Romania, da paese di emigrazione a paese di accoglienza

Un’intervista che racconta storie di vulnerabilità, resistenza e comunità che crescono, mentre il Paese si confronta con la sua propria esperienza migratoria

27/08/2025, Oana Dumbrava -

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Bucarest, Romania. Lavoratori stranieri addetti alle consegne di cibo © LCV/Shutterstoc

Da qualche anno la Romania non è più soltanto un Paese che manda migranti all’estero: al contrario, è diventata un Paese accogliente non solo per i rifugiati, ma anche per migranti economici.

Le comunità straniere ci sono sempre state: basti pensare alle storiche presenze di tedeschi, russi – lipoveni, turchi, greci, italiani e cosi via. Negli anni Duemila, inoltre, è arrivato un flusso consistente di migranti cinesi, che si sono ben integrati portando avanti, come da tradizione, le proprie attività economiche e la propria vita familiare.

Oggi, però, oltre a loro e ai rifugiati in maggioranza ucraini — generalmente si fermano solo temporaneamente in Romania — si registra una crescita costante dei lavoratori migranti.

È pronta la Romania ad accoglierli? Com’è la situazione e qual è lo stato d’animo nel contesto attuale? Ne abbiamo parlato con Georgiana Bădescu, che da diversi anni lavora presso il Centro di Risorse Giuridiche (CRG) di Bucarest, una ONG attiva sin dal 1998.

"Nel settore dell’immigrazione, il CRG — racconta Georgiana —ha iniziato concentrandosi soprattutto sugli aspetti giuridici. Con il tempo, però, questo impegno si è ampliato includendo forme di supporto diretto: assistenza con documenti e contratti, sostegno in situazioni di abusi, trasferimenti o rimpatri, nonché supporto emozionale sia direttamente a Bucarest che in altre città, come Cluj, Tulcea o Botoșani, tramite accompagnamento a distanza".

Quali sono i numeri e le principali nazionalità dei migranti che arrivano oggi in Romania?

Per il 2024, il governo ha approvato un contingente di 100mila lavoratori stranieri, un numero quattro volte più alto rispetto al 2021. Questa quota non viene sempre raggiunta, ma è il risultato di una crescente richiesta di visti sul mercato del lavoro. Nel 2019, ad esempio, i lavoratori stranieri erano circa 80mila, mentre oggi, nel 2023, ne contiamo oltre 200mila, di cui un terzo a Bucarest. La maggior parte proviene da Nepal, Sri Lanka e Bangladesh.

La Romania ha perso forza lavoro o ha semplicemente deciso di aprirsi e facilitare l’immigrazione?

Con l’emigrazione della propria popolazione e la crescente insoddisfazione politica, la Romania ha sicuramente perso una parte della sua forza lavoro, sia specializzata che generica. Nel 2024, ad esempio, i primi annunci di assunzione riguardavano magazzinieri, corrieri, manodopera non qualificata nel settore edile e aiuto-cuochi.

"Per arrivare in Europa — leggevo in uno dei suoi post su Facebook — servono diverse migliaia di euro, spesso prestiti garantiti con la propria casa, una presenza impeccabile per ottenere il visto" (che nel frattempo è diventato un processo piuttosto umiliante).

Il percorso è lungo e pieno di ostacoli, e raramente qualcuno ti spiega chiaramente quali siano i tuoi diritti. Non mancano, purtroppo, abusi di ogni tipo. I lavoratori migranti si trovano sempre alla mercé di qualcuno, privi di reale autonomia. Da un lato dipendono dal datore di lavoro o dall’agenzia, che può decidere se procurare o meno i documenti necessari. A parte aspettare, non hanno molti strumenti. All’IGI (Ispettorato Generale per l’Immigrazione), gli appuntamenti sono spesso in ritardo, a volte addirittura cancellati. Inoltre, i lavoratori non possono lasciare il primo datore di lavoro prima di un anno, a meno che non ottengano la cosiddetta release letter o NOC – no objection certificate. In pratica, è il datore di lavoro a decidere se concederla oppure no.

