Serbia, intercettazioni e arresti
Col proseguire delle proteste in Serbia, le autorità continuano a reprimere utilizzando anche lo strumento della carcerazione preventiva come misura punitiva. Emblematico il caso dell’attivista Marija Vasić, entrata in sciopero della fame dopo mesi di detenzione

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Belgrado, Serbia - - © Bum Realnost/Shutterstock
Da sette mesi ormai in Serbia continuano le proteste, come anche la campagna di arresti e detenzioni contro gli oppositori del regime. Ad oggi molti attivisti, membri di movimenti e partiti politici, studenti, giornalisti, contadini e utenti di X (Twitter) sono stati posti in stato di fermo per “attività anti-statali”. L’imputazione formulata dalla procura è quella di aver messo a rischio la sicurezza dello Stato.
È impossibile fare un bilancio di tutte le persone fermate e tenute in custodia, anche perché le informazioni sui procedimenti penali avviati spesso giungono al pubblico con grande ritardo.
Per i critici del governo, stiamo assistendo allo stesso modello di repressione della cosiddetta “rivoluzione colorata” – come la leadership al potere definisce le proteste – che viene applicato in Bielorussia e Russia, compresa la palese violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Il paradosso è che la custodia cautelare viene imposta quasi in automatico, come se fosse una punizione, e non una misura che si applica in caso di pericolo di fuga dell’indagato o di reiterazione del reato di cui è accusato.
Chi sostiene le proteste concorda sul fatto che si tratti di processi politicamente motivati. L’élite al potere accoglie con favore la campagna di arresti e detenzioni contro i partecipanti e i sostenitori delle proteste, considerano queste misure necessarie per proteggere lo stato dai nemici interni ed esterni.
Né il governo né i manifestanti sono soddisfatti del lavoro svolto dalla procura e dai tribunali. La leadership politica – che di fatto esercita un’influenza sulla maggior parte dei tribunali e degli uffici del pubblico ministero nel paese – ritiene che le pene siano troppo clementi e contesta regolarmente il rilascio dei manifestanti.
D’altra parte, l’opinione pubblica critica verso il potere mette in guardia sulle violazioni della legge e sui frequenti ritardi nei procedimenti contro gli imputati. Allo stesso tempo – sottolineano i critici – i responsabili degli attacchi contro gli studenti e i cittadini durante le proteste non sono ancora stati sanzionati e alcuni nemmeno fermati.
L’ultimo di una lunga serie di arresti su larga scala è avvenuto il 14 marzo scorso, quando la direzione della polizia criminale, su ordine della procura di Novi Sad, ha arrestato sei persone. Come ha fatto sapere il ministero dell’Interno, gli arrestati sono sospettati di “aver commesso un reato contro l’ordine costituzionale e la sicurezza della Serbia”, uno dei reati più gravi previsti dall’ordinamento giuridico del paese.
Nell’operazione del 14 marzo sono stati arrestati cinque membri del Movimento dei cittadini liberi (PSG) – Marija Vasić, Lado Jovović, Mladen Cvijetić, Davor Stefanović e Srđan Đurić – e uno studente, Lazar Dinić, membro dell’organizzazione STAV, tutti di Novi Sad.
Stando alle informazioni disponibili, il motivo dell’arresto è stata una conversazione svoltasi durante un incontro informale alla vigilia della grande manifestazione di protesta organizzata lo scorso 15 marzo a Belgrado. Si parlava di una possibile irruzione nella sede della Radiotelevisione della Serbia (RTS).
La manifestazione del 15 marzo si è conclusa prima del previsto a causa di un incidente, tuttora irrisolto, con la cosiddetta “onda sonica”.
Oltre al fatto che non è mai avvenuta alcuna irruzione violenta nella sede della RTS organizzata dai sospettati, gli avvocati della difesa e l’opinione pubblica trovano problematiche le modalità con cui l’accusa è venuta a conoscenza dell’azione presumibilmente pianificata. Ci si chiede come sia stato realizzato il video che costituisce l’unica prova contro i sei sospettati, chi lo abbia fornito alla procura e se ci sia un’ordinanza emessa dal tribunale per autorizzare le intercettazioni dei cittadini arrestati.
Vi è un altro aspetto particolarmente problematico. Il video in questione è stato diffuso dai media allineati prima dell’arresto dei sospettati – dinamica che rappresenterebbe un nonsense par excellence in qualsiasi paese basato sul diritto.
In Serbia invece si assiste regolarmente a episodi analoghi. La polizia effettua pedinamenti e intercettazioni senza alcuna autorizzazione del tribunale, e le informazioni pertinenti vengono fornite ai media di regime prima che la procura compia qualsiasi azione. Così si prepara il terreno per un vero e proprio linciaggio a cui sono sottoposti i sospettati, soprattutto se i loro nomi vengono collegati al terrorismo.
Dopo l’arresto, l’agonia dei sei attivisti arrestati lo scorso 14 marzo è proseguita. Sono rimasti in custodia cautelare per settimane senza che venisse sollevato un atto di accusa, con pochi e limitati incontri con gli avvocati, in condizioni disumane nel carcere di Klisa a Novi Sad, dove, come nel Medioevo, le cimici e altri insetti li pungevano giorno e notte.
Dopo quasi due mesi e l’ennesima proroga della custodia cautelare, lo scorso 13 maggio l’attivista Marija Vasić ha iniziato uno sciopero della fame, durato per giorni. Con l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, Marija è stata trasferita all’ospedale carcerario di Belgrado.
