Centri in Albania: a che punto siamo?

Nati tra le polemiche ed accusati di essere uno spazio grigio dal punto di vista legale, l’hotspot di Shëngjin e il centro di permanenza per rimpatri di Gjadër dovevano trasformare il modello di gestione delle migrazioni in Italia. Ma cosa sta accadendo realmente in Albania?

15/09/2025, Sara Varcounig Balbi -

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L’ingresso del centro di Gjadër in Albania © Luca Rondi

Nelle poche foto disponibili, il centro di permanenza per rimpatri (Cpr) di Gjadër in Albania appare come una distesa di prefabbricati grigi, affacciati su un cortile di cemento. Tutto intorno, una rete metallica protende verso il cielo e imprigiona lo sguardo all’interno della sua grata.

Infine, un imponente cancello separa gli internati dall’esterno. Qui, sulla porta d’ingresso del centro, spuntano le ultime note di colore in un mondo di grigi. Sventolando indisturbate, si distinguono due bandiere: una blu, europea, e una verde-bianco-rossa, italiana.

La trasformazione del “Modello Albania”

Il “Protocollo Italia-Albania”, sottoscritto il 6 novembre 2023 e ratificato con la legge 14/2024 , prevede la creazione di due strutture in territorio albanese – l’hotspot nel porto di Shëngjin e il centro a Gjadër – “al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea e per il tempo strettamente necessario alle stesse”.

Parafrasando, quindi, prescrive che due aree, extraterritoriali ed extraeuropee, vengano trasformate in “frontiera” dello Stato italiano. L’obiettivo è quello di regolare le procedure d’esame accelerate dei migranti cosiddetti "non vulnerabili”, provenienti da “Paesi di origine sicura” e soccorsi in mare.

Tuttavia, negli ultimi mesi, la funzione dei centri albanesi è cambiata. Dopo i numerosi interventi della magistratura italiana ed europea, che mettevano in luce i limiti legali dell’operazione, il governo italiano è stato obbligato ad interrompere il trasferimento in Albania delle persone soccorse in acque italiane.

Per questo motivo, ad aprile 2025 ha deciso di cambiare radicalmente l’implementazione dell’accordo, lasciando operativa solamente l’area adibita a Centro per il rimpatrio (Cpr) a Gjadër e trasferirvi migranti già presenti in strutture sul suolo italiano. 

In Italia, diversi enti che si occupano dei diritti dei richiedenti asilo hanno spesso definito i Centri per il Rimpatrio come buchi neri, luoghi d’eccezione in cui il diritto è sospeso e nei quali si vive nell’attesa di un rimpatrio che avviene raramente.

Dalle denunce emerge un sistema di strutture simile a delle vere prigioni, nonostante i trattenuti siano colpevoli di una violazione amministrativa e non penale. “Da quasi trent’anni il sistema Cpr presenta criticità strutturali: oltre trenta morti, atti quotidiani di autolesionismo, uso massiccio e documentato di psicofarmaci” spiega a OBCT il giornalista di Altreconomia Lorenzo Figoni co-autore dell’inchiesta “Gorgo Cpr ”. “Il Cpr di Gjadër – aggiunge Figoni – funziona esattamente come un Cpr italiano”.

Il Tavolo Asilo e Immigrazione (TAI) – coalizione nazionale di organizzazioni impegnate nel campo della protezione internazionale, del diritto dell’immigrazione e delle politiche migratorie – ha definito questa nuova fase del “modello Albania”: un “laboratorio politico permanente", uno spazio “sospeso” caratterizzato da un’opacità procedurale in cui “si sperimentano pratiche di sospensione dei diritti e di concentrazione del potere esecutivo”.

Nel rapporto del TAI “Ferite di confine ” pubblicato a luglio, viene sottolineato che la volontà politica di rendere difficoltoso l’accesso ai dati su Gjadër ha creato uno svuotamento degli spazi di democrazia: la mancata informazione da parte delle istituzioni è funzionale a sottrarre lo spazio alla sfera pubblica, marginalizzando chi vi risiede e contribuendo ad una disumanizzazione istituzionalizzata.

Cpr Albania: produttore di invisibilità 

Il rapporto del TAI descrive inoltre le modalità del trasferimento in Albania: le persone vengono prelevate la sera, senza informazioni sulla loro destinazione e trasferite con le mani legate da fascette. Un procedimento attuato sistematicamente e senza la giustifica di provvedimenti amministrativi scritti, chiari e motivati. In più, elenca le violazioni di diritti fondamentali che avvengono nel centro, una situazione di violenza strutturale amplificata a causa della sua posizione extraterritoriale ed isolata.

