Alla fine, il MICT ha respinto la richiesta di scarcerazione anticipata, motivando tale decisione col fatto che Krstić non ha dimostrato un grado sufficiente di rimorso considerata la gravità del reato commesso.

Il “terribile crimine” di Srebrenica

Alla luce di quanto sopra esposto, appare chiara la posizione del governo serbo, e in particolare del Partito progressista serbo (SNS), alla guida del paese dal 2012, principalmente in coalizione con il Partito socialista serbo (SPS) e alcuni partiti più piccoli di centro-destra.

Per la Serbia, la questione dei crimini di guerra, in particolare del genocidio di Srebrenica, è sempre stata molto delicata. Le autorità serbe hanno sostanzialmente evitato di definire quanto accaduto a Srebrenica come genocidio.

Un’ammissione parziale di responsabilità, dopo anni di negazionismo, era arrivata solo nel 2010, quando al governo c’era il Partito democratico (DS). Dopo più di dodici ore di dibattito, il parlamento di Belgrado aveva adottato una dichiarazione su Srebrenica condannando i crimini commessi sulla base delle conclusioni della Corte Internazionale di Giustizia (la sentenza della Corte parla di genocidio). Tuttavia, con il passare del tempo, soprattutto dopo l’arrivo al potere dell’SNS nel 2012, la narrazione è progressivamente cambiata.

Già nel 2010, Vučić, all’epoca leader dell’opposizione, aveva parlato di Srebrenica, limitandosi però a definire quanto accaduto “un terribile crimine”. Questa vaga definizione – che non corrisponde a nessuna delle categorie di crimini internazionali, quindi non implica l’obbligo legale di perseguire i responsabili e di fornire riparazioni – è diventata una formula consueta utilizzata dai leader di Serbia e Republika Srpska .

Molto spesso il “terribile crimine” di Srebrenica viene menzionato insieme ad altri episodi , tra cui “il peggior crimine mai avvenuto”, cioè lo sterminio di serbi nel campo di concentramento di Jasenovac durante la Seconda guerra mondiale, dove decine di migliaia di serbi (insieme a rom ed ebrei) furono uccisi dagli ustascia. Per commemorare le vittime di Jasenovac, nel 1992 a Belgrado, le autorità serbe decisero di inaugurare il Museo delle vittime del genocidio .

La posizione ufficiale della leadership al potere in Serbia si riflette anche nella scarsa efficienza della magistratura serba per quanto riguarda il perseguimento dei crimini di guerra . In particolare, dal 2016, la magistratura si è mossa con estrema lentezza, occupandosi principalmente di fascicoli trasferiti dalla Bosnia Erzegovina.

Quando i casi riguardanti Srebrenica vengono trasmessi dalla magistratura bosniaco-erzegovese a quella serba, non sono mai qualificati come genocidio, bensì come crimini di guerra.

Circa 1.700 casi sono ancora in una fase pre-investigativa, quindi se ne occupa il ministero dell’Interno. Non è ancora chiaro se e quando questi casi possano essere processati. La Serbia presenta tutte le caratteristiche di un “captured state” e la magistratura, seppur formalmente indipendente, non fa eccezione.

La riabilitazione dei criminali di guerra

Un’altra tendenza molto diffusa è quella della riabilitazione dei criminali di guerra. Tra i tanti esempi, un murales raffigurante Ratko Mladić è stato a lungo protetto dalla polizia nel centro di Belgrado, mentre alcuni criminali di guerra condannati sono stati invitati a tenere lezioni agli studenti (tramite collegamento video dalle prigioni dove stanno scontando la pena).

Alcuni ex membri dei servizi segreti e leader militari, che potrebbero essere indagati per crimini commessi in Bosnia Erzegovina, sono stati recentemente ingaggiati per ostacolare le proteste studentesche in Serbia. Un ex comandante di una formazione paramilitare è stato nominato presidente del consiglio di amministrazione del Teatro Nazionale di Belgrado.

Nonostante tutte le prove giudiziarie, le sentenze di condanna per genocidio, le risoluzioni internazionali e l’impegno dei coraggiosi attivisti serbi, la leadership serba è tornata a posizioni simili a quelle di Slobodan Milošević sulla responsabilità della Serbia: tutte le parti hanno commesso crimini, tutte le parti sono responsabili, quindi nessuno è responsabile, ma – come ben sintetizzato dal murales nel centro di Belgrado – solo i serbi sono stati vittima di genocidio.