Strette di mano a Washington, manette a Baku
Il recente incontro di Trump coi leader di Azerbaijan e Armenia, Aliyev e Pashinyan, a Washington, lascia sperare in un accordo di pace. Tuttavia c’è un paradosso: mentre i leader si stringono la mano all’estero, in patria quelli che praticano la riconciliazione vengono criminalizzati

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© SynthEx/Shutterstock
Lo scorso 8 agosto, il presidente Donald Trump, affiancato da Ilham Aliyev e Nikol Pashinyan, leader di Azerbaijan e Armenia, si è seduto ad un tavolo alla Casa Bianca, firmando una dichiarazione in sette punti e una serie di accordi di cooperazione tra Armenia, Azerbaijan e Stati Uniti.
Poi lunedì 11 agosto, Baku e Yerevan hanno diffuso il testo di un accordo di pace concordato nel marzo 2025, ma reso noto solo dopo l’incontro negli Stati Uniti. Tornando alla Casa Bianca, Trump, con un’aria plateale, ha dichiarato: “È passato molto tempo – 35 anni – hanno combattuto e ora sono amici, e lo saranno per molto tempo”.
Tutte queste grandi parole e strette di mano sono molto lontane dalla caotica realtà della riconciliazione tra i due paesi, realtà che non solo viene ignorata , ma anche respinta dalle autorità.
Appena due mesi fa, a giugno, un giovane studioso è stato condannato ad una lunga pena detentiva per aver promosso la pace. L’etichetta di traditore viene utilizzata da persone legate alla leadership al potere, mentre ai membri della società civile, che si battono per la riconciliazione e il superamento dei conflitti, viene preclusa ogni possibilità di impegnarsi in iniziative significative a causa delle leggi restrittive adottate negli ultimi anni.
Questo è il paradosso della pace mediata dalla Casa Bianca: i leader si stringono la mano all’estero, mentre in patria quelli che praticano la riconciliazione vengono criminalizzati.
Il caso di Bahruz Samadov
Samadov, 30 anni, è uno dei pochi cittadini azerbaijani impegnati per la pace tra Armenia e Azerbaijan. Ha scritto molti testi sulla riconciliazione, ma anche sullo stato della democrazia e dei diritti umani in Azerbaijan.
Il giovane studioso stava frequentando un dottorato di ricerca presso l’Università Carolina a Praga. È stato fermato il 21 agosto 2024, mentre era in visita a sua nonna a Baku. La polizia ha arrestato Samadov fuori dalla casa della nonna, consegnandolo ai servizi segreti.
Due giorni dopo, accusato di cospirazione contro lo stato per aver comunicato con alcuni cittadini armeni su WhatsApp, è stato condannato a quattro mesi di custodia cautelare per tradimento.
Sin dal suo arresto, il giovane studioso ha definito false le accuse, affermando che erano direttamente collegate al suo attivismo pacifista e alle critiche rivolte al governo, sia durante la seconda guerra del Karabakh che nel periodo successivo .
Anche in detenzione è rimasto irremovibile nei suoi principi. Durante una delle udienze, Samadov avrebbe gridato : “Viva la pace! Viva la fratellanza tra le nazioni!”.
Il 23 giugno 2025, dopo quasi un anno di custodia cautelare, in un processo a porte chiuse , lo studioso è stato condannato a quindici anni di carcere per tradimento.
Le organizzazioni per i diritti umani , gli organismi che si occupano della libertà di stampa e altri soggetti hanno criticato il processo contro Samadov, vedendovi un’azione motivata politicamente.
Il 30 giugno, Abzas Media – una testata indipendente che si occupa di giornalismo investigativo, il cui intero team di Baku è stato recentemente condannato a lunghe pene detentive – ha pubblicato un’intervista con Samadov.
L’intervistatrice, Ulviyya Ali, è una delle tante giornaliste arrestate in Azerbaijan. Al momento dell’intervista, entrambi erano ricoverati nella struttura ospedaliera del Centro di detenzione preventiva a Baku.
Bahruz Samadov ha tentato il suicidio il 21 giugno, dopo aver appreso la notizia della richiesta di condanna a sedici anni di carcere avanzata dalla procura. Ulviyya Ali ha ricevuto forti colpi alla testa durante un interrogatorio. Nel 2017 ad Ulviyya era stato diagnosticato un adenoma pituitario. I ripetuti colpi alla testa le hanno causato vomito e sanguinamento dal naso. Tuttavia, alla giornalista, che ha bisogno di farmaci e visite regolari, non è mai stata fornita un’assistenza medica adeguata.
Durante l’intervista, Samadov ha affermato che “non dimenticherà mai il trauma” di essere stato trattato “come un terrorista” e messo a tacere per la sua “posizione pacifica”.