In questo contesto, l’impatto psichico della detenzione amministrativa sulle persone migranti è ulteriormente amplificata. Il TAI riporta, infatti, come alle condizioni strutturali di marginalità tipiche del Cpr, si aggiungono l’isolamento linguistico e culturale, la scarsa presenza di mediatori e quello relazionale, determinato dalla distanza fisica con l’Italia, con effetti anche sul proprio diritto alla difesa.

Oltre a ciò, il centro di Gjadër non offre la possibilità di svolgere attività ricreative e non ha una mensa comune, costringendo le persone a consumare il pranzo all’interno della loro camerata, facendo a turno su un tavolino. Infine, si crea anche una situazione di rischio correlato all’extraterritorialità sanitaria.

Come in tutti i Cpr, la “questione salute” è privatizzata: gestita dall’Ente privato che ha ottenuto l’appalto ma sottoposta al controllo dell’ASL di riferimento. Nel caso di Gjadër, il personale assunto dalla cooperativa Medihospes è albanese, mentre l’ASL adibita è quella di Roma, sollevano dei dubbi sia sull’effettività dei suoi controlli, sia sul tipo di linee-guida seguite.

A questo proposito, il 28 luglio scorso, dopo un ricorso d’urgenza, il Tribunale di Roma ha ordinato l’immediata liberazione di un cittadino straniero trattenuto nel Cpr albanese come misura di tutela del suo diritto fondamentale alla salute.

Nella decisione si legge : “Dal diario clinico non si evince nemmeno a quale ordine appartengano i medici che hanno in cura il ricorrente e se appartengano o meno al servizio sanitario italiano. Infatti, non risulta essere presente in Albania un presidio fisso del Servizio Sanitario Nazionale italiano, mentre appare evidente la necessità che il ricorrente debba essere preso in carico da una struttura adeguata quale il centro di salute mentale presso la ASL”. 

A fine luglio i Garanti per i detenuti del Lazio e di Roma, Stefano Anastasìa e Valentina Calderone, hanno effettuato la prima visita al centro. Nel comunicato si legge: “Il numero estremamente limitato delle persone attualmente presenti nel Cpr, appena 27, insieme con la disponibilità di posti nei Centri collocati sul territorio nazionale, rende non giustificato il trasferimento in Albania”.

Un’opinione condivisa anche da Fabrizio Coresi, esperto di migrazioni per ActionAid. Coresi ritiene che, con i numerosi posti vuoti nelle strutture italiane, il trasferimento nel Cpr albanese è “irrazionale e illogico”.

Secondo i dati del rapporto di luglio del TAI, a Gjadër sono state trasferite in totale 132 persone, di cui 32 effettivamente rimpatriate. Il primo rimpatrio “esternalizzato”, come emerge da un’inchiesta di Altreconomia, è avvenuto il 9 maggio direttamente da Tirana. Un’operazione, come viene denunciato nel rapporto “Ferite di Confine”, che costituisce una “doppia violazione”, sia del diritto UE, sia delle stesse disposizioni previste dal “Protocollo Italia-Albania”.

Un’operazione costosa

“Ricostruire i costi totali è complesso” spiega Lorenzo Figoni a OBCT. “Secondo i dati ottenuti da ActionAid e dall’Università di Bari, considerando solo le spese di gestione del 2024, in cinque giorni effettivi di funzionamento (con un massimo di 12 persone presenti in ottobre, su un totale annuale di 20 persone detenute) sono stati erogati all’ente gestore [Medihospes] circa 114.000 euro al giorno, per un totale di oltre 570.000 euro. E questo senza includere le spese di costruzione, di impiego delle forze dell’ordine e altre voci rilevanti”.

In generale, i costi del sistema detentivo italiano sono estremamente alti. In base al rapporto “Trattenuti ” , l’organizzazione ActionAid li definisce “fuori controllo”. Solo nel 2024, gli investimenti nel settore sono stati di circa 96 milioni di euro, più del totale dei 6 anni precedenti (circa 93 milioni euro). Numeri, riportati in dettaglio nel rapporto, che fanno pensare che questi “buchi neri” non “divorino” solo le persone ma anche grandi quantità di soldi.

“Una detenzione di fatto, affidata a soggetti privati che guadagnano in proporzione al numero di persone trattenute e ai giorni di permanenza” commenta Figoni, che aggiunge “Il costo è peraltro una questione marginale, se consideriamo la disumanità di un sistema di trattenimento amministrativo che arriva ad essere declinato nella costruzione di campi al di fuori dai confini europei”.

