Ucraina: donne che combattono una guerra invisibile

Oltre alla distruzione e ai morti sul campo di battaglia, la guerra portata dalla Russia in Ucraina crea vittime invisibili, molto spesso donne. Reti di solidarietà al femminile tentano di aiutare chi è rimasto vittima di rapimenti, sfruttamento e traffico di esseri umani 

23/09/2025, Anna Romandash -

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Ucraina, profughi - © Yanosh Nemesh/Shutterstock

Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, nel febbraio del 2022, il mondo ha osservato i carri armati attraversare i confini, i missili cadere sulle città e milioni di rifugiati riversarsi in Europa. Meno visibile, ma non meno devastante, è un’altra guerra che si svolge lontano dai riflettori: rapimenti, sfruttamento e trasferimenti illegali di civili.

Nei territori occupati, le forze di sicurezza russe rapiscono insegnanti, giornalisti e cittadini comuni. Lungo le rotte migratorie, i trafficanti catturano donne e bambini in fuga dai bombardamenti. Eppure, sono proprio le donne ucraine a intervenire per colmare i vuoti lasciati dalle istituzioni statali, messe a dura prova.

“Lo sfollamento rende le persone vulnerabili”, afferma Kateryna Borozdina, coordinatrice delle linee di assistenza gestite dall’associazione La Strada-Ucraina . “Le persone fuggono dalle bombe, lasciando tutto alle spalle, e i trafficanti approfittano di questa incertezza ogni singolo giorno”.

Il team di Borozdina gestisce due linee di assistenza: una per la violenza domestica, la tratta di esseri umani e la discriminazione di genere, l’altra per bambini e adolescenti. Solo nel 2023, hanno ricevuto quarantacinquemila chiamate. “Circa il 3% riguarda la tratta di esseri umani”, spiega Borozdina, “non è però un numero esiguo. Rappresenta persone reali in pericolo, e la tendenza è in aumento”.

La squadra di Borozdina ora sperimenta nuovi strumenti non convenzionali: un corso online su Prometheus e un gioco di ricerca interattivo che consente alle giovani donne di affrontare i rischi simulati della tratta.

“I trafficanti sanno come manipolare una situazione di emergenza. Ti dicono: ‘Non perdere questa occasione, ce l’hai solo tu’”, afferma Borozdina. “Dobbiamo insegnare alle persone a riconoscere queste trappole prima che sia troppo tardi”.

Rompere il silenzio dei rapiti

Leniye Umerova sostiene che il pericolo non provenga tanto dai trafficanti quanto dallo stato russo. Alla fine del 2022, questa attivista tatara, originaria della Crimea, ha provato a raggiungere suo padre gravemente malato in Crimea. La penisola è sotto occupazione russa dal 2014, quando Mosca ha organizzato un referendum illegale dopo aver occupato militarmente il territorio.

Da allora, i tatari di Crimea – popolazione indigena della regione e tra i più accesi oppositori dell’annessione – subiscono una repressione sistematica: perquisizioni, arresti, sparizioni forzate. Sono almeno 205 i prigionieri politici di Crimea attualmente detenuti, di cui 134 tatari.

Per Umerova, tornare per sostenere la sua famiglia significa addentrarsi in un luogo in cui la sua stessa identità la rende sospetta. Con le rotte dirette dall’Ucraina continentale alla Crimea bloccate a causa guerra, è stata costretta a fare una deviazione, un viaggio durato una settimana, attraverso la Georgia e la Russia, esponendosi così al rischio di essere controllata dalle guardie di frontiera russe.

Raggiunto un posto di blocco, gli ufficiali hanno esaminato il suo passaporto ucraino. C’era scritto anche il suo luogo di nascita: Crimea. “Mi hanno chiesto un passaporto russo, che però non avevo”, ricorda Umerova. Poche ore dopo, alcuni uomini in borghese l’hanno fatto salire dall’autobus. “Da quel momento in poi, sono scomparsa”.

Umerova è stata trasferita più volte da un centro di detenzione all’altro in Ossezia del Nord, le è stata negata l’assistenza legale ed è diventata vittima di false accuse. In un primo momento, è stata accusata di aver violato le norme sull’immigrazione. Poi alcuni mesi dopo, i russi l’hanno accusata di spionaggio. Nel carcere di Lefortovo a Mosca, Umerova ha incontrato altre donne ucraine rapite nei territori occupati.

“Ad una donna, volontaria, proveniente dalle zone occupate della regione di Zaporizhia, hanno rotto la mascella durante un interrogatorio”, racconta Umerova. “È stata poi costretta a rendere una confessione davanti alle telecamere. Per nascondere la ferita, le hanno messo una maschera sul viso”.

Un’altra donna detenuta, un’insegnante di Kherson, è stata arrestata per aver organizzato una scuola clandestina. Tra le detenute ci sono anche molte madri separate dai figli, giornaliste punite per aver alzato la voce e attiviste tacciate come “terroriste” che operavano nei territori occupati dell’Ucraina meridionale e orientale.

“Abbiamo tutte una cosa in comune: l’invisibilità”, afferma Umerova. “Siamo civili, non soldatesse. Ma le nostre vite sono considerate sacrificabili”.