Sulla scorta delle pressioni dell’opinione pubblica sono state organizzate diverse proteste davanti al tribunale e al carcere di Belgrado per chiedere il rilascio dell’attivista. Anche la Commissione europea ha reagito con una dichiarazione in cui si esprime “profonda preoccupazione per il peggioramento delle condizioni di salute della professoressa e attivista Marija Vasić”.
La Commissione ha invitato le autorità serbe a fornire all’attivista cure adeguate e a rispettare “i diritti umani fondamentali in detenzione”, precisando che le autorità sono tenute a garantire il rispetto della dignità della persona detenuta.
Nel frattempo, sono proseguite anche le proteste a Novi Sad, con il blocco del tribunale, come già avvenuto dopo l’arresto degli attivisti che avevano partecipato all’organizzazione della prima protesta dopo la caduta della tettoia a Novi Sad.
Sulla scia delle forti pressioni, la Corte d’Appello lo scorso 20 maggio ha concesso gli arresti domiciliari a Marija Vasić, Lazar Dinić e Lado Jovović. Questa misura, che include il divieto di utilizzare il telefono e Internet e di ricevere persone nella propria abitazione, può essere applicata fino al 20 agosto.
Otto giorni dopo la prima ordinanza, e tredici giorni dopo l’inizio del blocco del tribunale, anche gli altri tre attivisti sono stati messi agli arresti domiciliari.
Marija Vasić, come gli altri imputati, non può comunicare con il pubblico, quindi sentiremo la sua testimonianza solo dopo la scadenza degli arresti domiciliari. Il figlio di Marija, Milan Čanak, ha dichiarato che dopo il rilascio dal carcere sua madre era debole e aveva diversi problemi di salute.
Per Marija – come ha spiegato suo figlio – il dolore più grande durante il periodo trascorso in carcere è stata la sensazione di “essere sola, abbandonata da tutti”, perché non sapeva cosa stesse accadendo fuori, non sapeva nulla delle proteste dei cittadini che chiedevano la sua liberazione.
Čanak non ha voluto commentare le esternazioni del presidente Vučić, che nei giorni in cui Marija Vasić era in sciopero della fame ha dichiarato che l’attivista “sta benissimo e mangia e beve come un drago”. Per Čanak, la cosa più importante è che sua madre “si riprenda per poter continuare a lottare per una società migliore”.
Marija Vasić è una nota attivista serba. Docente di sociologia nel più antico liceo di Novi Sad, si distingue per le sue posizioni antifasciste e si occupa in particolar modo dei temi dell’Olocausto e del pogrom di Novi Sad.
Quest’ultimo evento – impresso in modo indelebile nella memoria degli abitanti di Novi Sad – si riferisce all’operazione delle autorità ungheresi che nel 1942, in meno di un mese, uccisero quasi quattromila tra ebrei, serbi e rom nel territorio della Bačka, occupata dai nazisti.
In Serbia, i processi motivati politicamente sono diventati una consuetudine. La procura tende a qualificare qualsiasi azione come istigazione ad un rovesciamento violento dell’ordine costituzionale (la pena prevista per questo reato è da tre a quindici anni di carcere), ordina la misura di custodia cautelare di due mesi, senza però fornire alcuna prova, rendendo così impossibile accertare la sussistenza del reato.
Per l’avvocato Ivan Ninić si tratta di un tentativo di demonizzare e intimidire gli attivisti. Il caso dell’attivista Srđan Žunić, tenuto in custodia cautelare per 54 giorni, illustra al meglio la campagna messa in atto dal regime contro quella che definisce “una rivoluzione colorata”.
Secondo Ninić, il presidente serbo “odia Žunić a causa del suo attivismo”, e le procure e i tribunali seguono gli ordini del potere esecutivo. Lo dimostra anche il caso dell’agente di polizia Katarina Petrović di Valjevo, accusata di aver diffuso pubblicamente informazioni sensibili su un incidente stradale causato da Nikola Petrović, padrino di Vučić, sotto l’effetto di alcol e cocaina. Tuttavia, i dati sugli incidenti stradali non possono essere considerati riservati.
La campagna di arresti e detenzioni contro gli attivisti è iniziata sette mesi fa a Novi Sad. Uno dei primi bersagli, Miša Bačulov, consigliere comunale di Novi Sad e leader del movimento “Heroji”, è stato posto in stato di fermo per aver organizzato una protesta portando davanti al municipio una cisterna, presumibilmente contenente acque reflue.
Tuttavia, successivamente è emerso che nella cisterna c’era l’acqua del rubinetto di Zrenjanin, città della Vojvodina dove da decenni ormai la popolazione non ha accesso all’acqua potabile pulita.
Questa la testimonianza di Bačulov in cui descrive la sua esperienza in carcere.
“Le condizioni di detenzione a Klisa sono estremamente disumane. Quattro o cinque persone in una cella talmente piccola da non potersi muovere, è molto difficile mantenere l’igiene ed è impossibile proteggersi dalle cimici. Tutti dormivamo in tuta infilata nei calzini, la parte superiore della tuta infilata nei pantaloni, con il cappuccio in testa, ma non bastava. Ci svegliavamo tutti rossi e morsi dalle cimici. Sono un atleta e ancora mi alzo alle cinque del mattino per allenarmi. Quindi, per me non è stato tanto difficile sopportare il ritmo quotidiano e l’isolamento quanto le cimici e il fatto di dover guardare i miei di compagni di cella che non erano abituati a quelle condizioni. È una vergogna che nel XXI secolo le persone senza precedenti penali, che non hanno commesso alcun reato, siano sottoposte a custodia cautelare in tali condizioni solo perché lottano per la libertà e per una società giusta, mentre i principali responsabili della tragedia avvenuta alla stazione ferroviaria di Novi Sad restano a piede libero”.
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