Tornando alla “questione Albania”, ActionAid denuncia l’operazione come “il più costoso, inumano e inutile strumento nella storia delle politiche migratorie italiane” e afferma che per i due centri extraterritoriali sono stati stanziati 74,2 milioni di euro, stimando che l’allestimento di un posto letto sia costato oltre 153 mila euro.

Numeri molto maggiori rispetto alle strutture italiane. Per fare un confronto, l’organizzazione cita il caso di Porto Empedocle, in Sicilia, dove nel 2024 le spese di costruzione sono state di un milione di euro per 50 posti letto effettivi (circa 21 mila euro a posto). 

A proposito di costi, anche il primo rimpatrio effettuato da Tirana il 9 maggio è pesato non poco. Secondo i dati di Altreconomia, l’operazione è costata, solo di affitto charter, 31.779 euro in più rispetto alle spese dell’ultimo rimpatrio partito dall’Italia, considerando la stessa destinazione e a parità di persone. Quindi si è speso 6.300 euro in più per ogni rimpatriato.

E in Albania?

Durante la costruzione dei centri, OBCT aveva già rivelato alcune perplessità e critiche sollevate da chi abita nelle due cittadine albanesi. A distanza di un anno dall’apertura delle strutture, come il giornalista Lorenzo Figoni ha dichiarato a OBCT: “La popolazione locale non ha tratto benefici significativi dall’operazione. Invece si è rivelata un buon affare per alcune società private, come quella che gestisce l’hotel dove alloggiano le forze dell’ordine italiane”.

Il molo di attracco del porto di Shëngjin (foto G. Vale)

Prendendo in esame la cittadina costiera di Shëngjin, secondo un recente reportage di Altreconomia, l’attuazione del Protocollo Italia-Albania avrebbe comportato effetti diversi. Da un lato, nell’ultimo anno, almeno 50 persone avrebbero perso il lavoro al porto; dall’altro la società Rafaelo resort hotel Spa avrebbe ricevuto 8,9 milioni di euro dal Viminale per l’ospitalità delle forze dell’ordine italiane da giugno 2024. Un confronto che fa riflettere, alla luce dell’inattività attuale del centro.

“L’unico movimento visibile riguarda l’hotel dove alloggiano le forze dell’ordine” spiega Figoni. “Partenza degli autobus diretti a Gjadër o uscite serali, in gruppo, verso i locali della zona. Come se fosse una vacanza”.

Neanche a Gjadër la situazione è migliore. Intorno al centro girano dubbi, voci non verificate e poche informazioni. “L’ente gestore ha assunto circa il 20% di personale albanese, ma gli abitanti della città che hanno trovato impiego nel centro si contano sulle dita di una mano” commenta il giornalista di Altreconomia. Tra questi, solamente pochi riescono a parlare con la stampa. 

Un’altra inchiesta di Altreconomia ha, infatti, portato alla luce il "clima di terrore" diffuso tra i lavoratori albanesi assunti dalla cooperativa Medihospes. "La maggior parte dei lavoratori continua a evitare di parlare con i giornalisti, per timore di ritorsioni o licenziamenti” testimonia Figoni ad OBCT,  "Ci è stato riferito in merito che sono stati anche obbligati a firmare una clausola relativa a un ‘obbligo di fedeltà’".

Dall’inchiesta emerge come i contratti di lavoro sono circondati da un clima opaco, un contesto ambiguo in cui tra i principali punti critici si ritrovano: condizioni di base inadeguate, norme sul lavoro non rispettate e un’organizzazione confusa.

Così, se per l’Italia l’operazione sembra essersi ridotta ad un elenco di spese pubbliche, per l’Albania gli unici guadagni sono stati privatizzati, senza alcun vantaggio per la collettività. 

Quale futuro per i centri?

Il 1° agosto 2025, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha emesso una sentenza destinata ad influenzare il “modello Albania”. La pronuncia della Corte, in realtà, mira solamente a chiarire la nozione di “Paese di origine sicuro” all’interno del diritto comunitario, tuttavia, sottolinea l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), tale designazione incide direttamente sul quadro normativo italiano e sui presupposti giuridici del Protocollo Italia-Albania in materia di esternalizzazione dell’asilo.

Infatti, la Corte europea era stata chiamata a pronunciarsi su un rinvio pregiudiziale del Tribunale di Roma, relativo al ricorso di due cittadini bangladesi. La loro domanda di asilo era stata respinta in Albania con procedura accelerata, in quanto provenienti da uno stato considerato “sicuro” dal governo italiano. A novembre 2024, il Tribunale romano si era rivolto poi alla CGUE per far luce su alcuni aspetti della normativa. 

Ora, quella risposta è arrivata. Come riportato nel comunicato stampa , la Corte si è espressa su tre punti fondamentali. In primis, ribadisce che il diritto dell’UE “non osta” alla designazione di un Paese terzo come “Paese di origine sicuro" da parte di uno Stato membro, a condizione che questa possa essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo.