Umerova ha trascorso più di un anno a Lefortovo, sopportando privazione del sonno e pressioni psicologiche. Nel 2024 è stata rilasciata grazie ad uno scambio di prigionieri. Oggi si batte per la liberazione degli ostaggi civili ancora rinchiusi nelle carceri russe.

“I prigionieri di guerra sono visibili, a differenza di quelli civili. Anche questi ultimi però sono cittadini ucraini. Sono in prigione solo perché rifiutano di rinunciare alla propria dignità”.

Superare lo stigma

Anche per chi torna, la libertà non significa pace. I sopravvissuti alla prigionia e alla tratta di esseri umani affrontano stigma, disoccupazione e traumi psicologici duraturi.

“Ad accompagnare le donne sopravvissute non è solo il trauma, ma spesso anche con il sospetto delle loro comunità”, spiega Nina Pakhomiuk, responsabile dell’organizzazione Volyn Prospects , un collettivo femminile che si occupa dei diritti umani nell’Ucraina occidentale e sostiene le donne che tornano dalle prigioni russe e dalle reti della tratta.

“I vicini sussurrano che se una donna è stata imprigionata in Russia o è stata vittima di tratta, deve aver collaborato o ceduto alle pressioni”, afferma Pakhomiuk. “Il nostro compito è aiutare queste donne a ricostruire la loro dignità, trovare un lavoro, ricongiungersi con i loro figli e ricordare loro che hanno un futuro”.

L’organizzazione guidata da Nina Pakhomiuk offre spazi sicuri, terapia e formazione professionale. Gestisce reti di supporto in cui le donne si aiutano a vicenda per superare la burocrazia e i traumi.

“Le donne sopravvissute non possono guarire da sole”, spiega Pakhomiuk. “Quello che cerchiamo di fare è costruire una comunità di fiducia, affinché le donne non scompaiano due volte, ridotte prima in prigonia, poi al silenzio”.

La tratta di essere umani non è circoscritta alle carceri russe. In tutta l’Ucraina e lungo i suoi confini, le donne sfollate cadono preda dello sfruttamento. Alcune vengono attirate con promesse di alloggio o lavoro, per poi essere costrette a lavori o matrimoni forzati. Altre rimangono in Ucraina, accettando però accordi imposti semplicemente per sopravvivere.

“In alcuni casi, le donne ci dicono che preferirebbero essere sfruttate piuttosto che tornare in una casa distrutta”, spiega Kateryna Borozdina. “Questa non è una scelta, è disperazione”.

La linea di supporto gestita da Borozdina riceve chiamate da donne costrette a lavorare nelle fattorie in condizioni di sfruttamento e violenza nell’Ucraina occidentale, ma anche da donne alle quali è stato offerto “un alloggio gratuito” in cambio di rapporti sessuali.

Molte storie iniziano online. “I trafficanti spingono le persone ad abbandonare le piattaforme sicure a favore delle applicazioni crittografate come Telegram e WhatsApp”, spiega Borozdina. “Vogliono insabbiare le tracce, rendendo più difficili ritrovarle”.

La crisi economica causata dalla guerra non fa che aggravare questi rischi. Molte persone che hanno perso tutto accettano lavori senza alcun contratto. “La guerra – conclude Borozdina – ha trasformato ogni decisione finanziaria in una questione di vita e di morte”.

Costruire sistemi da zero

I gruppi di monitoraggio internazionali stimano che i casi di tratta nelle aree dell’Ucraina interessate dal conflitto siano aumentati di quasi il 40% dal 2022. Allo stesso tempo, la Russia ha deportato decine di migliaia di civili dai territori occupati. Molti di questi civili rimangono dispersi.

È in questo vuoto che si inseriscono donne come Umerova, Borozdina e Pakhomiuk. Le loro iniziative spaziano dalla prevenzione al salvataggio e al reinserimento: rintracciare le persone scomparse, documentare gli abusi, fare pressione per organizzare gli scambi di prigionieri, formare le donne sopravvissute e aiutarle a rifarsi una vita.

L’infrastruttura è fragile e sottofinanziata, ma resiliente. “Ogni telefonata, ogni abuso scongiurato, ogni donna che non si chiude nel silenzio: questi momenti si moltiplicano”, afferma Borozdina.

Umerova considera il suo lavoro profondamente personale. Riceve ancora lettere dalle donne che ha incontrato a Lefortovo. “Mi scrivono: ‘Siamo felici che lei sia stata liberata. Ci dà speranza”, spiega l’attivista. “Ecco perché racconto la mia storia. Se le persone vedono un volto, reagiscono. Se reagiscono loro, reagiscono anche i governi”.

Le donne che guidano queste iniziative respingono l’idea per cui certi fenomeni – come la tratta, le deportazioni e detenzioni illegali – sarebbero danni collaterali della guerra, affermando con insistenza che si tratta di questioni fondamentali.

“Questa guerra non si combatte solo con le bombe”, sottolinea Umerova. “Si combatte anche nelle prigioni, nei rifugi, nel modo in cui difendiamo la dignità”.

Costruendo reti di supporto, denunciando i crimini e aiutando le persone sopravvissute a reintegrarsi, le donne ucraine non solo proteggono i più vulnerabili, ma gettano le basi per la ripresa e la pace.

“I sopravvissuti non sono numeri”, conclude Umerova. “Sono esseri umani. Proteggendoli, si protegge la società stessa”.

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