Trent’anni dopo: “Ciao Europa” e “Guerra?”
Trent’anni fa, barchette di carta sulla Miljacka trasportavano messaggi da Sarajevo: "Ciao Europa" e "Guerra?": domande che riecheggiano nel mondo, più potenti che mai. Mentre Sarajevo porge la mano a Gaza e alla Global Sumud Flotilla, passato e presente si fondono nello stesso fiume di resistenza e speranza

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Così vicino, così lontano, Agosto 1994 Sarajevo - © Patrick McCarthy
Una mostra d’arte intitolata "Guerra?" a Sarajevo sotto assedio è stata accompagnata da una performance sul fiume Miljacka con la scritta "Questo non è un muro ". Le parole riecheggiavano la pipa di René Magritte che non era una pipa, qui una pipa della pace che non porta pace, ma solo il peso della sua assenza.
Questa non era una mostra, ma un invito: un processo vivo e pulsante che chiamava gli altri a partecipare. Gli artisti parlavano di abbattere i muri, quelle antiche barriere di pietra e sospetto, ma anche dei muri liquidi che l’acqua costruisce tra noi, i confini invisibili che scorrono attraverso il cuore di una città come vene attraverso un corpo che invecchia.
Tvrtko Kulenović ha aperto la mostra affermando che era la sua "preferita in assoluto", ricordando il cosiddetto "paradosso di una sfera", per cui una sfera solida può essere tagliata e poi riassemblata per diventare piccola come un punto o grande come il cosmo stesso, contraddicendo l’intuizione geometrica che suggerisce che il volume di una sfera debba essere conservato. Sosteneva che questo fosse ciò che l’arte cercava di fare: dispiegare il cosmo per ricomporlo come avrebbe dovuto essere.
In quel processo di dispiegamento, il processo era finalizzato a rompere i muri imposti dal più lungo assedio di una città nella storia moderna (5 aprile 1992 – 29 febbraio 1996), nel cuore dell’Europa. Dal ponte di Drvenija (il cui nome deriva dall’Impero Ottomano, ma forgiato durante il dominio austro-ungarico del XIX secolo), un’imbarcazione improvvisata costruita dai partecipanti fu lanciata nella corrente.
Costruita con taniche d’acqua e detriti di sopravvivenza, questa piccola arca recava sulle sue vele improvvisate due messaggi: "Ciao Europa! Siamo il mondo!" e "WARum?". Il primo, un saluto sarcastico alla comunità internazionale che osservava passivamente; la seconda, una parola tedesca che combina “guerra” e “perché”: l’eterna domanda che tormenta ogni luogo violato da aggressione e ingiustizia.
I partecipanti costruivano barchette di carta con messaggi, lasciandole fluire con la corrente. Il semplice atto di navigare è diventato un atto di protesta e di fede: protesta contro un piano che avrebbe permesso all’occupazione serba di dividere la città e fede che i muri possano cadere, che le acque possano guarire, che il mondo possa davvero rispondere se chiamato per nome attraverso l’oscurità che scorre.
Il filosofo Zdravko Grebo, presente anche lui, ha osservato che alla fine del XX secolo i muri divisori esistono ancora e devono essere distrutti, anche se ciò significa schiacciarci la testa contro per cambiare il mondo.
Il toccante simbolismo di tale trasformazione è presente nello stesso ponte di Drvenija (chiamato così per il legno, drvo, all’epoca di un solo impero, ma figlio delle ambizioni imperiali del XIX secolo) che soffriva degli umori del fiume, spazzato via quando si gonfiava con la furia della primavera o il dolore dell’autunno.
Solo alla fine degli anni ’80, in quel momento carico di tensione prima che l’aggressione pianificata da tempo si materializzasse per distruggere la Bosnia ed Erzegovina, è stato costruito il ponte permanente in cemento, adornato con ringhiere in legno in memoria di ciò che era stato un tempo.
Durante gli anni dell’assedio, mentre Sarajevo veniva terrorizzata con la massima intensità mai registrata, superando i 3500 proiettili in un giorno, il ponte faceva da sentinella. Sfregiato e ostinato, si univa alla schiera dei ponti feriti sul fiume Miljacka, ogni campata a testimonianza di un legame che persiste nonostante la distruzione.
Oggi, alcuni cittadini di Sarajevo stanno facendo lo stesso in un atto di solidarietà con la Global Sumud Flotilla , "una coalizione di persone comuni – organizzatori, filantropi, medici, artisti, sacerdoti, avvocati e marinai – che credono nella dignità umana e nel potere dell’azione non violenta".
Barchette di carta con messaggi di sostegno navigano lungo il fiume Miljacka : un atto simbolico che riecheggia le letture settimanali dei nomi dei bambini assassinati a Gaza dall’ottobre 2023, organizzate spontaneamente dai cittadini davanti al Memoriale per i bambini assassinati di Sarajevo o al "Fuoco eterno" che commemora l’eroica lotta antifascista contro il regime nazista. Greta Thunberg, membro del comitato direttivo della Flotilla, si è unita alla lettura un mese prima che la Flotilla salpasse verso le coste di Gaza.
Sebbene, innegabilmente, sia stata l’eroica resistenza armata a permettere la sopravvivenza della Bosnia Erzegovina contro le forze del terrore, tutte le forme di resistenza contavano. Che si trattasse delle nostre finte recite scolastiche nelle scale e nei corridoi o di eventi culturali più strutturati come la resistenza istituzionale alla protezione del patrimonio collettivo o la protezione del manoscritto ebraico medievale Haggadah da parte del Museo nazionale della Bosnia Erzegovina, ognuno di questi era una piccola ribellione contro l’oscurità che cercava di rubare la gioia della vita.
Contribuivano ad uno spirito di sfida di fronte al male così profondo da non poter sopportare la vista della felicità. Un’oscurità che avrebbe puntato il mirino su una bambina di nove anni non per un crimine, ma per l’insopportabile offesa del suo sorriso: perché aveva osato essere gioiosa, perché si muoveva nella follia come se la luce esistesse ancora nel mondo. Un cecchino, prima di suicidarsi , ha confessato questa verità: la sua felicità era stata la sua condanna, la bambina era felice e sorridente come se la follia intorno a lei non fosse esistita.
Questa verità, e molto di più, scorre oggi attraverso la Global Sumud Flotilla, che si muove verso Gaza con sfida mentre ci aggrappiamo disperatamente alla nostra umanità, pronti a ricomporre il cosmo affinché diventi più giusto e compassionevole. Trent’anni dopo, le stesse domande si increspano su acque diverse, la stessa speranza naviga verso sponde diverse, eppure la corrente che le trasporta entrambe rimane costante: quel fiume ostinato di resistenza che si rifiuta di lasciare che l’oscurità abbia l’ultima parola.