È una situazione che vale solo per la Romania?

Diciamo che l’Europa occidentale non è più così rigida, nel senso che le procedure sono più prevedibili. Da noi, però, il sistema è pensato più in ottica di controllo che di protezione. È come se i lavoratori fossero considerati un fenomeno da monitorare, non persone da tutelare. Mi riferisco soprattutto ai lavoratori asiatici, in particolare da Bangladesh e Nepal. Loro trovano le offerte tramite agenzie di reclutamento, conoscenti o manifesti. Per partire contraggono prestiti, di solito garantiti con la casa. L’agenzia si occupa della domanda e loro vanno al colloquio. Ma, ad esempio, il Bangladesh non ha un’ambasciata romena, quindi devono recarsi in India. Lì attraversano procedure spesso umilianti.

C’è chi si è presentato con un permesso nel settore edile e l’intervistatore gli ha chiesto di mostrare le mani, per verificare se davvero aveva lavorato in quel campo. Spesso il visto viene rifiutato; i più fortunati lo ottengono al terzo tentativo. A volte arrivano in ritardo e il datore di lavoro non ha più bisogno di loro. Ho letto di un caso, ad esempio, in cui dei lavoratori nepalesi sono stati lasciati direttamente all’aeroporto di Otopeni e abbandonati là.

Una volta in Romania, devono rivolgersi all’Ufficio immigrazione, dove inizia un periodo di incertezza: hanno bisogno del CNP (Codice Numerico Personale), che viene rilasciato dopo tre mesi. In quei primi mesi, quindi, finiscono per lavorare senza beneficiare di alcun servizio, perché formalmente non hanno ancora il CNP. Dopo tre mesi lo ottengono, e solo dopo un anno possono avere la release letter. Significa che, in pratica, non è possibile lasciare il primo datore di lavoro prima che sia trascorso almeno un anno.

Arrivano quindi a lavorare in condizioni di insicurezza, spesso senza sapere nemmeno a chi rivolgersi e senza la possibilità di cambiare facilmente lavoro. Sembra un po’ lo scenario che tanti romeni hanno vissuto all’estero tempo fa…

Un po’ sì… Hanno tre mesi di tempo per trovare un impiego e completare tutte le pratiche necessarie. Vengono esclusivamente per un posto di lavoro, che possono occupare solo se non esiste un cittadino romeno disponibile per quella posizione. Dopo aver ottenuto la release letter dal primo posto di lavoro, la situazione diventa più semplice. Una mia conoscente, ad esempio, non si è presentata al lavoro e con molta determinazione è riuscita a liberarsi.

Se poi emerge che in realtà durante i tre mesi i loro datori di lavoro non avevano presentato tutti i documenti richiesti, i lavoratori possono andarsene volontariamente oppure, a seconda dei casi, essere accompagnati “sotto scorta” o finire in un centro di custodia pubblica. Un’altra opzione — più rischiosa — è quella di attraversare illegalmente il confine, con esiti imprevedibili.

La disperazione porta a decisioni molto pragmatiche poiché molti di loro vengono qui soprattutto per mandare soldi a casa, diventando spesso l’unica fonte di reddito per i propri cari e le famiglie li considerano la loro unica rete di sicurezza.

Si può parlare di discriminazione in Romania?

Molti migranti non concepiscono nemmeno cosa significhi la parola “discriminazione”. Non interiorizzano subito l’idea dell’essere “diversi”. Poi, una volta compreso, ciascuno ha una storia da raccontare: episodi sull’autobus, al lavoro… La lingua è spesso un ostacolo, anche se si impegnano molto per impararla, pur non essendo abituati a un alfabeto latino e senza avere accesso a corsi gratuiti. Questi, infatti, sono riservati solo ai rifugiati. Così accade che, ad esempio, lavoratori del settore HORECA che si rivolgono agli ospiti in inglese vengano rimproverati o guardati male.