In secondo luogo, le fonti di informazione alla base di questa definizione “devono essere sufficientemente accessibili, sia per il richiedente che per il giudice competente". Infine, non ammette la possibilità di “eccezioni”, sostenendo che un Paese “sicuro” deve esserlo per tutti e non solo per alcune categorie di persone.

In sostanza, spiega ad OBCT Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS ): “La CGUE ha ribadito che la definizione di ‘Paese di origine sicuro’ non è un atto politico ma una procedura di legge che il governo deve rispettare, come scritto nella direttiva 32/2013 ”. Una sentenza che avrà una ricaduta su qualunque domanda d’asilo: dai soccorsi in mare alla rotta balcanica".

La fine del "modello Albania" quindi? Per ora, realisticamente parlando, sembra di no.

Questa pronuncia sradica i presupposti e le fondamenta logiche alla base dell’attuazione del Protocollo nella sua fase originaria, però non tocca l’attuale implementazione dell’accordo: l’utilizzo del Cpr di Gjadër. Su questo punto bisognerà attendere la futura pronuncia della CGUE, richiesta dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza 23105 dello scorso 20 giugno.

Nello specifico, la Corte italiana pone dubbi sulla legittimità dell’operazione alla luce della direttiva 115/2008 , (cosiddetta “Direttiva Rimpatri”), sollevando due quesiti che potrebbero minare l’esistenza stessa dei centri. Ora, alla luce del rinvio della massima autorità giudiziaria italiana, il governo italiano avrebbe dovuto sospendere i trasferimenti ma, per adesso, sembra abbia scelto di proseguire. 

"Tutti hanno capito che il ‘modello Albania’ non è più gestibile", afferma Schiavone, "ma la domanda ora è: cosa vuole fare il governo italiano? Vedendo un atteggiamento così aggressivo, temo voglia continuare con questo braccio di ferro".

Per il Presidente dell’ICS, l’Italia sta aspettando l’entrata in vigore del nuovo Patto UE per l’Asilo e l’Immigrazione a giugno 2026, nella speranza che cambi qualcosa. Al momento, la proposta del nuovo regolamento non prevede la possibilità di creare centri extraeuropei ma in un’Unione più "debole", orientata sulla difesa dei propri confini e con un approccio sempre più restrittivo, si aprono difficili scenari futuri.

Per esempio, ha ricordato a OBCT Gianfranco Schiavone, l’articolo 17 della proposta di regolamento sostitutivo dell’attuale “Direttiva Rimpatri", presentata a marzo dalla Commissione europea. La norma prevede di poter rimpatriare le persone in uno Stato terzo, sulla base di un accordo con uno Stato membro, trasferendo così di fatto la gestione degli espulsi a Paesi extra UE. Una possibilità ardita in un contesto controverso, definita da Schiavone come "vendita di esseri umani", ma che, al momento, resta confinata solo su carta. Un progetto tuttavia diverso da quello attualmente in corso in Albania. 

Su questo tema, lo scorso 4 settembre il Commissario europeo per i diritti umani del Coe, Michael O’Flaherty, ha reso pubblico il rapporto "Externalised asylum and migration policies and human rights law ". In esso viene largamente citato il Protocollo Italia-Albania e viene evidenziato come la diffusione tra gli Stati membri dell’adozione di accordi con Stati terzi in materia di immigrazione, porti al rischio concreto di lesione dei diritti delle persone migranti ai quali vanno garantite, in maniera trasparente, tutele non negoziabili.

"Per ora, cosa sarà possibile fare in futuro non lo sa nessuno", conclude il presidente dell’ICS, "è tutto avvolto nella nebbia". Per Lorenzo Figoni di Altreconomia, è presto per parlare di "fallimento" dei centri albanesi, vista l’attuale incertezza: "Il vero fallimento è quello umano, che è un fallimento italiano ed europeo dal sapore razzista e coloniale". 

Al di là delle previsioni future, il "modello Albania" racconta di persone marginalizzate e dimenticate, degli “invisibili” della nostra contemporaneità, così lontani dallo sguardo da essere confinati in uno spazio fuori dal territorio italiano. 

"Voglio solo qualcosa per perdere tempo. Siamo dimenticati. Quando mi chiamano io dico ‘non ci sono’ perché da quando sono qui non ci sono" racconta una voce anonima di Gjadër. Documentare la realtà dei centri significa ricostruire un mondo celato allo sguardo pubblico, aprendo quella grata di invisibilità che circonda la struttura e restituendo umanità a quel "non ci sono".