La Georgia, la Commissione di Venezia e la CEDU

Crescono i casi di cittadini georgiani che si rivolgono alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) contro le politiche di repressione democratica del governo di Tbilisi. Come nel caso della "legge russa" che colpisce le organizzazioni che ricevono finanziamenti esteri

07/08/2025, Marilisa Lorusso -

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Strasburgo, Francia. Sede della CEDU © Skorzewiak/Shutterstoc

La Commissione di Venezia, organo consultivo del Consiglio d’Europa in materia costituzionale, si è rivolta alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) dopo aver deciso di farsi parte terza nel caso GYLA e altri c. Georgia.

Il caso GYLA e altri c. Georgia, presentato il 21 ottobre 2024 da 120 organizzazioni della società civile, 16 organi di stampa e quattro individui, contesta la costituzionalità della Legge sulla trasparenza dell’influenza straniera adottata dalla Georgia. La legge, approvata nel 2024 in un contesto di forti proteste, obbliga le organizzazioni che ricevono più del 20% dei loro finanziamenti dall’estero a registrarsi come soggetti che “perseguono gli interessi di una potenza straniera”.

I critici la definiscono “legge russa”, sostenendo che miri a colpire la società civile e a sopprimere il dissenso e che la sola esistenza della legge, indipendentemente dalla sua applicazione, violi i loro diritti sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo negli articoli 10 (libertà d’espressione), 11 (libertà di riunione e associazione), 13 (diritto a un ricorso effettivo), 14 (divieto di discriminazione) e 18 (abuso delle restrizioni ai diritti).

La mossa della commissione è inusuale: è raro che si faccia parte terza in un caso in via di considerazione e giudizio. Inoltre fa seguito a una precedente secca opinione sulla legge da parte della commissione stessa.

Il tutto evidenzia un’allarmata preoccupazione per il declino democratico della Georgia, i cui sentori la CEDU sta rilevando con nuovi casi in giudizio o con giudizi che arrivano su episodi controversi dell’era del Sogno Georgiano.

Il caso Chichinadze

Il caso di Andro Chichinadze, noto attore georgiano, è diventato emblematico della crescente repressione del dissenso in Georgia. Arrestato nel dicembre 2024 con l’accusa di partecipazione a violenze di gruppo ai sensi dell’Articolo 225, parte 2 del Codice penale georgiano, Chichinadze rischia fino a sei anni di carcere.

La sua detenzione ha suscitato dure critiche da parte di organizzazioni per i diritti umani e di molti intellettuali che vedono in lui non un criminale, ma una figura simbolica della protesta pacifica contro la deriva autoritaria del governo. Ha incassato la solidarietà di colleghi e della categoria che si è mobilitata per lui.

Il suo avvocato, Tornike Migineishvili, ha annunciato che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha ammesso il ricorso e avviato l’esame del caso, riconoscendone la rilevanza.

Chichinadze non è un caso isolato: numerosi attivisti, studenti e giornalisti sono in carcere o sotto processo per aver partecipato alle manifestazioni contro la legge sugli “agenti stranieri” e per le proteste filoeuropee represse brutalmente nel 2024 e 2025.

Organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch hanno denunciato l’uso eccessivo della detenzione preventiva, per intimidire l’opposizione e soffocare la libertà di espressione.

La repressione ha prodotto un clima di paura, con decine di persone incarcerate in attesa di giudizio e sottoposte a campagne di diffamazione mediatica. Piovono sentenze che stanno portando manifestanti a ricevere diversi anni di carcere anche quando l’identificazione in base ai filmati che li dovrebbe ritrarre è dubbia.

La notte di Gavrilov

Le manifestazioni del 20-21 giugno 2019, passate alla storia come la “La notte di Gavrilov”, hanno segnato un punto di svolta nel rapporto tra cittadini e istituzioni. La protesta scoppiò quando Sergej Gavrilov, deputato della Duma russa, parlò dal seggio del presidente del Parlamento georgiano, un gesto percepito come un’umiliazione nazionale.

Le forze di polizia intervennero con una violenza che la CEDU ha definito sproporzionata e priva di adeguata supervisione. Circa 240 persone rimasero ferite, tra cui 40 giornalisti e decine di attivisti.

Cinque ricorsi separati furono presentati alla Corte europea, che nel maggio 2024 ha riconosciuto la violazione dell’articolo 3 della Convenzione (divieto di trattamenti inumani o degradanti), sebbene solo nel suo aspetto procedurale.

La Corte ha stabilito che l’indagine governativa, pur avviata tempestivamente, è stata incompleta e incapace di identificare i poliziotti responsabili, in quanto mascherati e privi di numeri identificativi. Questa lacuna ha impedito di accertare responsabilità individuali e di garantire giustizia alle vittime.

Inoltre, la Corte ha sottolineato la responsabilità dello Stato nel creare condizioni di impunità e ha ordinato risarcimenti tra i 1.800 e i 15mila euro per i danni morali, più seimila euro complessivi per le spese legali.

Ugualmente, non figurano poliziotti condannati per le violenze seguenti alla notte di Gavrilov, nel biennio di mobilitazione che la Georgia sta vivendo, con attualmente 250 giorni circa di manifestazioni ininterrotte.

Il caso del cavo

Il cosiddetto “Cable Case” è uno degli esempi più discussi di giustizia politicizzata in Georgia. Nel 2013, cinque alti funzionari del ministero della Difesa furono accusati di aver sperperato 4,1 milioni di lari (1,3 milioni di euro circa) attraverso un appalto fittizio per la posa di un cavo in fibra ottica.

Condannati nel 2016 a sette anni di carcere, videro nel 2017 il reato derubricato da appropriazione indebita a abuso d’ufficio, ma senza possibilità di difendersi contro la nuova accusa. La Corte Suprema ha negato loro il diritto di ricorso.

Il caso provocò una grave crisi politica, culminata nell’allontanamento del ministro della Difesa Irakli Alasania, allora delfino emergente della politica georgiana, e nell’uscita del suo partito dalla coalizione di governo.

Malgrado la grazia concessa dall’allora Presidente Margvelashvili e la scarcerazione, gli imputati hanno portato la vicenda davanti alla CEDU. L’11 febbraio 2025 la CEDU ha stabilito che i loro diritti a essere informati in modo completo sui capi d’imputazione e a predisporre una difesa adeguata furono violati.

La Corte ha sottolineato l’assenza di trasparenza nella riclassificazione dei reati e la mancata comunicazione delle prove decisive. Questi elementi hanno reso il processo sostanzialmente ingiusto, in violazione dell’articolo 6 della Convenzione.

Il “Cable Case” resta un simbolo della strumentalizzazione del sistema giudiziario per finalità politiche, alimentando sfiducia tra la popolazione e nelle istituzioni.