Parlando di discriminazione, mi ricordo la protesta di Ditrău, nella provincia di Harghita, contro due persone dello Sri Lanka assunte come fornai: c’era chi sosteneva di non voler mangiare pane “fatto da mani straniere”. Oppure il caso di un ragazzo pakistano che consegnava cibo in un complesso residenziale: gli hanno chiesto se fosse musulmano e poi gli hanno detto di lasciare la consegna sui gradini. Era molto confuso, non capiva come comportarsi “nel modo giusto” dentro una cultura diversa.

Un altro esempio è quello di un corriere che aveva rilasciato un’intervista a un’emittente televisiva del Bangladesh denunciando una società romena che non rilasciava documenti: l’azienda, in seguito, lo ha addirittura torturato. Sono tanti i casi di situazioni discriminatorie e aggravanti in una società come la nostra, che stranamente non è ancora abituata alla diversità. Perfino il discorso pubblico è spesso carico di pregiudizi: dall’ex presidente Traian Băsescu, che temeva che la Romania si trasformasse in una “moschea”, fino al candidato della destra di quest’anno, George Simion, con la sua continua preoccupazione per “i suoi romeni”, ai quali il lavoro non dovrebbe essere rubato.

Ci sono anche storie positive legate alla migrazione in Romania? 

Ci sono di certo anche esempi di integrazione e vita che scorre. C’è la comunità dello Sri Lanka, che negli ultimi tempi organizza feste tradizionali con centinaia di persone, invitando persino DJ dal loro Paese. Ci sono poi comunità locali, come quella dei ciclisti Let’s Ride, che coinvolgono attivamente i migranti nelle loro attività.

E ci siamo anche noi la CRG. Non ci limitiamo a fornire servizi sociali, ma portiamo avanti progetti culturali. Quest’anno, ad esempio, grazie a un’iniziativa collettiva della nostra ONG, abbiamo ottenuto un finanziamento dall’AFCN per un progetto culturale che comprenderà 12 interviste con lavoratori migranti, uno spettacolo teatrale interattivo “Una giornata nella vita di un lavoratore migrante”, un documentario, (Amministrazione del Fondo Culturale Nazionale) un opuscolo informativo e incontri con lavoratori migranti. È un progetto nato da un mix di necessità e curiosità che inizia a prendere forma a Settembre di quest’anno.

Cosa dovremmo sapere sulla vita dei migranti in Romania?

È importante ricordare che, al di là del fatto che vengano spesso considerati semplicemente operatori economici, sono persone con una cultura, aspirazioni e famiglie. Non vivono in un vuoto. Sono come trottole dentro la società: ricevono spinte da ogni parte, da destra e da sinistra, e restano vulnerabili. La percezione comune è quella di vederli isolati, come se fossero figure senza legami, quando invece andrebbero trattati con rispetto e dignità. Bisognerebbe riconoscere il loro status di “vittime collaterali”: appesi a fili che altri tirano come vogliono. Spesso, della loro stessa vita, non decidono nulla.

È strano che non siamo riusciti ad imparare dalla nostra stessa esperienza di migranti…

È triste, in effetti. Abbiamo esportato milioni di romeni all’estero, ma non abbiamo imparato dalla nostra stessa esperienza migratoria. I romeni, spesso, hanno l’impressione che i migranti che arrivano qui siano assistiti socialmente, quando in realtà loro pagano contributi allo Stato, versano tasse senza però ricevere nulla in cambio. Prendiamo i contributi pensionistici: li pagano come qualsiasi cittadino romeno, ma per la maggior parte di loro sarà impossibile usufruire di quella pensione.

 

Questo articolo è stato prodotto nell’ambito diMigraVoice: Migrant Voices Matter in the European Media”, progetto editoriale realizzato con il contributo dell’Unione Europea. Le posizioni contenute in questo testo sono espressione esclusivamente degli autori e non rappresentano necessariamente le posizioni dell’Unione europea.