“Sostengo, sin dall’inizio, che questa accusa sia in contrasto con gli interessi dello stato. Accusare un accademico di tradimento e sottoporlo a tortura danneggia la reputazione del paese e mette a repentaglio la cosiddetta agenda di pace. La vera motivazione alla base delle accuse resta poco chiara. Non sono né un politico né una persona che scrive per un pubblico ampio. Sono semplicemente un critico radicale. I servizi segreti mi hanno detto che il problema erano gli armeni che citavano i miei articoli”, ha spiegato Samadov durante l’intervista.
Poco dopo l’arresto di Samadov, alcuni dei suoi amici sono stati interrogati come testimoni. A Samad Shikhi, un giovane scrittore, è stato impedito di imbarcarsi su un volo a Baku. Shikhi è stato interrogato sotto pressione in condizioni difficili. Alla fine è stato rilasciato, però con un divieto di viaggiare e l’obbligo di rimanere in silenzio e di non pubblicare nulla sui suoi account social. Shikhi è riuscito a lasciare l’Azerbaijan solo dopo nove mesi trascorsi in un costante stato di ansia, temendo per la propria sicurezza.
La repressione non si ferma
Cavid Agha, un ricercatore indipendente dell’Azerbaijan, era diretto in Lituania per proseguire i suoi studi quando è stato fermato all’aeroporto .
“Mi hanno fermato per interrogarmi [e] una delle prime cose che mi hanno detto è stata: ‘Sei qui perché intrattieni stretti legami con Bahruz’”, ha raccontato Agha in una recente intervista a Global Voices.
Dopo la seconda guerra del Karabakh, molti attivisti sono stati criticati per le loro idee pacifiste e per gli appelli a porre fine ai conflitti armati. Tra questi spiccano i nomi di Ahmed Mammadli , Emin Ibrahimov, Emrah Tahmazov, e tanti altri .
Lo stesso Samadov, prima di essere arrestato, ha scritto per Eurasianet di atti intimidatori e campagne contro gli attivisti per la pace. Queste campagne e accuse non sono un fenomeno nuovo : si tratta di strumenti utilizzati ormai da tempo per colpire i critici del governo e i membri della società civile in Azerbaijan.
Senza un impegno per liberare Samadov e difendere i diritti degli attivisti, il recente accordo di pace rischia di rimanere meramente simbolico. Un’autentica riconciliazione richiede iniziative per sostenere un dialogo tra diverse comunità.
Per passare dagli accordi siglati ai tentativi di guarire una società ferita, il rilascio di sostenitori della pace, come Samadov, rappresenterebbe un gesto di buona volontà, fondamentale per rendere credibile la pace concordata agli occhi dei cittadini.
Abbandonando la propaganda e la retorica di stato – utilizzata per colpire chi promuove la pace – e garantendo la protezione legale a tutte le persone coinvolte in iniziative transfrontaliere, l’Azerbaijan farebbe un ulteriore passo nel suo percorso verso la pace.
Andrebbero poi abolite le leggi restrittive – che hanno reso impossibile il lavoro della società civile in Azerbaijan – e sostenute le iniziative per rafforzare la fiducia tra le due nazioni.
Coinvolgere tutte le parti nella fase successiva, comprese le comunità sfollate e la società civile, garantendo che gli accordi scritti riflettano effettivamente le esperienze vissute, può contribuire a spostare la narrazione da un’idea di pace come spettacolo ad una visione di pace come processo, portando la riconciliazione là dove conta di più: tra le persone.
In un messaggio pubblicato alla vigilia dell’incontro alla Casa Bianca, Human Rights Watch ha invitato l’amministrazione Trump ad approfittare dell’incontro con il presidente Ilham Aliyev vedendovi un’opportunità “per gli Stati Uniti di sollevare pressanti preoccupazioni per la sconcertante repressione del dissenso in Azerbaijan”.
Dalla guerra del Karabakh del 2020, le autorità azerbaijane hanno intensificato la campagna di arresti e repressione contro la già fragile società civile, colpendo giornalisti , difensori dei diritti umani , attivisti politici e tanti altri con accuse false e pretestuose.
A rafforzare questa repressione è un sistema di propaganda di stato che dipinge l’Armenia come un nemico esistenziale permanente. In quest’ottica, parlare con gli armeni e sostenere la riconciliazione significa schierarsi con il nemico, e quindi tradire la nazione.
Sarebbe ingenuo aspettarsi un impegno significativo da parte delle autorità di Baku in assenza di una società civile vivace e di media indipendenti, portando gli osservatori a chiedersi se l’impegno della leadership azerbaijana per una pace duratura sia solo di facciata.












